3. Vivian

 

Il 17 di marzo, Saint Patrick's Day, era una giornata assolata e insolitamente mite per la stagione, gli uomini erano in maniche di camicia e a giudicare dalle apparenze avevano smesso di lavorare a mezzogiorno. I bar erano affollati. Passando dalla strada piena di sole alla penombra di uno dei locali, Bowman rimase accecato, e pur distinguendo a malapena i volti delle persone al banco trovò un posto sul fondo, dove tutti gridavano e si lanciavano richiami. Il barista gli servì da bere, lui prese il bicchiere e si guardò intorno. C'erano uomini e donne, soprattutto giovani donne, due delle quali - non avrebbe mai dimenticato quel momento - erano in piedi accanto a lui, alla sua destra. Una aveva i capelli e le sopracciglia scuri e, quando riuscì a osservarla meglio, una leggera peluria lungo la mascella; l'altra era una bionda con la fronte luminosa e scoperta e gli occhi un po' distanti che gli sembrarono subito irresistibili, sebbene un po' sfrontati. Fu talmente colpito dal suo viso, che spiccava fra tutti gli altri, da avere difficoltà a guardarla, ma d'altra parte non poteva farne a meno. Aveva quasi paura di guardare.

Alzò il bicchiere in un brindisi all'indirizzo delle due ragazze.

«Buon San Patrizio» riuscì a dire.

«Non ti sentiamo » gridò una di loro.

Bowman provò a presentarsi. Il bar era troppo rumoroso. Era come trovarsi nel bel mezzo di una festa scatenata.

«Come vi chiamate? » gridò.

«Vivian» rispose la bionda.

Lui si avvicinò. Quella con i capelli scuri era Louise. Aveva già assunto un ruolo secondario, ma nel tentativo di non risultare   troppo esplicito Bowman coinvolse anche lei nella conversazione.

«Vivete da queste parti? » chiese.

Fu Louise a rispondere. Lei abitava sulla Cinquantatreesima. Vivian in Virginia.

«In Virginia? » disse Bowman scioccamente, come se si trattasse della Cina.

«Nella contea di Washington» spiegò Vivian.

Bowman non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Era come se la sua faccia fosse solo sbozzata, con i tratti intensi, la bocca non incline al sorriso, un volto incantevole, su cui Dio aveva impresso la risposta più semplice alla vita. Di profilo era ancora più bella.

Quando gli domandarono che mestiere faceva - il rumore era diminuito un po' -, lui rispose che era editor.

«Editor?» «Sì. » «Dove? In una rivista?» «Libri» disse. «Lavoro da Braden and Baum. » Non l'avevano mai sentita nominare.

«Pensavo di andare da Clarke's» disse, «ma sentendo tutto questo baccano sono entrato a vedere che cosa stava succedendo. Devo tornare in ufficio. Avete da fare più tardi? » Stavano andando al cinema.

«Vuoi venire? » chiese Louise.

All'improvviso la trovò gradevole, anzi adorabile.

«Ora non posso. Ci vediamo dopo? Vi aspetto qui. » «A che ora? » «Quando finisco di lavorare. Quando volete voi. » Stabilirono di rivedersi alle sei.

Rimase frastornato per tutto il pomeriggio e gli riuscì difficile concentrarsi. Il tempo scorreva con una lentezza terribile, ma alle sei meno un quarto tornò al bar a passo veloce, quasi di corsa. Era in anticipo di qualche minuto e le ragazze non c'erano ancora. Aspettò con impazienza fino alle sei e un quarto, le   sei e mezzo. Non arrivarono. Si accorse con un senso di malessere dell'errore che aveva commesso, le aveva lasciate andare senza chiedere un numero di telefono o un indirizzo, sapeva soltanto che una abitava sulla Cinquantatreesima e adesso non le avrebbe più riviste, non l'avrebbe rivista mai più. Odiandosi per la propria inettitudine, rimase al bar quasi un'ora e a un certo punto si mise a parlare con l'uomo seduto accanto a lui in modo che, se per caso fossero finalmente arrivate, non avrebbe fatto la figura dello sciocco, lì, in piedi, solo come un cane ad aspettare.

