14. Moravin

 

 

Un anziano scrittore, William Swangren, che ancora godeva di una certa fama grazie a un paio di libri giovanili, aveva inviato un romanzo che si videro costretti a rifiutare, una specie di Morte a Venezia americano, scritto con uno stile abbastanza elegante ma antiquato, e Bowman, per comunicargli la notizia, lo aveva invitato a pranzo. Swangren declinò l'invito spiegando che avrebbe preferito incontrarlo nel proprio appartamento. Sebbene l'arroganza della richiesta lo avesse un po' infastidito, Bowman accettò.

L'edificio di mattoni bianchi e sobri, che si confondeva tra altri palazzi simili in una via dietro la Seconda Avenue, era diverso da come si era aspettato. Nel piccolo atrio dell'ingresso l'ascensore era manovrato da un portiere senza livrea. Swangren venne ad aprire la porta con camicia a quadri e papillon. L'appartamento era piccolo, oltretutto stipato di oggetti, e si affacciava soltanto sugli edifici di fronte. I mobili non erano di uno stile definito, c'erano un divano letto, le librerie, una camera da letto con la porta chiusa; Swangren aveva un compagno, Harold, con cui viveva da tempo; vicino alla cucina era incorniciata la stampa fotografica color azzurro ghiaccio di un giovane nudo con il membro penzolante tra le gambe. Swangren, che era ancora un bell'uomo, con i capelli di un bianco sbiadito - il destino dei biondi - e gli angoli della bocca macchiati di tabacco, preparò una brocca di tè ghiacciato sul tavolo dei liquori sotto la fotografia, senza smettere di parlare. La sua era una conversazione tutta aneddoti e pettegolezzi, come se ti conoscesse da sempre; aveva conosciuto tutti, Somerset Maugham,   ohn Marquand, Greta Garbo. Aveva vissuto in Europa per anni, soprattutto in Francia, e conosceva i Rothschild.

Si sedettero e conversarono liberamente, con piacere. Swan-gren sembrava apprezzare la compagnia. Parlò degli scandali all'interno dell'American Academy, dei suoi membri dalla dubbia reputazione e dei litigi dei poeti. Poi dell'omosessualità nel mondo antico, dei rapporti sessuali non penetrativi dei greci e delle sue esperienze con la gonorrea. C'erano voluti diciotto mesi per curarla, tutti i giorni il medico francese gli infilava dentro un catetere e cospargeva le lesioni con l'Argyrol.

Parlarono bevendo il tè. Bowman aspettava il momento giusto per sollevare l'argomento del romanzo, ma non osava interrompere Swangren, intento a raccontare della sera in cui Thornton Wilder lo aveva invitato a cena nella sua camera d'albergo.

« Il fatto che io fossi dichiaratamente omosessuale lo spaventava un po'» disse Swangren. «Ciascuno di noi aveva una bottiglia di bourbon e un secchiello del ghiaccio davanti, ci eravamo incontrati per parlare di Proust, ma non ricordo di che cosa parlammo in realtà. Ricordo solo che bevemmo troppo e che alla fine, eccitato ed esausto, fui costretto a dirgli che andavo a casa a dormire. Wilder rimase sveglio fino all'alba, girando da un bar all'altro e attaccando bottone con chiunque gli desse ascolto. Era molto timido, ma in una città sconosciuta gli piaceva scoprire che cosa interessava alla gente comune. Aveva pochi parenti. Un fratello. La sorella era in manicomio. » Swangren era nato in una fattoria dell'Ohio orientale e aveva mani larghe, da contadino. Sui monti Allegheny, disse, c'erano molti giacimenti di carbone e, dopo aver lavorato tutto il giorno nei campi, i contadini scendevano nelle cave a estrarne un po'. Scavavano sottoterra lasciando barcollanti colonne di carbone come pilastri di sostegno del soffitto e, quando la vena si esauriva, prima di abbandonare il giacimento recuperavano anche il carbone delle colonne. Abbattere le colonne, lo chiamavano.

 

Lui faceva quel lavoro all'epoca, disse. Abbatteva le colonne.

Alla fine, Swangren piacque così tanto a Bowman da fargli cambiare idea riguardo al libro. Lo presero. Sfortunatamente vendette poche copie.

