25. Il Cantinori
Bowman era amico dei Baum, benché lui e Robert non fossero mai stati molto intimi. A eccezione di qualche festa ogni tanto, la sera si vedevano raramente, una volta tuttavia cenarono insieme in uno dei ristoranti preferiti di Baum, Il Cantinori, che aveva una grande sala, simile a una sala da pranzo privata, ma con una profusione di tovaglie bianche e di fiori, affacciata su una via tranquilla. Il servizio era buono - ovviamente i camerieri conoscevano Baum - e il cibo eccellente. Lui e Diana erano appena rientrati dall'Italia. Tornare a casa, disse lei, era sempre difficile. Adorava l'Italia. Oltre tutto, era uno dei pochi luoghi dove ti si riaccendevano le speranze per il futuro. I campi e le colline erano bellissimi, incontaminati. Era molto consolante. E la gente di solito molto gentile. Un giorno voleva andare all'ufficio postale e aveva chiesto indicazioni a un uomo davanti a un negozio. Mentre lui le spiegava come arrivarci, si fermò un passante e disse che quella non era la strada migliore e ne suggerì un'altra. I due uomini iniziarono a discutere e alla fine il passante disse: Signora, prego, venga, e la guidò attraverso una serie di viuzze fino a una piazza con un edificio imponente come quello di una banca nazionale, dove lei potè comprare un po' di francobolli.
« In quale altra parte del mondo farebbero una cosa del genere? » chiese.
Nel corso degli anni, Diana era diventata un personaggio influente, di cui si temevano i giudizi. Era una persona seria. Non voleva sentir parlare di eleganza e di moda. Quello che chiedeva alle persone erano opinioni politiche e giudizi sui libri, nel caso li avessero. Andava al cinema perché i film le piacevano, ma non li prendeva sul serio. Per il teatro era diverso. Non era bella - non lo era mai stata e ora non era più importante - ma aveva un viso invidiabile, nonostante le occhiaie leggermente scure, e una posizione ben definita.
Era leale fino in fondo e si aspettava che anche gli altri lo fossero con lei. Un giornalista che considerava amico aveva scritto un lungo articolo su Robert Baum dopo averlo intervistato nel suo ufficio e averlo incontrato diverse volte a pranzo. Baum sapeva come rendersi interessante. La sua casa editrice, da sola e insieme a un paio di altre, rappresentava almeno metà della letteratura americana. Meglio di lui non c'era davvero nessuno. Negli anni non era cambiato molto, anche se ora indossava abiti più costosi e a volte portava un cappello di feltro. Era affascinante e non disdegnava di dire vada o vadano affanculo con la stessa disinvoltura con cui lo avrebbe detto un agente letterario qualsiasi. Si preoccupava per i propri autori ma, in privato, non era necessariamente rispettoso nei loro confronti. L'articolo scriveva che Baum aveva classificato i suoi autori dividendoli in «buoni scrittori» e «buoni imbroglioni». Ma c'erano anche gli «scrittori molto molto buoni». Diana giudicò l'articolo imbarazzante. A un ricevimento si era trovata per caso faccia a faccia con il giornalista, e lui le aveva chiesto: «Sei arrabbiata con me?» «No, sono indifferente» aveva risposto.
Non era mai evasiva. Aveva un leggero accento newyorkese, ma non era newyorkese come quelli venuti da fuori, lei lo era al cento per cento. Essere stimato e sostenuto da lei, per un autore, era un onore non privo di oneri. Comunque li rispettava e li proteggeva. A una giovane donna che era andata a raccontare in tutte le redazioni di aver avuto una breve relazione con Saul Bellow, aveva fatto notare in tono gelido: «Ascolta, non si fa così. Il diritto di tradire uno scrittore importante te lo devi guadagnare».