Che cosa era stato a tradirlo, si chiedeva, inducendole a mancare all'appuntamento? Erano state abbordate da qualcun altro, dopo che lui se n'era andato? Si sentiva infelice, provava il terribile senso di vuoto degli uomini caduti in disgrazia, che in un solo giorno vedono il mondo crollargli addosso.

L'indomani mattina andò al lavoro ancora gravato da un senso di angoscia. Non poteva parlarne con Eddins. Era come una scheggia conficcata in profondità, unita a un senso di fallimento. Gretchen era alla sua scrivania. Eddins, cosa altamente sospetta, profumava di talco o colonia. Bowman stava leggendo quando entrò Robert Baum.

«Come ti va oggi?» gli chiese Baum in tono disinvolto. Quando non aveva niente di particolare da dire cominciava sempre così.

Parlarono per un po', quando Gretchen si avvicinò avevano appena finito.

« Ti vogliono al telefono. » Bowman alzò il ricevitore e disse « pronto » piuttosto seccamente Era lei. Provò un istante di folle felicità. Vivian si stava scusando. La sera prima avevano cercato di tornare intorno alle sei, ma non erano riuscite a trovare il bar, non si ricordavano la strada.

«Certo, figurati» disse Bowman. «Mi dispiace tanto, ma pazienza. »  

« Siamo persino andate da Clarke's » continuò lei. « Mi ricordavo che ne avevi parlato. » « Sono così contento che tu abbia chiamato. » «Volevo che lo sapessi. Che abbiamo cercato di venire all'appuntamento. » «No, no, è tutto a posto, non c'è problema. Senti, mi daresti il tuo indirizzo? » «L'indirizzo in Virginia?» « Sì, quello che vuoi. » Lei gli diede anche quello di Louise. Sarebbe tornata a casa nel pomeriggio, disse.

«Vuoi... a che ora parte il treno? Avresti tempo per pranzare insieme? » Sembrava di no. Il treno partiva all'una.

« Che peccato. Magari un'altra volta » disse lui scioccamente.

«Allora, ciao» lo salutò lei dopo una pausa.

«Ciao» riuscì a dire Bowman non si sa come.

Comunque adesso aveva il suo indirizzo, e dopo aver riagganciato lo guardò. Era più prezioso di qualsiasi parola. Non sapeva come si chiamava di cognome.

Si fece strada sotto la grande volta della Penn Station, con i grandi riquadri di luce che filtravano dal soffitto a vetri inondando la folla perennemente in attesa. Era nervoso, poi la intravide che aspettava senza sospettare la sua presenza.

«Vivian!» Lei si voltò e lo riconobbe.

«Oh, sei tu. Che sorpresa. Che cosa ci fai qui? » «Ti volevo salutare» disse, e aggiunse: «Ti ho portato un libro che secondo me potrebbe piacerti ».

Da piccola Vivian aveva avuto dei libri, come la sorella, libri per bambini, qualche volta se li erano addirittura contesi. Aveva letto i romanzi della serie Nancy Drew e qualcos'altro, ma a essere onesta, disse, non era una grande lettrice. Ambra, per sempre. La sua pelle era luminosa.

« Comunque grazie. »  

« È uno dei nostri autori » disse lui.

Lei lesse il titolo. Era stato molto carino. Un libro era l'ultima cosa che si aspettasse di ricevere e non conosceva nessun ragazzo e nemmeno adulti che regalassero libri. Aveva vent'anni ma non era pronta a pensare di essere una donna, forse perché dipendeva ancora quasi completamente dal padre e anche per l'attaccamento che aveva nei suoi confronti. Dopo il liceo si era trovata un lavoro. Le donne che conosceva si distinguevano per la loro eleganza, per essere delle buone cavallerizze e per i loro mariti. Anche per il coraggio. Aveva una zia che era stata rapinata in casa da due neri armati, e con freddezza li aveva apostrofati dicendo: «Siamo stati troppo buoni con voi».

