4. Come una persona sola

 

 

Mentre sedevano vicini o mangiavano o camminavano, lui condivideva liberamente con lei i suoi pensieri e le sue idee sulla vita, la storia, l'arte. Le parlava di ogni cosa. Sapeva che lei non si interessava a quegli argomenti, però capiva e col tempo avrebbe imparato. Lui non l'amava soltanto per quello che era, ma per quello che poteva essere, e l'idea che potesse essere diversa non gli passava per la testa, oppure non gliene importava. Perché avrebbe dovuto pensarci? Quando ami qualcuno vedi il futuro come lo sogni.

A Summit, dove voleva che sua madre incontrasse Vivian, la conoscesse e desse la sua approvazione, la portò prima alla tavola calda davanti al municipio, che era diventata un'istituzione. In realtà in origine si trattava di una carrozza ferroviaria con i finestrini affacciati sul viale. Il pavimento era piastrellato e il legno chiaro del soffitto scendeva curvando verso il muro. Il banco dove sedevano i clienti, ce n'erano sempre un paio, correva lungo tutta la lunghezza. La tavola calda era più frequentata la mattina; la stazione ferroviaria, della linea Morris & Essex che portava in città, si trovava proprio in fondo alla strada. I binari erano bassi e non si vedevano. Di notte le luci del locale erano le uniche della via. Si entrava da una porta di fronte al banco e poi ce n'era un'altra a un'estremità.

« È qui che Hemingway ha ambientato il racconto Gli uccisori» disse Bowman.

«Proprio qui, in questa tavola calda. Lo stesso banco, tutto. Lo conosci? È un racconto meraviglioso. Scritto in modo fantastico. Anche se non si è mai letto niente di suo si coglie   immediatamente la sua grandezza. È ambientato di sera. Non c'è nessuno, nemmeno un cliente, e nel locale deserto entrano due uomini che portano dei cappotti neri un po' stretti e si siedono al banco. Guardano il menu e ordinano qualcosa da mangiare, e uno dei due dice al cameriere dietro il banco: Veramente una bella città, com'è che si chiama, questo posto? E il cameriere, che ha paura, ovviamente, risponde: Summit. È proprio lì, dentro il racconto. Summit. E quando gli viene servito il cibo i due mangiano senza levarsi i guanti. Sono venuti per uccidere uno svedese, dicono al cameriere. Sanno che lo svedese va sempre in quel locale. È un ex pugile, si chiama Ole Andreson e non si sa come ha tirato un pacco alla banda. Uno dei due estrae il fucile a canne mozze che teneva sotto il cappotto e va in cucina a nascondersi e aspettare. » «È successo veramente? » «No, no. Hemingway ha scritto il racconto in Spagna. » «È tutto inventato. » «Quando lo leggi non sembra inventato. È questa la cosa davvero incredibile, che ci credi fino in fondo. » «E lo uccidono?» « Meglio ancora. Non lo uccidono perché lui non si presenta, però sa che gli stanno alle costole, che torneranno. È un uomo forte, un pugile, ma per quanto possa fare verrà ammazzato. Se ne sta a letto nella pensione dove vive, a fissare il muro. » Cominciarono a leggere il menu.

«Che cosa prendiamo? » chiese Vivian.

« Io credo che prenderò le uova con il prosciutto Taylor. » «Che cos'è?» «Un prosciutto tipico di queste parti. Non ho mai chiesto dettagli. » «D'accordo, le prendo anch'io. » Gli piaceva stare con lei. Gli piaceva averla vicina. Nel locale c'erano pochi altri clienti, ma come sembravano sbiaditi accanto a lei. Erano tutti consapevoli della sua presenza. Impossibile non accorgersene.

 

«Mi piacerebbe conoscere Hemingway» disse lui. «Andare a Cuba a incontrarlo. Magari ci potremmo andare insieme. » « Ecco, non saprei » rispose lei. « Forse. » «Devi leggere i suoi libri» disse Bowman.