In quel periodo tutto era oscurato dall'ombra della guerra in Vietnam. I sentimenti di coloro che si opponevano al conflitto, soprattutto i giovani, erano infiammati. C'erano le interminabili liste dei morti, l'evidente brutalità, le molte promesse di vittoria che non venivano mantenute e la guerra assomigliava sempre di più a un figlio dissoluto di cui non ci si può fidare e che si sa che non cambierà mai, ma che non è possibile abbandonare.

Contemporaneamente emergevano nuove forme di arte, che inondarono il paese come una marea improvvisa e inattesa quasi volessero guarirne le ferite. Erano quadri, soprattutto, ma anche film europei pieni di freschezza e candore. Possedevano un'umanità che in altri campi sembrava minacciata. Bowman si rifiutò di partecipare a una grande manifestazione contro la guerra indossando l'uniforme per un indefinito senso dell'onore, ma era fortemente contrario al conflitto, quale persona ragionevole non lo sarebbe stata?

Nel frattempo conduceva una vita paragonabile a quella di un diplomatico. Era stimato e rispettato, nonostante i modesti mezzi economici. Lavorava a diretto contatto con persone a volte molto dotate, o persino indimenticabili, come Auden, con le sue pantofole di feltro e la faccia coperta di rughe avvolta nel fumo della sigaretta, che arrivava presto al mattino e beveva cinque o sei martini e una bottiglia di Bordeaux subito dopo; o Marisa Nello, più un'amante dei poeti che una poetessa, che saliva le scale recitando Baudelaire in un francese spaventoso. Era una vita in cui i piaceri superavano i doveri, con uno sguardo privilegiato sulla storia, l'architettura e i comportamenti umani, includeva incandescenti pomeriggi spagnoli, con le imposte chiuse, una lama di sole che bruciava nell'oscurità.

 

Si era trasferito sulla Sessantacinquesima Strada, non lontano dal palazzo coperto di rampicanti dove tanti anni prima aveva aspettato di essere ricevuto da Kindrigen. Una domestica che veniva tre volte la settimana oltre alle pulizie gli faceva la spesa, lui le lasciava la lista in cucina, scritta su una lavagnetta insieme alle istruzioni su altre eventuali incombenze. Mangiava a casa raramente, a volte lei gli preparava qualcosa e glielo faceva trovare pronto nel forno. Di solito cenava fuori, al ristorante o alle feste. Andava spesso al cinema o a teatro. A volte decideva all'ultimo momento di andare all'opera, senza avere il biglietto. Vestito in giacca e cravatta, si piazzava davanti all'ingresso del teatro con un messaggio scritto su un cartoncino della tintoria: Ho bisogno di un biglietto, e lo trovava quasi sempre. Le sue opere preferite erano Aida e Turandot, si sedeva al buio fra i volti pallidi e si lasciava completamente trasportare dalle splendide arie e da una sensazione di fiducia verso il mondo.

A volte, alle feste organizzate dalle case editrici c'erano giovani donne che ambivano a entrare nel mondo dell'editoria, con le facce luminose e l'abitino nero, ragazze che vivevano in monolocali con i vestiti impilati accanto al letto e le foto scattate durante i tornei estivi di curling.

Bowman amava il suo lavoro. Aveva un ritmo disteso ma preciso. In estate le settimane erano più corte, smettevano tutti di lavorare il venerdì a mezzogiorno e in alcuni casi non tornavano fino al pomeriggio del lunedì successivo, dopo aver trascorso il fine settimana nel Connecticut o a Wainscott, in vecchie case che dieci anni prima, con un po' di fortuna, avresti potuto comprare per quattro soldi. In particolare gli piaceva la casa di un'altra editor, Aaron Asher, una fattoria quasi completamente nascosta dagli alberi. Altre case evocavano in lui immagini di una vita ordinata, credenze prive di decorazioni, vecchie finestre e i più comuni agi del matrimonio, che a volte includevano tutto: la colazione del mattino, le conversazioni, le ore piccole, e niente che suggerisse eccessi o degrado.