Diana era cresciuta prima della Seconda guerra mondiale, in un appartamento ai limiti della rispettabilità, molto a nord di Central Park West, e nella sua famiglia si parlava solo di cronaca e di politica. Il padre aveva una piccola ditta di importazione di tessuti e, come tutti, durante la Depressione aveva fatto molta fatica a tirare avanti, ma ogni sera si riunivano insieme intorno alla tavola per la cena e parlavano di quello che succedeva in città e nel mondo e di come andava la scuola a lei e ai tre fratelli. Leggeva il «Times» ogni giorno da quando aveva otto anni, tutta la famiglia lo leggeva, inclusa la pagina degli editoriali. In casa non poteva entrare nessun altro quotidiano. Quando frequentava il liceo, durante il tragitto in metropolitana leggeva il «Daily News» e si sentiva in colpa.
Verso suo padre, che si chiamava Jacob Lindner, nutriva una grande devozione. Le piacevano i suoi capelli, il suo odore, le sue gambe robuste. La visione del padre in canottiera che finiva di vestirsi nella piccola camera da letto dei suoi era una delle prime immagini della sua infanzia. Le piacevano la sua tenerezza e la sua forza. Alla fine il padre, insieme a un vecchio amico, investì molto più di quanto avrebbe dovuto in una proprietà del New Jersey e non riuscirono più a pagare le rate del mutuo. La banca gli negò l'ipoteca e persero l'investimento. Lindner non disse niente a nessuno, a parte la moglie, ma tutti in casa lo sapevano. In qualche modo, disse loro, ce la caveremo.
Anni dopo, in metropolitana, le capitò un episodio inquietante. Era seduta di fronte a una barbona, una vecchia con un sacchetto di plastica che conteneva tutti i suoi averi.
« Ciao Diana » disse la donna sommessamente.
«Scusi?» La guardò.
« Come sta Robert? » chiese la donna. « Scrivi sempre? » Non aveva più scritto, dopo l'università. Forse aveva capito male, ma poi all'improvviso la riconobbe: si chiamava Jean Brand, erano state compagne di corso, al college, e lei si era sposata subito dopo. Era una bella ragazza a quei tempi. Ora al posto dei denti perfetti c'erano buchi. Diana aprì la borsa e sfilò dal portafoglio tutti i soldi che aveva. Li fece scivolare nella mano di Jean.
«Ecco, prendili» riuscì a dire. L'altra li accettò malvolentieri. «Grazie» disse sommessamente. Poi aggiunse: «Me la cavo.
Diana pensò a suo padre. Non lo aveva aiutato nessuno. Non si era mai ripreso dalla perdita. Ce la caveremo, ripeteva.
L'unico a cui l'aveva raccontato era Robert. Solo parlarne la turbava. Aveva incontrato Robert a diciotto anni. Lui era rimasto colpito da lei, ma pensava fosse troppo giovane, le dava quindici anni al massimo. Lui invece era già un uomo. Era stato in guerra. Quando si sposarono Diana non aveva alcuna esperienza sessuale. Non aveva mai conosciuto un uomo. Dubito che mia madre abbia mai conosciuto un altro uomo, disse, e che cosa si è persa? Niente, credo.
Era completamente soddisfatta del matrimonio, di quell'intimità che non avrebbe mai trovato altrove. Sapeva che le opinioni al riguardo erano cambiate, che ora le giovani donne erano molto più libere, soprattutto prima di sposarsi, e che i secondi e persino i terzi matrimoni erano molto comuni e a volte i più felici, ma erano cose che non la riguardavano. Lei e suo marito erano inseparabili. Era un legame ancora più profondo del matrimonio, anche se, certo, aveva amato molto il padre. I principi e gli ideali del padre l'avevano formata.
Si mormorava che Baum avesse avuto una relazione con una donna in ufficio, e che Diana ne fosse venuta a conoscenza - non poteva essere diversamente - ma che cosa si fossero detti lei e Baum al proposito nessuno lo sapeva. La donna, che aveva trovato un altro lavoro nella pubblicità, era cattolica, alta e nubile, e si chiamava Ann Hennessy; aveva le gambe lunghe e una personalità piuttosto riservata. A trentotto anni non era ancora sposata e aveva qualche trascorso alle spalle. A Baum piaceva il suo senso dell'umorismo. Si era spesso trattenuto a pranzo con lei. Era capitato che li vedessero insieme, ma non sembrava che nascondessero qualcosa. Lei era andata due volte alla Fiera di Francoforte.