Beatrice desiderava tanto conoscere Vivian e a modo suo rimase colpita anche lei dalla sua bellezza, dalla sua freschezza e dall'affermazione nuda, animalesca, di sé. Quante cose si colgono al primo incontro! Aveva comprato dei fiori e apparecchiato in sala da pranzo, dove mangiavano di rado, perché usavano quasi sempre il tavolo della cucina, appoggiato alla parete con uno dei lati corti. La cucina, con gli scaffali ma senza armadietti, era il vero cuore della casa, insieme a un salotto dove sedevano spesso a parlare davanti al camino, bevendo qualcosa. Ed ecco lì quella ragazza dai modi piuttosto freddi. Veniva dalla Virginia, e Beatrice le chiese da quale parte dello stato, Middleburg?

«In realtà siamo più vicini a Upperville» replicò Vivian.

Upperville. Dal nome sembrava un posto rurale e piccolo. In effetti era piccolo, c'era un locale dove mangiare ma né l'acqua né le fognature erano municipalizzate. Negli ultimi cent'anni non era cambiato niente e alla gente piaceva così, sia che abitassero in una vecchia casa senza riscaldamento sia che vivessero in una proprietà di quattrocento ettari. Upperville era un nome riverito, nella contea e oltre i suoi confini, emblema di una classe orgogliosa e campanilista a cui Vivian apparteneva. Non era un luogo di passaggio, bisognava viverci.

«La campagna è bellissima» commentò Bowman.

Beatrice disse: «Sarei felice di vederla. La tua famiglia ha un'attività? » «Abbiamo una fattoria» disse Vivian. «Be', mio padre se ne occupa un po', ma soprattutto dà i terreni in concessione per il pascolo. » « Deve trattarsi di molta terra. » « Non moltissima, circa centosessanta ettari. »  

«Interessante. E oltre all'agricoltura che cosa si fa? » «Papà dice che c'è tantissimo da fare. Si riferisce ai cavalli.» « I cavalli. » « Sì. » Non è che fosse difficile parlare con lei, ma se ne coglievano subito i limiti. Vivian aveva frequentato il liceo, probabilmente su consiglio del padre, che la voleva lontana dai guai. Aveva una buona sicurezza di sé, fondata sulle cose che sapeva con assoluta certezza e che si erano dimostrate sufficienti. Come tutte le madri, tuttavia, Beatrice aveva sperato in una ragazza più simile a lei, la cui visione del mondo potesse rispecchiare la sua. Ricordava ragazze così dagli anni dell'insegnamento, brave studentesse con un fascino del tutto naturale, che suscitavano ammirazione e attiravano gli altri, e poi c'erano ragazze più difficili da decifrare, e il cui destino ti sarebbe rimasto ignoto.

«Liz Bohannon non era di Middleburg?» chiese Beatrice evocando un nome, un cavallo e un personaggio famoso negli anni Trenta, sempre fotografata con il marito a bordo di qualche nave in procinto di salpare per l'Europa o nel loro box all'ippodromo di Saratoga.

« Sì, ha una grande casa. Lei e mio padre sono amici. » « È ancora in circolazione? » « Oh, circola moltissimo. » Giravano molte voci sul suo conto, disse Vivian. Quando avevano comprato la proprietà, Longtree, allora si chiamava così, tornando dalla caccia lei entrava in casa senza smontare da cavallo e lasciava entrare anche i cani. Che saltavano sul tavolo e mangiavano tutto. Dopo il divorzio si era un po' calmata.

«Oh, dunque la conosci? » « Sì, certo. » Vivian mangiava con una specie di cautela, non come se avesse davvero appetito. I fiori, che Beatrice aveva spostato di lato, costituivano un sontuoso fondale per la giovane dea pagana che aveva stregato suo figlio. Non si trattava esattamente di un sortilegio, ma Beatrice non disponeva degli strumenti adatti   per misurare quanto bisogno d'amore lui avesse e che forma prendesse quel bisogno, mentre lui era assolutamente certo di una cosa, e cioè che non avrebbe mai incontrato un'altra ragazza come Vivian. Si vedeva rotolare con lei fra le lenzuola e assaporava la fragranza della vita coniugale, i pasti e le vacanze, le stanze condivise, le sue nudità intraviste, la sua biondezza, la peluria chiara dove le gambe si incontravano, l'abbondanza di sesso, inesauribile.

Quando disse a sua madre che sperava di sposarla, Beatrice, pur sapendo che non sarebbe servito a niente, obiettò che erano troppo diversi, che non avevano niente in comune. Avevano molto in comune, rispose lui in un tono un po' provocatorio. Quel che avevano in comune era più vitale di qualsiasi interesse condiviso... era un'intesa, un accordo che non aveva bisogno di parole.

