5. Decima Strada
Il letto era sotto la finestra e una porta a vetri separava la camera dal soggiorno. La cucina era stretta e lunga e c'erano spesso i piatti da lavare perché Vivian non si curava delle faccende domestiche e lasciava in giro per tutta la casa indumenti e cosmetici. Dai preparativi, però, anche se brevi, emergeva una creatura splendente. Aveva un fascino naturale, anche senza rossetto e con i capelli spettinati, anzi, soprattutto così.
L'appartamento si trovava sulla Decima Strada, dove vivevano da sempre le vecchie famiglie newyorkesi, una via ancora tranquilla ma vicina a tutto, che formava con le adiacenti una specie di isola residenziale di normalità e discrezione. C'erano le fotografie che aveva portato Vivian, incorniciate. Due erano state messe sulla credenza: lei con la testa appoggiata al collo del cavallo mentre saltavano un ostacolo, con il casco nero da cavallerizza, il viso puro e indomito. Sapeva cavalcare, glielo si leggeva in faccia: il movimento del grande animale con le orecchie rivolte all'indietro per sentire e obbedire, il cuoio dei finimenti che cedeva e cigolava, li dominava; lei con Beverly e Chrissy Wendt che tornavano da una fiera di cavalli e scendevano dal camion impolverate, con i pantaloni da cavallerizze, Vivian così bella e bionda che sbadigliava senza ritegno come se fosse da sola e si fosse appena alzata dal letto. Aveva dodici anni ed era spontanea, persino maliziosa.
A otto anni, con i piedini troppo piccoli nelle scarpe con i tacchi della mamma e una sigaretta immaginaria in mano, era comparsa sulla soglia della camera da letto. La madre, seduta al tavolino da toletta, la vide riflessa nello specchio.
« Oh cara » dice Caroline notando anche le perle, « sei bellissima. Fammi fare un tiro. » Che felicità. Vivian entra ticchettando e tende la mano per avvicinarla alla bocca della madre che inspira ed espira un invisibile pennacchio di fumo.
«Sei elegantissima. Ti stai preparando per andare a una festa? » « No » risponde lei.
« Non stai uscendo? » «No, penso che inviterò qualche ragazzo» risponde Vivian con aria saputella.
«Qualche ragazzo? Quanti?» « Oh, tre o quattro. » «Non ne hai uno preferito? » chiede Caroline.
«Sono ragazzi più grandi. Vedrò. » L'età dell'emulazione, quando i pericoli non esistono, sebbene non sia sempre detto. In altre epoche le ragazze andavano spose a dodici anni, e le future regine, davanti alle quali inginocchiarsi, erano ancora più giovani, Edgar Allan Poe sposò una ragazzina di tredici anni, Samuel Pepys una di quindici, Machado, il grande poeta spagnolo, si innamorò follemente di Leonor Izquierdo quando lei ne aveva tredici, Lolita aveva dodici anni, la Beatrice di Dante ancora meno. Vivian era ingenua quanto loro, e rimase un maschiaccio fin quasi ai quattordici anni. Adorava inventare scenette con la madre. Amava e temeva suo padre e con la sorella litigava di continuo fin da quando avevano cominciato a parlare, bisticciavano tanto da spingere Amussen a chiedere ripetutamente alla moglie di affrontare il problema.
«Mamma! » gridava Beverly. «Lo sai cosa mi ha detto? » « Cosa? » Vivian ascoltava dal corridoio.
«Mi ha detto che ho un culone da cavalla. » «Vivian, glielo hai detto veramente?» gridava Caroline. «Vieni qui, lo hai detto veramente? »
Vivian era determinata.
«No.» « Bugiarda ! » strillava Beverly.