Nella vita si ha bisogno di amici e di un buon posto dove   vivere. Lui di amici ne aveva, sia dentro al mondo dell'editoria sia fuori. Conosceva ed era conosciuto da molte persone. Malcolm Pearson, il suo ex compagno di stanza all'università, veniva in città con la moglie Anthea, e spesso anche con la figlia, per visitare i musei o andare in una galleria di cui conosceva il proprietario. Malcolm era invecchiato. Criticava tutto, camminava con il bastone. Sto diventando vecchio anch'io? si chiedeva Bow-man. Era una cosa alla quale pensava di rado. Non era mai stato particolarmente giovane, o meglio, era stato giovane a lungo e ora aveva raggiunto la sua vera età, era vecchio abbastanza per godere degli agi della civiltà e non ancora così vecchio da non apprezzarne le gioie più primitive.

Le persone andavano da lui in cerca di un consiglio, persino di conforto. Una editor che gli piaceva, una donna con il viso perspicace che aveva la capacità di intuire immediatamente il significato delle cose, aveva dei problemi con il figlio. Era psicologicamente instabile e a trent'anni non aveva ancora trovato se stesso. A un certo punto si era rivolto a Dio ed era diventato un fervente devoto. Era andato in pellegrinaggio a Gerusalemme e leggeva la Bibbia tutto il giorno. La sua passione, aveva confessato alla madre, «era l'assoluto». Lei si era spaventata, ovviamente. Come a volte capita alle anime tormentate, il giovanotto era molto gentile e premuroso. Il padre lo aveva respinto.

Bowman poteva fare poco per lei, praticamente niente, oltre ad ascoltarla e a confortarla. I terapisti avevano già fallito. Eppure, in qualche modo le fu di aiuto.

Era considerato un uomo che ancora non aveva una famiglia ma si trovava nelle condizioni perfette per costruirne una. Aveva quarantacinque anni ma non li dimostrava. Non aveva nemmeno un capello grigio. Sembrava a proprio agio nel mondo. Era anche considerato un personaggio misterioso che aveva il potere di trasformare magicamente una persona in un autore. Si riteneva che possedesse quel talento. La donna bionda seduta vicino a lui gli confessò che amava leggere. Accadde a una cena con dodici commensali in un grande appartamento pieno   di opere d'arte, con un pianoforte a coda e due enormi sale che sembravano fondersi una nell'altra: nella prima c'erano poltrone confortevoli in cui sedersi a bere qualcosa e nell'altra un grande tavolo da pranzo, una credenza, un divano nell'angolo e le finestre che si affacciavano sul parco.

Amava leggere, disse lei, eppure non ricordava mai quello che leggeva. Dona Flor e i suoi due mariti era l'unico titolo che le veniva in mente in quel momento.

«Sì» disse Bowman.

Aveva appena addentato un altro boccone quando lei gli chiese: « Che genere di libri pubblica? » « Narrativa e saggistica » si limitò a rispondere lui.

Lei lo guardò per un attimo con stupore, come se avesse detto una cosa meravigliosa.

« Mi ripeta il suo nome. » «Philip Bowman. » Lei rimase in silenzio. Poi, indicando un uomo all'altro lato del tavolo, disse: «Quello è mio marito».

Era un avvocato, come qualcuno aveva già detto a Bowman.

«Le va di ascoltare una storia? » chiese lei. «Eravamo a Cape Cod, ospiti a casa di un amico, e c'era anche questo tizio, un architetto. Un tipo molto gentile. Sarebbe dovuta venire anche la sua ragazza, ma non si fece vedere. Lui aveva appena divorziato. Era sposato con un'attrice e il matrimonio era durato un anno. Soffriva moltissimo. Lei è sposato? » domandò con naturalezza.

«No» rispose Bowman. «Sono divorziato.» «Oh, peccato» disse lei. « Siamo sposati da dodici anni, mio marito e io. Ci siamo incontrati in Florida, io vengo dalla Florida, avevo appena finito di studiare e mi stavo guardando in giro, lavoravo in un negozio di antiquariato, appendevo quadri, e lui mi ha visto e si è innamorato. Ha visto questa wasp bionda - gli uomini sono così, sa com'è - e non c'è stato bisogno di altro.»  