Ciò che Beatrice non disse, ma che sentiva nel profondo, era che a Vivian mancava l'anima, ma dirlo sarebbe stato imperdonabile. Si limitò a restarsene seduta in silenzio. Dopo un momento aggiunse: «Spero che tu non voglia precipitare le cose».

In cuor suo aveva molta paura, perché conosceva quello che da giovani non si è in grado di vedere. Sperava che con il tempo l'infatuazione passasse. Non le restò che stringere a sé la testa del figlio con amore e comprensione.

«Io voglio solo che tu sia felice, davvero felice. » «Lo sarò.» « Voglio dire nel profondo del cuore. » « Sì, nel profondo. » Era l'amore, la fornace in cui tutto si fonde.

A New York, in un ristorante economico che si chiamava El Faro, accanto a un muro annerito sul fondo, Vivian disse: «A Louise piacerebbe molto questo posto. Ha la passione della Spagna ».

«C'è mai stata?»  

« No. Non è mai nemmeno andata in Messico. Lo scorso fine settimana era a Boston con il suo ragazzo. » «Chi è?» « Si chiama Fred. Sono andati in un albergo e non sono mai usciti dal letto. » « Non sapevo che Louise fosse un tipo così. » «Era talmente indolenzita che non riusciva a camminare. » El Faro era affollato, la gente si accalcava al bar. Dall'unica finestra del locale si vedevano gli appartamenti di fronte del primo e secondo piano, stanze illuminate e spaziose dove una coppia avrebbe potuto vivere. Vivian era al secondo bicchiere di vino. Il cameriere si faceva largo fra i tavoli con i loro piatti sopra un vassoio.

«Che cos'è? È la paella? » chiese lei.

«Sì.» « Che cosa c'è dentro? » « Salsiccia, riso, vongole, tutto. » Lei cominciò a mangiare.

«Buona» disse.

I tavoli affollati e le chiacchiere tutt'intorno creavano una certa intimità. Bowman sapeva che era arrivato il momento, che in qualche modo glielo doveva dire.

«Sono felice quando vieni in città. » « Anch'io » rispose lei automaticamente.

«Davvero?» «Sì» disse lei e a Bowman il cuore batteva forte.

«Che cosa ne penseresti» chiese «dell'idea di vivere qui? Nel senso che saremmo sposati, ovviamente. » Lei smise di mangiare. Lui non riusciva a interpretare la sua reazione. Aveva sbagliato qualcosa?

«C'è così tanto rumore, qui dentro» disse Vivian.

«Sì, è rumoroso.» « Era una proposta di matrimonio? » «Faceva pena, vero? Comunque sì, è una proposta di matrimonio.

 

Ti amo» rispose lui. «Ho bisogno di te. Farei qualsiasi cosa per te. » Lo aveva detto, esattamente come lo pensava.

«Mi vuoi sposare? » le chiese.

« Dobbiamo ottenere il consenso di papà » disse lei.

Una felicità immensa lo riempì.

«Certo. È proprio necessario? » « Sì » disse lei.

Ci teneva, così disse, che lui chiedesse al padre la sua mano, benché avesse già ottenuto ben di più.

Il pranzo era stato fissato a Washington, al club di cui George Amussen era socio. Bowman si era preparato all'incontro con cura. Era andato a farsi tagliare i capelli e indossava un completo e un paio di scarpe lucide. Quando il cameriere lo fece accomodare, Amussen era già seduto. Al di là di una distesa di tavoli Bowman vide il futuro suocero intento a leggere qualcosa, e di colpo gli tornò in mente il mattino in cui era andato a casa del signor Kindrigen, benché da allora fosse passata molta acqua sotto i ponti. Adesso aveva ventisei anni, si sentiva più o meno sistemato ed era pronto a fare una buona impressione sull'impenetrabile padre di Vivian che, seduto da solo, a proprio agio, con i capelli ravviati all'indietro, gli ricordò qualcuno dei tempi della guerra, forse addirittura dello schieramento opposto, un comandante, o un pilota della Luftwaffe. Era mezzogiorno e i tavoli cominciavano a riempirsi.

«Buongiorno» lo salutò Bowman.