A Bowman Diana piaceva molto, anche se era sempre cauto con lei. Gli piaceva, ne era certo, più di quanto lui piacesse a lei, o almeno più di quanto lei lasciasse intendere, eppure quella sera al ristorante era insolitamente aperta, come se si frequentassero abitualmente.
« Mi piacerebbe vivere in Italia » meditò lei a voce alta.
«A chi non piacerebbe? » disse Baum.
« Una cosa a cui penso sempre è che in Italia non hanno sterminato gli ebrei. Mussolini non lo ha permesso, checché se ne dica. » I tedeschi invece sì.
«No, è accaduto dopo» disse Baum. «Però a Mussolini non dispiaceva affatto che Ezra Pound facesse le sue trasmissioni. Pensava che andassero bene. » «Oh, Ezra Pound» disse Diana. «Ezra Pound era pazzo. Chi poteva dare retta a Ezra Pound? » « Probabilmente non molte persone. Penso fosse una radio a onde corte, comunque, ma è l'idea che conta. » «A mio parere non avrebbero dovuto dargli quel premio, il BoUingen. Glielo hanno dato appena hanno potuto. Era troppo presto, però. Non si premia qualcuno che ti ha infangato e che ha fomentato odio e ignoranza. » Baum aveva combattuto durante la guerra, conosceva però, e aveva persino pubblicato, scrittori che non ci erano andati, che erano riusciti a ottenere un rinvio o un esonero per ragioni fisiche, ma quella era semplicemente viltà. Non era come collaborare con il nemico, trasferirsi in Italia, sbarcare a Napoli e fare il saluto fascista.
« Io ero contrario » disse.
« Sì, ma non hai detto niente. Sei d'accordo con me? » chiese lei rivolgendosi a Bowman.
« Penso di essere stato contrario in quel momento. » «In quel momento? Era proprio allora che bisognava prendere posizione. »
Furono interrotti da un uomo elegante, vestito con un abito scuro, che si era avvicinato al tavolo dicendo: «Ciao Bobby». Poi, rivolto a Diana: «Ciao, pupa».
Era un uomo dall'aspetto florido e atletico. Le guance ben rasate quasi brillavano. Si chiamava Donald Beckerman. Era un amico e uno dei primi finanziatori della casa editrice.
«Non voglio interrompere la vostra cena» disse. «Volevo presentarvi a Monique. Tesoro» disse alla donna accanto a lui, «questi sono Bob e Diana Baum. Lui è un editore importantissimo. Vi presento mia moglie, Monique.» Lei aveva i capelli scuri e la bocca larga e l'aria di una persona scaltra e difficile da trattare.
«Volete sedervi un minuto? » disse Baum.
«Allora, come vanno le cose? » chiese Beckerman mentre si sedevano. «Nuovi best seller? » Lui e i suoi due fratelli si erano messi in affari insieme, investimenti, e avevano fatto un sacco di soldi. Il secondogenito era morto.
« Io sono Don » disse a Bowman tendendogli la mano.
Il cameriere si era avvicinato al tavolo.
«Volete cenare, signore?» chiese.
«No, abbiamo già un tavolo là in fondo» rispose Beckerman. «Ci tratteniamo pochi minuti. » «Bobby e io eravamo matricole insieme» disse Beckerman. «Eravamo gli unici due ebrei del corso. Di tutta la scuola, credo.» Aveva un sorriso vincente.
« Sei mai andato a un raduno di classe? » chiese a Baum. « Io ci sono andato sette o otto anni fa. Vuoi sapere una cosa? Non è cambiato niente. Mi ha fatto molta impressione rivederli. Sono rimasto una sola sera. » «Hai visto DeCamp? » Era il ribelle del corso e a Baum piaceva molto.
«No, non l'ho visto. Non c'era. Non so che fine abbia fatto. Hai più avuto sue notizie? »
Mentre parlavano, sua moglie chiese a Bowman: « Frequenti Donnal da molto tempo? » « No, non da molto. » « Capisco. » Era la seconda moglie di Beckerman. Erano sposati da poco più di due anni. Abitavano in un grande appartamento d'angolo in un palazzo di lusso vicino all'arsenale. Monique lo aveva arredato molto bene. Aveva gettato via la maggior parte dei mobili della prima moglie e aveva sostituito tutte le stoviglie.