Dietro di lei e alle spalle della padrona di casa Bowman vide la porta che conduceva alla cucina tutta illuminata.

« Che cosa sta guardando? » «Un topo che correva sul pavimento» rispose Bowman.

«Un topo? Lei deve avere una vista molto buona. Era grosso?» « No, un topolino. » «In ogni caso, vuole ascoltare il resto della storia?» « Dove eravamo rimasti? » «L'architetto...» «L'architetto divorziato. » «Esatto. Be', alla fine la ragazza che aspettava è arrivata. Indossava un abito attillato. Non era per niente il suo tipo. Voglio dire, faceva di tutto per farsi notare. Una volta vestivo anch'io in quel modo. Lo so. Il punto è» disse all'improvviso, «che mi sono pazzamente innamorata di lui. Era divorziato, era così vulnerabile. Dopo cena mi sono addormentata sul divano e quando più tardi ho aperto gli occhi era lì. Abbiamo parlato per un po'. Era bellissimo. Un cattolico. Mi sono fatta delle fantasie, sa? Avrei dato qualsiasi cosa per averlo, ma in quel momento era impossibile. » Stava bevendo vino. Aveva perso la sua compostezza, se così la si poteva definire. Disse: «Lei forse non mi capisce, forse non mi sono spiegata bene. Aveva due anni meno di me, eppure la nostra è stata una relazione vera e propria. Posso dirle una cosa? Da allora non è passato giorno in cui io non abbia pensato a lui. Probabilmente lei sente spesso delle storie così».

«Veramente no. » «Voglio dire, è soltanto una fantasia. Abbiamo due bambini, due bambini meravigliosi» disse lei. «Ci siamo incontrati in Florida - era il 1957 - e adesso siamo qui. Capisce che cosa intendo? Tutto è accaduto così in fretta. Mio marito è un buon padre. Si è sempre comportato bene con me. Eppure, quella sera... Non riesco a spiegarlo.» Si interruppe.

 

«Quando è partito mi ha baciata» disse.

Fissò Bowman negli occhi e poi guardò subito altrove.

Alla fine della serata la donna lo incontrò vicino alla porta e senza dire una parola lo abbracciò.

« Le piaccio? » chiese.

«Sì» rispose lui per consolarla.

«Se qualcuno vuole scrivere quella storia» disse, «non ho niente in contrario. » Enid non aveva mai dovuto chiedergli se gli piaceva. Lui era visibilmente pazzo di lei. In Inghilterra, erano andati in auto nel Norfolk, una regione piatta e verdeggiante a nord di Londra famosa per i suoi cavalli, con grandi case e villaggi tetri; Enid doveva vedere un cane. A Newmarket, quattro o cinque stallieri in maniche di camicia erano in piedi all'angolo di una strada, e uno di loro stava pisciando pigramente contro un muro. Quando li vide arrivare, il ragazzo puntò il cazzo verso di loro, verso di lei.

«Molto elegante» disse Bowman. «Gioventù britannica, immagino. » «Inconfondibile» disse Enid.

La casa che cercavano era a pochi chilometri dalla città, una casa bassa e intonacata in fondo a un viale di accesso. Un uomo con il maglione grigio e le guance rosse come una bistecca si affacciò sulla porta.

«Il signor Davies? » chiese Enid.

« Sì. » Li stava aspettando.

«Volete dargli un'occhiata, immagino» disse.

Li condusse sul retro della casa verso un grande recinto di rete metallica; mentre si avvicinavano i cani cominciarono ad abbaiare. Altri cani li imitarono.

« Non fateci caso » disse Davies. « Gli fa bene vedere gente. »  

Camminarono fiancheggiando la rete; quando furono arrivati quasi alla fine del recinto lui esclamò: « È quello ».

Un cucciolo di levriero sdraiato in un angolo del canile si alzò lentamente e si avvicinò alla rete con flemmatica dignità. Era un cane straordinariamente regale, bianco, con una macchia di pelo grigio sul dorso e intorno alla testa, come un elmetto. I re orientali si facevano seppellire con i loro levrieri. Enid infilò le dita nella rete per accarezzargli le orecchie.

«È molto bello.» «Ha poco meno di cinque mesi» disse Davies.