«Buongiorno. Lieto di vederla» ribatté Amussen. «Stavo giusto guardando il menu. Si sieda. Vedo che hanno l'agone. » Bowman prese a sua volta il menu e ordinarono l'aperitivo.

Amussen sapeva cosa voleva da lui il giovanotto, e aveva ripassato mentalmente i punti salienti della sua risposta. Era un uomo metodico, dalle convinzioni solide. Riteneva che uno dei pericoli più gravi e sottovalutati che la società si trovava ad   affrontare fosse l'imbastardimento, la libera ibridazione, che alla fine poteva produrre soltanto risultati catastrofici. Era un uomo del Sud, non del Sud profondo ma pur sempre di quella zona che si poteva chiamare Dixie, dove la domanda essenziale restava invariabilmente: quali sono le tue origini? Le sue erano piuttosto buone. Della bisnonna possedeva l'argenteria e alcuni pezzi di mobilia di ciliegio e noce, e aveva cresciuto le due figlie con più attenzione alle loro abilità di cavallerizze e alla loro capacità di stare in società che ad altro. Era stato al college, alla University of Virginia, ma per ragioni economiche al terzo anno aveva dovuto abbandonare gli studi, cosa che non aveva mai rimpianto particolarmente. Se glielo chiedevano, rispondeva che aveva frequentato la University of Virginia. Suo padre aveva gestito grandi depositi di prodotti agricoli e aveva una buona reputazione; il nome Amussen era rispettato, con la sola eccezione, forse, di un cugino che abitava vicino a Roanoke, Edwin Amussen, che possedeva una piantagione di tabacco e non si era mai sposato. Si diceva che convivesse con una donna di colore, e in effetti in casa sua c'era una ragazza, Anna, che aveva diciassette anni quando era entrata a servizio come cuoca. Aveva la pelle scurissima, con una tonalità rossastra, color prugna, la definiva lui, fragrante, e le labbra piene ed esperte. Due o tre mattine alla settimana saliva le scale sul retro fino alla camera da letto del padrone al primo piano, una grande stanza con una veranda ombreggiata, dove lui si era alzato presto per lavarsi e poi era tornato a letto, al fresco, ad ascoltare per una mezz'ora Anna muoversi in cucina. Le tende erano tirate e la stanza era illuminata parzialmente. Lei entrava, si sfilava la maglietta di cotone e si inginocchiava accanto al letto, adagiando la parte superiore del corpo come se volesse riposare, le braccia piegate dietro la testa. A quel punto, seguendo uno schema abituale, lui le distribuiva sulla schiena nuda e forte cinque dollari d argento lungo la spina dorsale, una moneta sulla nuca, una poco più in basso, una terza più in basso ancora, sul fondoschiena. Le ultime due finivano sulle scapole, come i bracci di   una croce. Senza fretta le sollevava la gonna, delicatamente, come se intendesse esaminarla da vicino, e in quelle occasioni lei non indossava niente, sotto. Si era preparata, a volte con una spuntatina, e lasciava che lui, lentamente, al ritmo di una sera d'estate o di un lungo pomeriggio, cominciasse, spesso parlandole di cibo, di quello che avrebbe voluto mangiare nei giorni successivi.

La cosa continuò per cinque anni, fino a un mattino in cui lei, che ne aveva ventidue, quando ebbero finito gli comunicò che si sposava. Non c'era bisogno di cambiare niente, ribatté lui blandamente, ma lei disse di no. Di tanto in tanto, tuttavia, poiché era ancora libera di muoversi per casa, si presentava in camera senza biancheria.

«Problemi col marito? » le chiese lui la prima volta.

« No. Solo l'abitudine » rispose lei piegando il busto sul letto.

«Ne avrai sei» le propose.

«Non c'è spazio per un'altra. » «Qui.» Le appoggiò la moneta sul palmo della mano, che amava.

Nessuno era al corrente di questo, era una relazione che esisteva in un mondo a sé stante, come certe visioni febbrili dei santi.

Nel 1928, a una cena elegante a Washington, George Amussen aveva incontrato Caroline Wain, che aveva vent'anni, parlava lentamente e aveva un sorriso provocante. Figlia di un architetto, era cresciuta a Detroit. Quattro mesi dopo erano sposati e circa sei mesi più tardi nasceva la loro prima figlia, Beverly. Vivian era arrivata un anno e mezzo dopo.

