24. La signora Armour
Lei entrò nel ristorante da sola e rimase in piedi al bar per un po', continuando a rovistare nella borsa alla ricerca di qualcosa. Alla fine la trovò, era una sigaretta. Se la mise tra le labbra. La lentezza dei suoi gesti era inquietante, in un certo senso. Nessuno sembrava accorgersi di lei. Si rivolse a un uomo seduto lì vicino: «Mi scusi. Ha da accendere?» chiese.
Aspettò con una certa tranquillità che lui avvicinasse l'accendino alla sigaretta e poi si diresse verso il maitre per farsi assegnare un tavolo. Sebbene il ristorante fosse pieno, le diedero un tavolino vicino all'ingresso. Lei ordinò una bottiglia di vino. Mentre aspettava picchiettò delicatamente la sigaretta con un dito per far cadere la cenere sul piatto che aveva di fronte.
Il ristorante si chiamava Carcassonne. Si poteva definire un locale alla moda, aveva il nome scritto sulla vetrina in caratteri dorati. Si trovava di fronte al grande mercato all'ingrosso della carne, un po' come l'antico ristorante affacciato su Les Halles, a Parigi, ma a quell'ora il mercato era chiuso e la piazza deserta e silenziosa.
Ordinò, ma quando il cibo arrivò non vi prestò attenzione, sbocconcellò qualcosa e lasciò che portassero via il resto. Bevve tutta la bottiglia, però, e rovesciò un po' del vino dell'ultimo bicchiere, senza neppure accorgersene.
«Cameriere» disse, «vorrei un'altra bottiglia di vino.» Lui si allontanò e tornò dopo un po'.
«Mi dispiace, signora» disse. «Non gliene posso portare un'altra. » « Come? »
« Mi dispiace molto » disse. « Non posso. » Lei disse: «Cosa vuol dire, non posso? Dov'è il responsabile di sala? » « Signora » cominciò lui.
« Voglio parlare con il maitre » disse lei.
Non si curava di nessuno. Si girò e lo cercò come se fosse l'unica persona nella stanza.
Il maitre arrivò. Indossava lo smoking.
«Ho ordinato una bottiglia di vino» gli spiegò lei. «Vorrei una bottiglia di vino. » Era una signora di ceto elevato, maltrattata ingiustamente.
«Mi dispiace, signora. Credo che il cameriere glielo abbia già detto. Non le possiamo dare un'altra bottiglia. » Lei sembrava indecisa sul da farsi.
«Mi lasci bere almeno un bicchiere, allora» disse.
Lui non rispose.
« Solo un bicchiere. » Lui si allontanò per tornare al suo lavoro. Lei si girò sulla sedia.
«Per favore» disse alle persone dietro di lei. «Conoscete un posto che si chiama Hartley's? » « Sì. È a pochi passi da qui. » « Grazie. Mi porti il conto » annunciò al cameriere.
Quando le fu portato, lo guardò.
«Questo non può essere il mio conto» disse.
«È il suo conto, signora.» Lei rovistò nella borsa. Non riuscì a trovare quello che cercava.
« Ho perso cento sterline ! » disse.
Era arrivato di nuovo il maitre.
«Proprio adesso! » « Signora, può pagare? » chiese lui.
«Ho perso cento sterline» insistette lei cominciando a guardare sotto il tavolo.
«Ne è sicura?»
«Sicurissima» rispose lei con decisione.
«Signora, deve pagare il conto» disse lui.
« Ma ho perso i soldi » rispose lei. « Non mi ha sentita? » « Mi dispiace, deve pagare. » Lui era certo che non li avesse persi. Non avrebbero dovuto darle un tavolo. Era stato un grave errore. Lei aveva ripreso a frugare nella borsa.
« Ah » disse il cameriere rialzandosi.
Sotto la sedia aveva trovato due banconote arrotolate da cinquanta sterline.
«Adesso posso avere una bottiglia di vino? » chiese lei.
«Sì, signora» rispose il maitre. «Però non può berla qui. » «E allora cosa me ne faccio? » «Non la può aprire qui» ripeté lui.
Quando il cameriere tornò con la bottiglia, lei si rifiutò di prenderla.