«Vivian, lo hai detto o no? » « Non ho mai detto la parola cavalla. » Non sempre cominciava come una lite, però lo diventava quasi inevitabilmente. Quando a tempo debito divenne evidente che tra le due la bella sarebbe stata Vivian, i ruoli si cristallizzarono e Beverly adottò il suo stile rude e caustico. Al contrario Vivian diventò notevolmente più femminile. Ciò nonostante crescevano facendo tutto insieme. Partecipavano alla caccia da quando avevano sette o otto anni. Vivian però era la preferita del caposquadra, il giudice Stump, che, molto versato nell'argomento donne, ne ammirava le forme. Quando lei indossava il costume da cavallerizza aderente lui la immaginava con qualche anno di più, e i suoi pensieri erano tutt'altro che paterni, del resto non era suo padre, soltanto un vecchio amico. Il che poteva opportunamente escludere una cosa ma non un'altra. A George Amussen diceva abitualmente e con disinvoltura «la tua bellissima figlia » con un tono che a suo parere suonava affettuoso e pieno di rispetto, come se si trattasse di un titolo. Le fantasie che lo vedevano insieme a Vivian non erano poi così improbabili. La sua esperienza e la freschezza di lei si combinavano, per quanto inaspettatamente, in modo appropriato. Questa idea - definirla un piano sarebbe sbagliato - lo spingeva a comportarsi con più rigidità del solito nei suoi confronti, facendolo sembrare più vecchio e inflessibile di quel che era. Se ne rendeva conto, ma per quanto si sforzasse non riusciva a porvi rimedio.
In Virginia, quel primo autunno dopo il matrimonio, il clima nel periodo delle corse era freddo e piovoso. I campi avevano un fondo fangoso e dove passavano le automobili e la gente a piedi l'erba era tutta schiacciata. Gli spettatori, imbottiti in indumenti voluminosi, si accalcavano dietro le palizzate mentre i bambini e i cani correvano di qua e di là. Lungo la fila di auto, dove c'erano persone che bevevano in piccoli capannelli, comparve una figura robusta con un cappello dell'esercito australiano fissato in alto da un lato e punteggiato dalla pioggia, e un cordoncino intrecciato che gli passava sotto il mento. Era il giudice, che strinse la mano a Amussen, salutò cortesemente Vivian e borbottò qualcosa a Bowman annuendo appena. Si trattennero a conversare sotto la pioggia, il giudice sempre rivolto a Amussen, mentre cavalli e cavalieri, minuscoli in lontananza, galoppavano saldi sulle sconfinate alture verdeggianti. Il giudice non aveva mandato giù il matrimonio di Vivian. A volte le belle donne si piegano alla follia, pensava, comunque non si tirava indietro ogni volta che la vita gli offriva l'occasione di vederla e capitò che ne incrociasse lo sguardo e le rivolgesse un'occhiata che secondo lui esprimeva tutto il suo attaccamento, mentre l'acqua gli gocciolava dal cappello marrone.
Quando rientrarono a New York, Vivian aveva la febbre e le dolevano le ossa. Era influenza. Bowman le riempì la vasca di acqua calda e dopo il bagno la portò a letto in braccio avvolta in un accappatoio bianco, e rimase a guardarla mentre si addormentava con il viso umido e sereno. Lui dormì sul divano per non disturbarla e l'indomani andò a lavorare, ma tornò un paio di volte a vedere se aveva bisogno di qualcosa. La malattia sembrò avvicinarli, in quelle strane ore affettuose in cui lei giaceva a letto, troppo debole per muoversi, e lui le leggeva qualcosa a voce alta e le preparava il tè. I due uomini di mezza età che vivevano insieme al piano di sotto lo fermarono sulle scale per chiedere notizie di Vivian. Quella sera le portarono una zuppa, un minestrone che avevano preparato.
« Come sta? » chiesero solleciti sulla soglia.
La sentivano tossire nella camera da letto, Larry e Arthur, veterani del musical e alcolisti che vivevano con un sussidio per l'affitto. A Vivian erano simpatici, li chiamava Noèl e Cole, si erano conosciuti al coro. Avevano le pareti dell'appartamento tappezzate di locandine teatrali e foto autografate di vecchi artisti. Fra le altre c'era quella di Gertrude Niesen. Gertrude, era favolosa! strillavano. Avevano un pianoforte che ogni tanto suonavano e a volte li si sentiva cantare. Quando Vivian si sentì meglio le portarono un sottile vaso di vetro con gigli e rose gialle comprati nel negozio di fiori sulla Diciottesima Strada, di proprietà di Christos, un uomo elegante con cui Arthur aveva avuto una relazione e che ora era amico di entrambi. Anche lui amava il teatro e tutti gli annessi e connessi. In seguito aprì un ristorante.
I fiori durarono quasi due settimane. C'erano ancora la sera della cena dai Baum. Bowman non era mai stato a casa loro e Vivian non li aveva ancora conosciuti. Si stava infilando gli orecchini, il volto riflesso nello specchio dell'ingresso sopra quel tripudio floreale.