« Ciao » disse lei al cane.

Le era stato regalato da un amico. Si chiamava Moravin, ed era figlio di Jacky Boy, che aveva un discreto pedigree. Davies era un addestratore. Si occupava di cani da sempre. Suo padre, raccontò loro più tardi, faceva il muratore e aveva sempre desiderato un cavallo da corsa, ma alla fine si era accontentato di allevare cani. Mangiavano meno. Davies aveva addestrato alcuni campioni, però non si poteva mai sapere, potevano sempre tradirti. Alcuni erano promettenti e poi non combinavano granché. Venivano addestrati come cani da corsa, ma non tutti sapevano correre. Alcuni erano veloci appena usciti dalla gabbia di partenza, altri sulla lunga distanza, c'erano cani che preferivano i campi aperti e altri che prediligevano la pista.

« Sono tutti diversi» disse.

A dispetto di ogni prudenza Davies nutriva qualche speranza per quell'animale in particolare: già da piccolo aveva dimostrato una grande capacità di concentrazione sulla bambola di pezza, la inseguiva con tenacia e la catturava stringendola tra le lunghe file di denti bianchi. Più tardi aveva realizzato dei buoni tempi e non aveva difficoltà a correre insieme ad altri due cani durante l'allenamento.

Nella sua prima gara, però, tutto era andato storto. Proprio alla partenza era stato attaccato da un altro cane e da quel momento non aveva più saputo distaccare il gruppo. Era rimasto   indietro per tutto il percorso. Un fallimento, disse al telefono l'addestratore.

« Non mi sembra corretto » disse Enid. «Forse non lo è stato, ma nelle gare la correttezza non esiste. ; Era la sua prima volta. Adesso deve solo ritrovare la fiducia in ; se stesso. » Lo fecero allenare alcune volte con un paio di altri cani. Si dimostrò abbastanza veloce, e nella gara successiva arrivò quarto. Il circuito era lontano da Londra, Enid non era andata.

Nella sua terza gara, a Romford, era nella gabbia numero due e lo davano venti a uno. Sul circuito sfrecciò qualcosa. I cancelli si spalancarono e i cani si lanciarono all'inseguimento. Durante la gara Moravin era tra i primi, ma arrivarono al traguardo in gruppo e dalla tribuna non si riuscì a distinguere chi fosse il vincitore, poi la giuria comunicò che aveva vinto per una testa. «Congratulazioni alla giuria!» gridarono e suonarono una fanfara, era stata una vittoria di misura, le congratulazioni non erano per i giudici di gara, ma per quelli che avevano stabilito le quote delle scommesse. Quella settimana sui giornali apparvero i primi consensi, Corre bene e Non sottovalutatelo. Vinse altre due volte. La faccenda cominciava ad acquisire un senso. Ha vinto tre volte nelle ultime cinque gare, scrissero e, più enfaticamente, Velocità fulminea. Vince per quattro lunghezze.

Quando Moravin doveva correre al White City, il grande circuito di Londra che richiamava persone dal distretto dei teatri e aveva un certo fascino, Bowman venne appositamente in aereo da New York. Quella sera, con Enid, provava un senso di esaltazione. Erano una coppia in gara.

Lungo il tragitto si fermarono a bere qualcosa. Il bar era vicino a un ospedale, un cartello sopra il banco offriva il quindici per cento di sconto al personale medico e ai pazienti le cui ferite erano state suturate con più di trenta punti. Il circuito era affollatissimo, le persone si spostavano da una parte all'altra, parlando e bevendo. Era una serata buia, il cielo coperto di nuvole   preannunciava la pioggia. Sul tabellone delle scommesse Moravin era dato tre a uno. Davies lo aveva già massaggiato con una pomata di sua produzione, come se lo preparasse per l'attraversamento a nuoto della Manica, le spalle, il corpo, le potenti zampe posteriori, e infine ciascuna delle zampe, dal basso verso l'alto. Poi gliele stirò; il cane non opponeva resistenza, lo lasciò fare rimanendo sdraiato.

Correva nella quinta gara. Quando portarono fuori i cani iniziò a piovigginare. C'erano due cani bianchi, Moravin e Cobb's Lad. La folla si fece più silenziosa.