« Non la voglio » decise. « Avete della carta in cui avvolgerla?» «Mi dispiace, signora. » «Be', non posso camminare per strada con una bottiglia in mano. » Si alzò, lo guardò. Poi gli porse i soldi, che lui non prese. Li prese il cameriere. Lei infilò il resto nella borsetta con noncuranza. Le portarono la bottiglia avvolta nella carta, e lei chiese all'uomo seduto al tavolo vicino da che parte era Hartley's.
« A sinistra » le rispose.
« A sinistra. » « Sì. » Augurò la buonanotte al maitre. Lui annuì.
« Buonanotte. » Fuori, girò a destra e un paio di minuti dopo passò di nuovo davanti alla vetrina del ristorante camminando nella direzione opposta. Più tardi la videro seduta da Hartley's, composta, che fumava una sigaretta. Il vino era dentro un secchiello accanto al tavolo.
Wiberg adesso si chiamava Sir Bernard Wiberg pur avendo l'aspetto di uno sceicco, e sulla sua tomba sarebbero stati legati mille cammelli. Era stato due volte a Stoccolma per la cerimonia di consegna del premio Nobel e aveva ricevuto un riconoscimento come editore dei vincitori. In effetti, era stato determinante per la loro vittoria. Si era assicurato che i loro nomi fossero citati spesso, ma non troppo né in modo troppo aggressivo, per non alterare il flusso di opinioni prima che arrivassero fino al comitato dei giudici svedesi, e Wiberg sapeva come far emergere uno scrittore, aveva un talento innato in questo campo, come per la pubblicità e la promozione. Ogni libro, ogni scrittore poteva attrarre l'attenzione solo a determinate condizioni e in circostanze temporali ben precise. Anche l'eccellenza, ne era certo, aveva bisogno di pubblicità.
A differenza di altri ricchi, lui non si domandava mai se era davvero migliore di un qualsiasi poveraccio incontrato per strada. Forse nascondeva dentro di sé la paura di perdere tutti i suoi soldi, ma certamente la sua paura non aveva niente a che vedere con quella che provano le donne. Fumava sigari Cohiba e a volte ne mandava una scatola a Baum a New York. Teneva sotto controllo il peso. La moglie doveva ricordargli di non mangiare una serie di cose che gli piacevano molto. A volte, in risposta alle sue suppliche, lei diceva: d'accordo, ma solo un pezzettino. Durante le cene importanti, se lo vedeva mangiare qualcosa di proibito, per non metterlo in imbarazzo davanti agli altri ospiti si limitava a scuotere un dito con discrezione. Era lei a occuparsi della gestione degli affari domestici. Ogni suo desiderio passava attraverso di lei. Era stata lei a convincerlo a comprare la casa in campagna, sebbene della campagna a lui importasse poco. Lei avrebbe preferito una casetta vicino a Deauville, ma a lui la Francia non piaceva. Gli piaceva il Cla-ridge's, stare tra pari, parlare con giovani donne di tanto in tanto.
Gli piaceva sedersi nel suo studio davanti al Bacon, che peraltro a sua moglie non piaceva affatto.
Lo aveva dipinto una persona disturbata, sosteneva lei.
«Bacon non è affatto disturbato come credi» disse Wiberg. «Al contrario. A mio avviso è un uomo fondamentalmente libero, se si può chiamare libera una persona schiava dei propri desideri. » « Quali sono i suoi desideri? » «Bere. Avere amanti sadici. Comunque quel che desidera non ha importanza. I colori sono stupendi. Il nero, il colore della carne, il viola. Si riesce quasi a sentire una musica o un silenzio terrificanti. » «In particolare non mi piace come dipinge i denti. » Erano stati a una mostra di ritratti di Bacon.
« Né il modo in cui trasforma le facce in orrendi budini » disse lei.
Catarina era ancora molto bella anche se non si esibiva da anni. Aveva un bel corpo, la vita ancora sottile e il collo levigato. Sembrava molto più giovane della sua età. Lo chiamava ancora cochon e, tranne quando era troppo impegnato a parlare di se stesso, lo trovava ancora interessante. Non riusciva a capire come potesse piacergli tanto Bacon. Aveva anche un Corot, molte stampe antiche e un quadro di Braque.