Bowman aveva potuto fare soltanto congetture, sulla vita privata di Baum; era europeo, secondo lui, e aveva le spalle coperte. Il portiere aveva ricevuto istruzione di farli salire, e mentre percorrevano un breve corridoio da dietro una porta un cane cominciò ad abbaiare. Li accolse Baum in persona. La prima impressione fu di densità. L'arredo era confortevole e c'erano strati di tappeti orientali, libri e quadri ovunque. Più che la casa di una coppia con un figlio sembrava quella di due persone che avevano molto tempo per se stesse. Diana si alzò dal divano dove sedeva in compagnia di un ospite. Salutò prima Vivian. Era molto contenta di conoscerli, disse. Baum preparò da bere servendosi da un vassoio pieno di bottiglie sopra una scrivania. L'altro ospite sembrava di casa. Inizialmente Bowman pensò che si trattasse di un famigliare, in seguito scoprì che era un professore di filosofia amico di Diana.
A cena parlarono di libri e del dattiloscritto di un rifugiato polacco, tale Aronsky, che era riuscito chissà come a sopravvivere alla distruzione del ghetto di Varsavia e poi dell'intera città. A New York si era inserito in alcuni circoli letterari. Si diceva che fosse un uomo affascinante e imprevedibile. La domanda era: come aveva fatto a cavarsela? Lui rispondeva di non saperlo, che aveva avuto fortuna. Non c'era niente di prevedibile,
I una cosa piccola come una mosca poteva ammazzare la madre di quattro figli. Com'era possibile, quando sarebbe bastato scacciarla con un gesto della mano? diceva.
Erano stati raggiunti da un'altra coppia, un autore esperto di vini con la sua fidanzata, minuta, con lunghe dita affusolate e folti capelli di un nero corvino. Era una ragazza vivace e voleva chiacchierare, come una bambola con la carica a molla, una bambolina che faceva anche sesso. Si chiamava Kitty. Ma loro parlavano di Aronsky. Il libro, in cerca di un editore, si chiamava Il salvatore.
«L'ho trovato parecchio inquietante» disse Diana.
«Ha qualche cosa che non va» concordò Baum. «La maggior parte dei romanzi, anche i capolavori, non fingono di essere veri. Tu ci credi, diventano persino parte della tua vita, ma non come verità da prendere alla lettera. Il libro di Aronsky sembra violare questo principio. » Era un resoconto dal tono quasi ufficiale e tutt'altro che metaforico della vita di Reinhard Heydrich, il comandante SS con la testa lunga e il nasone, secondo soltanto a Himmler per importanza, nonché uno degli ideatori in camicia bruna della cosiddetta «Soluzione finale». Come capo della Gestapo era potente e temuto quanto i più crudeli gerarchi del Terzo Reich. Era alto e biondo, con un temperamento violento e una capacità disumana di lavorare. La sua figura algida e attraente era ben nota, come pure i suoi gusti sessuali. Si narra che tornando a casa a tarda notte dopo aver bevuto, e vedendo qualcuno che l'aspettava nell'appartamento buio, avesse estratto la pistola e sparato quattro colpi contro lo specchio dell'ingresso dov'era riflessa la sua immagine.
La verità sul suo passato era stata nascosta con estrema cura. Nella sua città natale le pietre tombali dei genitori scomparvero misteriosamente. Secondo il libro di Aronsky i compagni di scuola avevano paura a ricordarlo e le tracce del periodo trascorso in Marina da cadetto erano state cancellate; si sapeva soltanto che era stato allontanato dal servizio per qualche guaio con una ragazza. Ciò che si nascondeva, e che pareva incredibile, era che Heydrich fosse di origine ebraica, ma la sua identità era nota soltanto a una ristretta cerchia di ebrei influenti che contavano su di lui per ottenere informazioni e protezione.
Alla fine lui li tradisce. Li tradisce sia perché forse dopotutto non è ebreo, sia perché come loro finisce tra le braccia della morte che tutto inghiotte. È stato nominato governatore della Cecoslovacchia occupata e cade in un'imboscata mentre viaggia in automobile nei pressi di Praga, un'azione promossa per ironia della sorte da ebrei inglesi all'oscuro delle sue origini, dal momento che la sua uccisione era stata progettata e organizzata in Inghilterra.