« Non sono mai stata così agitata » sussurrò Enid. « Mi sento come se stessi per correre io. » Per qualche ragione, notò Bowman, le quote erano scese da tre a due. Avevano cominciato a portare i cani nelle gabbie di partenza. All'improvviso, dal buio, uscì la lepre meccanica e i cancelli si spalancarono. I cani balzarono fuori e corsero uno vicino all'altro, superando in gruppo la prima curva e poi il tratto più lontano del circuito. Adesso pioveva più forte. Le luci erano coperte da veli inclinati di acqua argentata. Si riusciva a malapena a distinguere un cane dall'altro, ma sembrava che a guidare la corsa fosse un cane bianco. Il gruppo di cani volava, basso e fluido attraverso la pioggia. Era difficile immaginare che uno di loro potesse distaccare il gruppo. Mentre superavano l'ultima curva, apparvero la testa e le spalle di un cane bianco, il gruppo arrivò al traguardo in quella formazione. Era Moravin.

Quando lo consegnarono a Davies per il defaticamento pioveva ancora forte, tanto che lo ripararono con un ombrello. Bowman se ne fece prestare uno da una donna che era in piedi vicino a loro e accompagnò Enid sul podio proprio mentre stavano portando anche Moravin, che salì con un movimento aggraziato, le macchie grigie ai lati della testa lo facevano assomigliare a un fuorilegge mascherato. L'addestratore sollevò Moravin, la lingua tremante nella bocca spalancata, stringendolo   tra le braccia come un agnello in segno di vittoria. Il cane di Enid.

Più tardi andarono a bere qualcosa insieme, Davies sembrava aver già bevuto un bicchiere. Aveva un'espressione molto soddisfatta.

«Un bel cane» ripetè diverse volte. «Spero abbia scommesso dei soldi su di lui, signora. » « Sì, cento sterline. » « Le quote delle scommesse sono state abbassate. Gli allibratori hanno pagato di tasca loro per farle abbassare. Avevano paura di lui. Avevano paura di lui. » Alloggiava fuori città, da un amico, disse. Parlava più del solito. Confidò con sollievo: «Promette bene, vero? » Lasciarono Davies al pub e andarono a cenare in Dean Street con alcune persone, tra cui un'anziana signora con un viso meraviglioso come una prugna e la voce, si scoprì, un po' roca. Bowman ne era attratto. Lei disse qualcosa in italiano che lui non capì bene, ma si rifiutò di ripeterla. Spiegò di essere stata sposata con un italiano.

« Fu ucciso dopo la guerra. » «Ucciso?» «Durante una rappresaglia» precisò lei. «Lo sapeva che sarebbe accaduto. Capitava spesso. Sua sorella, mia cognata, che è morta solo un anno fa, si è distinta per aver sputato in faccia a Winston Churchill in piazza San Marco. Erano fascisti, non potevo farci niente. Per tutto il resto, mio marito era una persona molto piacevole. Ad ogni modo stiamo parlando di molto tempo fa, lei non è abbastanza vecchio. » « Sì, lo sono. » «Quanti anni ha? Trentacinque? » « Ho quarantacinque anni. » «Ricordo l'Esposizione coloniale francese, nel 1932 o '33» disse. «Le truppe senegalesi con le uniformi blu, i cappelli rossi e i piedi nudi. Era un mondo diverso, molto diverso. Come è stata la sua vita? »  

«La mia? » « Quali sono state le cose importanti? » «Be'» rispose lui, «a pensarci bene, direi che le cose che hanno influenzato di più la mia vita sono state la Marina e la guerra. » «Cose da uomini, non crede? » Non era sicuro di aver detto la verità. La sua mente era riandata a quell'esperienza in modo automatico. E tra i suoi sogni era quello che ricorreva più di frequente.

Due settimane più tardi, in preparazione del Derby, Mora-vin corse a Wimbledon e cadde in curva, senza alcuna ragione apparente. La frattura al carpale non era grave, però sembrava vergognarsi di dover rimanere sdraiato con il gesso, quasi fosse consapevole di quello che ci si aspettava da lui. Enid gli accarezzò il dorso, il morbido pelo bianco e grigio. Moravin teneva le piccole orecchie abbassate all'indietro. Aveva lo sguardo assente.