Wiberg non aveva mai conosciuto Bacon di persona, aveva solo letto di lui, della sua vita disordinata, degli anni trascorsi in Marocco con giovanotti decisamente volgari. Bacon emanava un'aura di tremenda santimonia. In lui convivevano amore e disgusto per la carne e una sconvolgente dissolutezza. In Bacon c'era tutto quello che era accaduto nel mondo durante la vita di una persona. Aveva anche un talento straordinario per il linguaggio. Lo aveva acquisito nelle cucine irlandesi, negli studi dei pittori e nelle stalle dove, da ragazzo, era stato posseduto dagli stallieri. La sua eloquenza derivava dalla freddezza e dalla disapprovazione del padre e dalla grande libertà che aveva conquistato tra i vizi di Berlino e di Parigi, naturalmente. Bacon apparteneva all'inferno, di cui condivideva il linguaggio collerico, i pettegolezzi e i tradimenti. Non si era mai nascosto né si era mai sottomesso ad alcun ideale artistico, e questo gli aveva consentito di diventare un grande artista. I suoi amanti avevano bevuto oppure si erano drogati fino a morire, e nel bel mezzo di tutta quella spazzatura, il gusto per gli abiti eleganti, il disprezzo per le cose a cui gli altri erano legati, la sua pigrizia e le sue ossessioni erano schizzate sulle pareti e lo avevano reso libero. Non aveva mai corretto una sua tela. Dipingeva sempre una volta per tutte.
Tutto questo avrebbe consentito di scrivere una splendida biografia, pensava Wiberg, ma solo dopo la sua morte. Bacon era nato nel 1909, undici anni prima di lui. Aveva bisogno di un po' di fortuna.
Enid Armour, invece, conosceva Bacon. Ne parlò una sera a cena destando subito l'attenzione di Wiberg. Lo aveva incontrato almeno due volte nel club di Soho che frequentava abitualmente. Glielo aveva presentato Henrietta Moraes. Che tipo era? le domandò Wiberg.
«Era cordiale. Siamo andati abbastanza d'accordo. Speravo che mi chiedesse di farmi il ritratto e mi facesse diventare famosa. So che hai uno dei suoi quadri. » «Avrei dovuto comprarne altri» confessò Wiberg.
Lei non aveva l'aria di stare bene, in quel periodo, pensò Wiberg. Sembrava affaticata. Ora la vedeva di rado, sempre in occasioni mondane, comunque lo sorprese scoprire che aveva conosciuto Francis Bacon, anche se frequentava quel giro. Gli risultava che fosse ancora sola. In passato gli aveva chiesto diverse volte di lavorare per lui, magari avrebbe potuto occuparsi di pubblicità, ma lui era certo che offrirle un impiego sarebbe stato un errore. Catarina sarebbe venuta a saperlo, e non voleva trovarsi a dover giustificare la decisione di averla assunta. Il suo fascino, in ogni caso, sembrava un po' appannato. C'erano donne che rimanevano interessanti anche quando la loro bellezza era ormai sciupata, e la franchezza di Enid gli era sempre piaciuta. Non era incline all'autocommiserazione.
«Temo di essere in declino. Si può fare affidamento sulla propria avvenenza, sul serio intendo dire, solo per un breve periodo» disse lei in tono sconsolato.
« È un problema comune » rispose lui.
Stava scherzando?
« Tu sarai sempre bello » disse lei.
«Sempre meno, temo.» «Finché avrai i soldi» disse lei.
Si era fatta notare in un certo ristorante, gli avevano riferito.
« Sì » ammise lei stancamente.
« Con chi eri? » «Con nessuno.» «Con nessuno?» « Cenavo da sola. » Ultimamente si prendeva meno cura di se stessa, ne era consapevole. Quella sera aveva bevuto davvero troppo e aveva speso molti soldi. Ricordare quell'episodio non la imbarazzava. Uscita dal ristorante era andata in un posto dove c'era una donna seduta su un divanetto con il suo cane. Si era avvicinata per accarezzarlo.
«Che bel cane. Come si chiama? » Non ricordava la risposta.
«Anch'io avevo un cane stupendo» disse. «Era un cane da corsa. Un campione, un bellissimo levriero. Li ha mai visti correre? Volano, letteralmente. Un animale bellissimo, davvero, e molto affettuoso, eccezionale. Affettuosissimo e coraggioso. » Era consapevole di avere un tono sempre più sdolcinato. « Non si può fare a meno di amarli. Era un periodo in cui non avevo preoccupazioni. »