«Le ho buttate tutte» disse.
« Erano tantissime » commentò Beckerman. « Avevamo una casa kosher. » « Io non sono kosher » disse Monique.
Era algerina. Proveniva da una famiglia di coloni francesi, pieds-noirs, avevano lasciato il paese quando erano iniziati i problemi ed erano tornati in Francia. Lei era diventata giornalista. Lavorava per una rivista dell'estrema destra cattolica, però non si interessava di politica, scriveva solo recensioni di libri e di spettacoli teatrali e a volte intervistava qualche scrittore. Aveva incontrato Beckerman tramite amici comuni.
Ascoltandoli, Bowman si rendeva conto con chiarezza sempre maggiore di non essere uno di loro, di essere un estraneo. Appartenevano allo stesso popolo, si riconoscevano e si capivano, anche se non si erano mai visti prima. Ce l'avevano nel sangue, era qualcosa che dall'esterno non si poteva cogliere. Avevano scritto la Bibbia con tutto quello che ne era derivato, il cristianesimo, i primi santi, eppure in loro c'era qualcosa che suscitava odio e li rendeva invisi, forse erano i rituali antichi, la dimestichezza con il denaro, il rispetto per la giustizia, di cui avevano sempre un gran bisogno. In Europa, l'inconcepibile sterminio li aveva falcidiati - Dio li aveva abbandonati - ma in America non era mai stato fatto loro del male. Li invidiava. Non era più il loro aspetto a renderli riconoscibili. Erano sicuri di sé, perfetti.
Baum non era religioso e non credeva in un Dio che ti uccideva o ti lasciava vivere secondo un progetto misterioso totalmente indipendente dal fatto che tu fossi onesto e devoto oppure inutile per il mondo. Il bene non aveva significato per Dio, eppure doveva esistere. Senza il bene il mondo sarebbe finito nel caos. Lui, per esempio, viveva secondo un'idea di bene, benché ci pensasse raramente. Nel profondo del cuore, tuttavia, riconosceva di far parte del popolo di Dio e il Dio in cui credevano loro sarebbe sempre stato anche il suo.
«Vai mai in Francia?» gli chiese Monique.
« Non molto spesso » rispose Bowman.
Lei aveva un aspetto piuttosto volgare, osservò, e non era bella, ma si faceva notare. Avrebbe potuto essere una ex fidanzata di Sartre, pensò distrattamente, anche se non aveva idea di come potessero essere. Sartre era basso e brutto e aveva una predilezione per le relazioni schiette che probabilmente lei avrebbe condiviso.
Infine le chiese: «Hai nostalgia della Francia? » « Sì, certo. » « Cosa ti manca di più? » « Qui la vita è più facile » rispose lei, « ma in estate andiamo in Francia. » «Dove?» « A Saint-Jean-de-Luz. » « Suona bene. Avete una casa lì? » « Lì vicino » rispose lei. « Dovresti venire. » Le loro donne non erano più un indaffarato sciame di madri e di mogli dell'Europa orientale. Adesso erano donne affascinanti e intelligenti come le viennesi dell'Ottocento, appartenevano a una specie selezionata, soprattutto le newyorkesi. Nessuno più le chiamava ebree. Il termine evocava sinagoghe e sperduti villaggi ortodossi della diaspora. Erano eleganti e ambiziose, al centro di tutto. Com'erano seducenti. Bowman non era mai stato con un'ebrea. Conducevano una vita piena di calore, senza alcun disprezzo per il piacere e le cose materiali. Avrebbe potuto sposarne una ed entrare a far parte di quel mondo, e a poco a poco essere accettato come un convertito.
Avrebbe potuto vivere in mezzo a loro, in quella secolare densità di legami famigliari, diventare una presenza fissa alle cene di Seder e alle feste di compleanno, indossare il cappello e buttare una manciata di terra nella tomba. Rimpianse di non averlo fatto, di non averne avuto l'occasione. Ma allo stesso tempo, non riusciva davvero a immaginarlo. L'appartenenza gli sarebbe sempre stata negata.