Caroline trovava piacevole la vita in campagna. Fumava e beveva. La sua risata divenne roca e piano piano un seducente rotolino di carne le si depositò sul girovita. Se ne stava a letto con le bambine e nei giorni di pioggia leggeva per loro. Amussen andava a lavorare a Washington e a volte tornava tardi o si tratteneva a dormire in città, e le sue attenzioni nei confronti di  

Caroline diminuirono, in un modo che lei percepì nettamente. Ne soffriva.

«George» gli disse una sera mentre bevevano qualcosa, «tu sei felice con me? » Non aveva ancora trent'anni ma le palpebre inferiori erano già gonfie.

«Che cosa vuoi dire, cara? » « Sei felice? » « Quanto basta. » «Mi ami ancora? » insistette lei.

« Perché me lo chiedi? » «Perché voglio saperlo. » « Sì » disse lui.

« Sì, mi ami? Vuoi dire questo? » « Se continui a chiedermelo non so cosa potrei risponderti.» «Allora significa che non mi ami più. » « Significa questo? » Seguì un silenzio.

« C'è un'altra donna? » chiese lei infine.

« Se anche ci fosse non avrebbe importanza » disse lui.

«Allora c'è.» «Ho detto se ci fosse. Non c'è. » «Sei sicuro? No, non sei sicuro, vero?» «Perché non mi ascolti, quando parlo? » A quel punto lei gli gettò in faccia il contenuto del bicchiere. Lui si alzò e tirò fuori il fazzoletto dalla tasca per asciugarsi.

In autunno lei gli gettò in faccia un altro drink a una festa a Middleburg, e pianse in automobile tornando a casa da diverse altre feste. Divenne una bevitrice, cosa di per sé non gravissima - bere, anche smodatamente, era considerato un aspetto della personalità, come il coraggio, nel loro ambiente -, però Amussen si stancò dell'alcol e di lei. Le sue ire erano come una malattia che non poteva essere curata e tantomeno guarita. Caroline si era portata il cuscino nella camera degli ospiti e dormiva lì. Prima dei dieci anni di matrimonio si erano separati, e poco dopo   avevano divorziato. Caroline andò a Reno per ottenere il divorzio e lasciò le figlie di otto e dieci anni con il padre per non turbare la routine domestica e costringerle a cambiare scuola. Benché ne avesse mantenuto la custodia non esercitò i propri diritti rigidamente, e Amussen fu contento di lasciare che le cose continuassero così com'erano.

Bowman incontrò Caroline Amussen - aveva conservato il cognome del marito perché valeva qualcosa - nel suo appartamento a Washington. Portava le pantofole ma aveva un'aria valorosa e lo accolse affettuosamente. Lui le piaceva, disse, e più tardi lo ripetè in privato alla figlia. Bowman aveva dimenticato che con il tempo le ragazze finiscono per diventare come le loro madri. Pensava che Vivian avesse preso dal padre e che sarebbe diventata una donna diversa.

Il cameriere si avvicinò a prendere gli ordini.

«L'agone com'è, Edward? » domandò Amussen.

«Buonissimo, signore.» « Ce ne sono due porzioni? » chiese. « Se le interessa » aggiunse rivolto al suo ospite.

Bowman ne dedusse che si trattava di un piatto locale.

«Si intende di pesca?» chiese Amussen. «L'agone è spinoso, in genere troppo spinoso per perderci del tempo. Ma il filetto è la parte migliore. » «Grazie, lo provo. Come viene preparato? » «In padella, con la pancetta. Lo fanno dorare. È così, vero, Edward? » Fu alla fine del pranzo, quando venne servito il caffè, che Bowman disse: «Sa, signor Amussen, io sono innamorato di Vivian».

Amussen continuò a mescolare il caffè come se non lo avesse sentito.

«E credo che lei sia innamorata di me» continuò Bowman. « Vorremmo sposarci. »  

Amussen continuava a non manifestare alcuna emozione. Era calmo, come se fosse solo.

«Sono qui a chiedere il suo consenso, signore» disse Bow-man.

Il «signore» suonava un po' servile, ma Bowman lo ritenne appropriato. Amussen era ancora occupato a mescolare lo zucchero nel caffè.