Era un libro avvincente per la sua autorevolezza e la precisione dei dettagli, difficilmente riconducibili alla fantasia. Il piano dell'ospedale dove Heydrich era stato portato e il suo torso nudo sul tavolo operatorio mentre cercavano di salvargli la vita. Hitler aveva mandato il suo medico personale. C'era un'autenticità raggelante, in quelle pagine. Gli attentatori cecoslovacchi paracadutati che non riescono a fuggire. Intrappolati sotto una chiesa, circondati dalle superiori forze tedesche, si tolgono la vita. Per la rappresaglia i tedeschi scelgono il villaggio di Lidice e tutti gli abitanti, uomini, donne e bambini innocenti, vengono massacrati. Non c'è rumore al mondo, scriveva Aronsky, come quello di una pistola tedesca quando viene armata.
Baum non ci credeva, o perlomeno ci credeva con molte riserve. Non che non avesse mai sentito armare una pistola, perché ne aveva sentite eccome, erano le ragioni del libro a insospettirlo. Non aveva conosciuto personalmente Aronsky, ma il libro lo turbava profondamente.
«Per la sua accuratezza» fu l'unica spiegazione che riuscì a dare.
«Heydrich è morto davvero in seguito all'attentato.» «Non riesco a credere che fosse ebreo. Nel libro non è chiaro. » «Uno dei feldmarescialli di Hitler era in parte ebreo. »
« Quale? » chiese Baum.
« Von Manstein. » «E provato?» «Così si dice. Pare che in privato lo avesse ammesso lui stesso. » «Può darsi. Il fatto è che secondo me il libro potrebbe confondere molti lettori. E a quale scopo? Può ottenere un successo duraturo anche nel caso lo si presentasse come un'opera di fantasia. Io ritengo che dobbiamo rispettare la verità, specialmente su questo argomento. Ci sarà senz'altro qualcuno che lo pubblicherà, ma non saremo noi» concluse Baum.
Tornarono a casa con un taxi. Bowman era entusiasta.
«Ti è piaciuta Diana? » chiese.
«Simpatica.» «Molto simpatica, direi. » «Si. Ma il tizio del vino... » «Cosa ha fatto?» «Non so se aveva capito che siamo sposati. Ci ha provato. » «Sei sicura? » chiese Bowman.
Provava un senso di soddisfazione. Sua moglie veniva desiderata.
«Mi ha detto che ho degli zigomi meravigliosi. Che sembro una studentessa dello Smith College. » «E tu cosa gli hai risposto? » «Che frequentavo il Bryn Mawr. » Bowman rise.
«Come mai? » «Suonava meglio. » Un invito a cena dai Baum. Significava essere ammessi nella loro cerchia, in un certo senso, sentirsi accettati in un mondo che lui ammirava.
Pensava a molte cose, in maniera vaga, ascoltava i piccoli suoni che provenivano dal bagno, in attesa. Infine sua moglie comparve come d'abitudine e spense la luce. Era in camicia da notte, quella con le spalline incrociate sulla schiena che gli piaceva tanto. Lei si infilò a letto e lo ignorò. Lui era pieno di desiderio, come se si fossero appena incontrati a un ballo. Per un momento rimase immobile e poi le sussurrò qualcosa. Le posò una mano su un fianco. Lei non disse niente. Le sollevò di poco la camicia da notte.
« No » disse lei.
«Cosa c'è? Che succede? » sussurrò lui.
Era impossibile che non provasse quello che provava lui. Il calore, la soddisfazione e adesso la possibilità di completare il tutto. «Che succede? » chiese ancora una volta.
« Niente. » «Non ti senti bene?» Lei non rispose. Aspettò, troppo a lungo, forse, con il sangue che fremeva, l'amarezza che saliva. Lei si girò e gli diede un rapido bacio, come per congedarlo. Era diventata di colpo un'estranea. Bowman si rendeva conto che avrebbe dovuto sforzarsi di capirla, invece provava soltanto rabbia. Era poco amorevole da parte sua ma non riusciva a impedirselo. Rimase lì, contrariato e insonne, e persino la città, buia e insieme scintillante, gli sembrò deserta. La stessa coppia, lo stesso letto, eppure diversi.