L'osso, però, era lento a guarire. La faccenda si trascinò a lungo. Quando finalmente fu a posto, Enid lo andò a trovare, ma qualcosa in lui non era più come prima. Qualsiasi cosa fosse, era invisibile. Ritto sulle zampe, era sempre elegante e snello, simile in tutto agli altri cani, ma non corse mai più.

«Sono così dispiaciuta» disse lei.

Quando più tardi gli chiesero una spiegazione, Davies disse: «Sì, avrebbe potuto correre al Derby, se non fosse caduto. Succede sempre qualcosa. Se odi a morte qualcuno, regalagli un levriero ».

Enid aveva accompagnato Bowman all'aeroporto, era la prima volta. Mentre aspettavano in piedi, lui si era sentito a disagio. Non dipendeva da qualcosa che lei gli aveva detto, bensì dai suoi silenzi. L'amore stava scivolando via, e lui non poteva trattenerlo. Non si sarebbero sposati. Lei era già sposata e aveva qualche strano obbligo nei confronti del marito, Bowman non era mai riuscito a capire di che cosa si trattasse. Enid aveva dichiarato di non poter vivere a New York, la sua vita era a  

Londra. Lui non era che un aspetto di quella vita, però desiderava continuare a esserlo.

« Forse riesco a tornare il mese prossimo » aveva detto.

« Sarebbe bello. » Si salutarono nell'atrio centrale. Mentre si allontanava, lei agitò brevemente la mano.

Bowman si imbarcò con una sensazione di vuoto e, prima ancora che l'aereo si staccasse da terra, provò un'intensa tristezza. Come se fosse la prima volta che lasciava l'Inghilterra, osservò la costa allontanarsi lentamente. All'improvviso, lei gli mancò terribilmente. Forse avrebbe dovuto inginocchiarsi ai suoi piedi.

Una sera d'inverno, sulla passatoia all'ingresso del Plaza, Bowman si imbatté in una donna informe dentro un abito blu. Era Beverly, la sua ex cognata, e il mento le era praticamente scomparso.

« Guarda chi si vede, il signor New York » disse.

Accanto a lei c'era Bryan. Bowman gli strinse la mano.

«Che cosa fate a New York? » «Sto andando in bagno» rispose Beverly. «Ti raggiungo al bar, dovunque sia» disse rivolgendosi a Bryan.

Bryan non si scompose.

«Non farci caso» disse dopo che si era allontanata. «Siamo venuti a vedere un paio di spettacoli. Bev voleva bere qualcosa nel famoso bar della Oak Room. » « È laggiù in fondo. Ti trovo bene. » «Anch'io.» Non avevano molto altro da dirsi.

«Come ti vanno le cose?» chiese Bowman. «Come sta Vi-vian? Non ci sentiamo mai. » « Sta bene. Non è molto cambiata. » « Si è risposata? Immagino che lo avrei saputo. » « No, non si è risposata, ma sai chi si è risposato? George. »  

«George? Risposato? Con chi?» « Con una donna di laggiù. Peggy Algood. Non credo che tu la conosca. » «Che tipo è?» «Oh, non saprei. Ha circa dieci anni meno di lui. Ha un bel carattere. È già stata sposata un paio di volte. Dicono che durante la seconda luna di miele abbia spedito una cartolina alla madre con scritto: Peggy pentita, peccato. Ma forse se lo sono inventato. A me piace. » «Bryan, sono davvero contento di vederti. Peccato che le nostre vite... si siano separate. Come sta Liz Bohannon? È ancora in circolazione? » « Sì, è in circolazione. Non credo che monti ancora a cavallo. Non ci invita più. Una volta che siamo stati a casa sua Beverly ha detto qualche parola di troppo. » Bryan era sempre stato onesto riguardo alla moglie e non si lamentava mai di lei. La affrontava con disinvoltura, come si affronta il maltempo.

«Che spettacolo andate a vedere? » domandò Bowman.

«Paljoey.» «Sì, è molto bello. Mi farebbe piacere rivederti, prima o poi. » « Anche a me. »