«Vivian è una brava ragazza» disse finalmente. «È cresciuta in campagna. Non so come si troverebbe a vivere in città. Non è il tipo. » Poi alzò gli occhi dalla tazza.

«In che modo pensa di provvedere a lei? » chiese.

«Be', ho un buon impiego, come sa. È un lavoro che mi piace, ho davanti una carriera. Guadagno abbastanza per tutti e due, a questo punto, e tutto quello che ho è suo. Farò in modo che non le manchi niente. » «Non è adatta alla città» ripetè Amussen. «Per esempio, ha sempre avuto un cavallo fin da quando era piccola. » «Non ne abbiamo parlato. Immagino che potremo sempre far posto a un cavallo » rispose Bowman con leggerezza.

Amussen non sembrava averlo sentito.

«Noi ci amiamo» disse Bowman. «Farò qualsiasi cosa in mio potere per renderla felice. » Amussen rispose con un lieve cenno del capo.

«Glielo prometto. Ci auguriamo di ottenere il suo consenso, dunque. La sua benedizione, signore. » Seguì una pausa.

«Temo di non potervela dare» disse Amussen. «Se voglio essere onesto con lei. » «Capisco.» «Non credo che funzionerebbe. Penso che sarebbe un errore. » «Capisco.» «Tuttavia non ostacolerò i desideri di Vivian» disse il padre.

Bowman uscì dal club deluso ma spavaldo. Sarebbe stato   una specie di matrimonio morganatico, quindi, garbatamente tollerato. Non sapeva bene che atteggiamento tenere, ma quando riferì a Vivian le parole del padre, lei rimase imperturbabile.

« Perfettamente nello stile di papà » disse.

Il pastore era un uomo di settant'anni con i capelli argentei e orbo dall'occhio sinistro in seguito a una caduta da cavallo. La vecchiaia gli aveva ammorbidito la voce, che era vellutata ma flebile. All'incontro prematrimoniale aveva detto che avrebbe rivolto loro tre domande che faceva sempre alle coppie. Voleva sapere se erano innamorati. Secondo: volevano sposarsi in chiesa? E per finire: il loro matrimonio sarebbe durato?

«Possiamo senz'altro rispondere di sì alle prime due» rispose Bowman.

«Ah» disse il pastore. «Bene.» Si era distratto e aveva dimenticato l'ordine in cui aveva posto le domande. « Immagino che essere innamorati non sia poi così importante» dichiarò.

Bowman notò che non si era fatto la barba, comunque il giorno delle nozze si presentò in condizioni migliori. C'era la famiglia di Vivian: la madre, la sorella, il cognato, alcuni parenti che Bowman non aveva mai incontrato e anche degli amici. Da parte dello sposo gli ospiti erano meno numerosi, però non mancavano Malcolm, il suo compagno di stanza a Harvard, con la moglie Anthea, e Eddins con un garofano bianco all'occhiello. Era una bella mattina fredda, poi il pomeriggio era volato in un'eccitazione che ne offuscava il ricordo. Prima Bowman era stato con sua madre e durante la cerimonia riusciva a vederla. Osservò Amussen accompagnare Vivian all'altare con un senso di vittoria. Mise da parte ogni timore, era come una scena teatrale. Durante la funzione guardò soltanto sua moglie, luminosa e pura, e dietro di lei Louise che sorrideva, mentre sentiva se stesso dire: Con questo anello io ti sposo. Ti sposo.

Eddins si dimostrò molto simpatico o comunque lasciò un buon ricordo in tutti gli invitati alla festa, che si svolse a casa della sposa; suo padre avrebbe voluto il Red Fox, l'antica locanda di Middleburg, ma era stato dissuaso.

 

Il rinfresco era allestito su un tavolo coperto da una tovaglia bianca e servito da due camerieri, discreti ma cortesi, che in un certo senso spiccavano per il colore diverso. Con il papillon e un sorrisone amichevole, la faccia rotonda del buontempone, il novello cognato, Bryan, si avvicinò a Bowman.

« Benvenuto in famiglia » disse.

I denti piccoli e regolari gli davano un'aria cordiale, lavorava per il governo.

«Bellissimo matrimonio» disse. «Noi non abbiamo avuto una festa. Il pater ci ha offerto tremila dollari, in effetti li ha dati a Beverly, perché andassimo a sposarci altrove. Probabilmente sperava che io scappassi con i soldi. O perlomeno così ha detto a me. Comunque siamo scappati. Tu di dove sei? » «Vengo dal New Jersey» disse Bowman. «Summit. » Anche lui veniva dalla costa orientale, disse Bryan. «Vivevamo a Mount Kisco. Guard Hill Road, la chiamavano Banker's Row perché tutte le case appartenevano a una consociata della Morgan. » Avevano un garage che poteva contenere quattro macchine. In effetti ne avevano tre e un autista.

«Si chiamava Redell. Faceva anche il cuoco, un tipo piuttosto sinistro» disse Bryan amabilmente. «Ci accompagnava a scuola. Avevamo una Buick e una Hispano-Suiza, un mostro enorme con un divisorio fra noi e l'autista e un tubo per comunicare con lui. Ogni mattina a colazione Redell ci domandava quale auto volevamo, la Buick o... la Hissy. La Hissy! dicevamo noi. E quando eravamo lontani da casa ce la lasciava guidare. » «Guidavi tu?» «Io e mio fratello. » « Quanti anni avevate? » «Io ne avevo dodici e Roddy dieci. Guidavamo a turno. Costringevamo Redell a lasciarcelo fare. Minacciandolo. Gli dicevamo che avremmo raccontato che aveva cercato di molestarci. * giri della morte, li chiamavamo. » «Roddy dov'è, adesso?»  

« Non sta più qui. È andato all'Ovest. Lavora nell'edilizia. Gli piace, quella vita. » Beverly si unì a loro.

«Stavamo parlando di Roddy» spiegò Bryan.

«Povero Roddy. Bryan lo adora. Tu hai fratelli o sorelle?» chiese a Bowman.

«No, sono figlio unico. » «Beato te» disse lei.

Non assomigliava a Vivian. Era una donna di corporatura massiccia, un po' sgraziata e con il mento sfuggente, e aveva la reputazione di parlare schiettamente.

«Allora, cosa te ne pare del signor Bowman?» chiese in seguito al marito. Stava mangiando una fetta della torta nuziale e teneva una mano sotto l'altra, a coppa, per raccogliere le briciole.

«Mi sembra un tipo abbastanza a posto. » «Ha studiato a Harvard, nientemeno.» « E allora? » « Credo che Vivian abbia commesso un errore. » « Cos'hai contro di lui? » «Non so. Un'intuizione. Però mi piace il suo amico.» « Quale? » «Quello con il fiore. È nervoso, guardalo. » «Che cos'è che lo innervosisce? » « Noi, probabilmente. » Eddins, che era al suo secondo bicchiere, in Virginia si sentiva più o meno a casa. Aveva conversato con un ex colonnello e con una donna non brutta che era venuta in compagnia di un giudice. Aveva parlato anche con Bryan, che gli aveva raccontato delle automobili che possedevano prima che la famiglia perdesse tutto e fosse costretta a trasferirsi a Bronxville, un vero peccato. Eddins stava tenendo d'occhio una bella ragazza in piedi dietro il giudice e infine la raggiunse.

«Vieni qui spesso? » le chiese in un tentativo di risultare spiritoso.

 

«Prego?» Si chiamava Darrin, era figlia di un medico. Eddins scoprì che si occupava di far esercitare i cavalli.

«I cavalli hanno bisogno di qualcuno che gli faccia fare esercizio? Non ci pensano da soli? » Lei lo guardò indignata.

Eddins cercò di coprire la gaffe con le chiacchiere.

«Dicevano che oggi ci sarebbero stati dei temporali, ma a quanto pare si sono sbagliati. A me i temporali piacciono. Ce n'è uno stupendo in Thomas Hardy. Conosci Thomas Hardy? » «No» rispose laconica lei.

«È inglese. Uno scrittore inglese. Gli inglesi sono i migliori. Lord Byron, il poeta. Incredibile. Aveva appena vent'anni ed era già l'uomo più famoso d'Europa. Folle, perverso, e pericoloso da frequentare, è il mio modello e cerco di imitarlo. » Lei non riuscì a sorridere.

«È morto di febbre a Missolungi. Hanno messo il suo cuore dentro un'urna e i polmoni da qualche altra parte, ho dimenticato cos'era... in teoria dovevano finire in una chiesa ma sono andati persi. Il corpo è stato rispedito in Inghilterra dentro una bara piena di rum. Al funerale c'erano tutte le sue donne, ex amanti...» Lei ascoltava con aria inespressiva.

«Nelle mie vene scorre sangue inglese» le confessò Eddins, «scozzese, soprattutto.» «Veramente?» «Gente selvaggia, scatenata. Fanno il bucato nell'urina» rispose lui.

«Cosa fanno? » «L'odore è quello, comunque.» Stava improvvisando, come faceva sempre quando beveva, e per proteggersi. Lei era palesemente disinteressata ai suoi discorsi, troppo giovane per sapere qualcosa del mondo. Eddins si era immaginato un matrimonio raffinato, vizioso, dove potersi appartare con una delle damigelle d'onore ubriaca, invece   c'era una damigella sola e non era di suo gusto. Peregrinò fin dallo sposo.

«E così questa sarà la tua tenuta di campagna, immagino. » «Ne dubito» rispose Bowman.

«Ho conosciuto tuo suocero. Bel latifondista. Ricco da far schifo. Comunque sei un uomo fortunato. Molto fortunato» disse lanciando un'occhiata a Vivian. «Ho ancora questo fiore. » Afferrò il bavero della giacca. «Lo conserverò come ricordo dentro un libro» proseguì guardandolo. «Ci vorrà un librone. Ho parlato con tua suocera. Bella su di giri. » Caroline vagava da un ospite all'altro, un po' appesantita rispetto all'ultima volta che era stata vista in giro, con le guance un po' più rotonde. Indossava un costoso abito nero e riusciva a evitare di trovarsi nei pressi dell'ex marito.

Beatrice aveva parlato poco. In chiesa aveva pianto. Aveva abbracciato Vivian ed era stata doverosamente ricambiata. Era tutto così: doveroso, contenuto, pieno di sorrisi e parole cortesi. Stava dicendo addio a suo figlio. Colse un'opportunità per abbracciarlo e dirgli con tutto il cuore: «Siate buoni l'uno con l'altra. Amatevi».

Eppure le sembrava un amore immerso nelle tenebre. Dubitava che sarebbe riuscita a conoscere la nuora. In quel giorno luminoso sembrava che le stesse capitando la peggior sfortuna. Aveva perso il figlio, sebbene non completamente, una parte di lui era al di là del suo controllo e ormai apparteneva a un'altra, una donna che lo conosceva appena. Ripensava a ciò che era stato, tutte le speranze e le ambizioni, gli anni che erano stati colmi di felicità, e non solo perché visti in retrospettiva. Si era sforzata di risultare simpatica all'altra famiglia e di fare una buona impressione affinché suo figlio fosse benvoluto.

George Amussen era un uomo che le sembrava di conoscere, con quella padronanza di sé, quei modi, la vita che la sua casa sembrava rappresentare. Le ricordava il marito, che da tanto tempo cercava di bandire dai suoi pensieri ma che pure era rimasto nella sua vita, distante e inoppugnabile.

 

Vivian era felice. Indossava l'abito bianco, non si era ancora cambiata, e benché le fosse mancato il tempo per abituarsi all'idea, era una donna sposata. Si era sposata nella sua casa, con la benedizione paterna, più o meno. Era successo, lo aveva fatto. Era sposata come Beverly.

Bowman era felice o gli sembrava di esserlo, Vivian era sua, una donna, o comunque una ragazza, bellissima. Vedeva la vita scorrere davanti a sé a tappe regolari, con la moglie accanto. In presenza della famiglia e degli amici di Vivian si rendeva conto di conoscerla poco, conosceva un lato che lo attraeva ma che non rappresentava né la totalità né la parte essenziale di lei. Mentre la osservava, alle sue spalle vedeva l'inflessibile padre, e poco lontano la cognata e il cognato. Perfetti estranei. Dall'altra parte della sala c'era la madre, Caroline, sorridente e alcolizzata. Vivian intercettò il suo sguardo e forse i suoi pensieri e gli sorrise, come se capisse. L'inquietudine si dissolse. Il sorriso di Vivian era amorevole e sincero. Fra poco ce ne andiamo, diceva. Quella notte, tuttavia, dopo essere arrivati a Washington, all'hotel Hay-Adams, sfiniti dagli eventi della giornata e nuovi alla condizione di coppia, si limitarono a dormire.