La Virginia di Vivian Amussen era bianca, privilegiata e incestuosa, Era fatta di dolci colline boschive, un paesaggio bellissimo, profondamente ricco, con muretti di pietra e strade strette che lo avevano preservato. Le vecchie case erano di pietra, con stanze dotate di finestre sui due lati opposti che lasciavano entrare la brezza durante le estati canicolari. In origine, prima della Rivoluzione, la terra era stata data in concessione, enormi latifondi trasformati in territori agricoli, prima con le piantagioni di tabacco e in seguito con le fattorie. Negli anni Venti o Trenta del Novecento Paul Mellon, che amava la caccia, arrivò nella zona e acquistò grandi appezzamenti; i suoi amici lo imitarono. Diventò una regione di cavalli e cacciatori, con i segugi che correvano all'impazzata, abbaiando, mentre dietro di loro, dagli alberi, spuntavano i cavalli al galoppo con i loro cavalieri, che saltavano muretti di pietra e fossati, su e giù per le colline, ora rallentando un po', ora riprendendo il galoppo.

Era un luogo ordinato ed elegante, il Kingdom, da Middle-burg a Upperville, un luogo e una vita a parte, per lo più di intensa bellezza, con campi sconfinati intrisi di pioggia o dolci e illuminati dal sole. In primavera c'erano le corse, la Gold Cup a maggio, sulle colline, il pubblico che guardava distrattamente dalle file di automobili parcheggiate, con cibo e bibite in bella vista. In autunno c'era la caccia, che proseguiva fino a inverno   inoltrato, fino a febbraio, quando il terreno diventava troppo duro e i torrenti ghiacciavano. Tutti possedevano dei cani. Se avevi dato il nome a un cane, quando non serviva più per la caccia maschio o femmina, l'animale diventava tuo a tutti gli effetti e capitava che te lo scaricassero davanti alla porta di casa.

Le belle dimore appartenevano ai ricchi, ai dottori, e le proprietà - fattorie, le chiamavano - conservavano i loro antichi nomi. Si conoscevano tutti, gli sconosciuti venivano guardati con sospetto; erano bianchi, protestanti, con una tacita tolleranza per i rari cattolici. Gli arredi delle case erano inglesi e spesso antichi, passati da una generazione all'altra. Terra di cavalli e di golf. Gli amici migliori te li facevi praticando uno sport.

La contea si trovava a meno di un'ora di auto da Washington e dalla zona del centro dove lavorava Vivian, a cui era collegata da una strada diritta a due corsie. Il lavoro di Vivian era più o meno una formalità, faceva la centralinista in un ufficio del catasto e nei fine settimana tornava a casa, alle corse o alle vendite di purosangue o alla caccia in collina. Le battute di caccia erano come i club, e per partecipare alla migliore, come lei e suo padre, bisognava possedere almeno venti ettari. Il maestro di quella battuta di caccia era John Stump, un giudice che sembrava uscito da un libro di Dickens, robusto e irascibile, con un'incurabile passione per le donne, che una volta lo aveva spinto a tentare il suicidio perché era stato rifiutato dalla sua amata. Al culmine della disperazione si era gettato da una finestra atterrando su degli arbusti. Era stato sposato tre volte, e ogni volta, si era notato, con una donna dai seni più grossi di quella che l'aveva preceduta. I divorzi erano causati dal fatto che il giudice beveva, il che del resto ben si adattava alla sua immagine di signorotto di campagna, ma comunque come maestro di caccia era preciso ed esigeva un'etichetta perfetta. Una volta, per una piccola scorrettezza aveva fermato tutti i cavalieri e attaccato una severa ramanzina, finché qualcuno lo aveva   interrotto: « Senti, non mi sono svegliato alle sei per ascoltare una predica ».

«Scendi da cavallo! » aveva gridato Stump. «Smonta immediatamente e torna alle scuderie! » Dopo si era scusato.

Il giudice Stump era amico del padre di Vivian, George Amussen, che era un uomo ben educato e cortese, particolarmente leale con le persone che riteneva sue amiche. Il giudice era il suo avvocato e Anna Wayne, la prima moglie di Stump, dotata di poco seno ma ottima cavallerizza, prima del matrimonio lo aveva frequentato per un certo periodo e si riteneva che avesse accettato di sposare il giudice solo quando si era convinta che Amussen non l'avrebbe sposata.

Il giudice Stump correva dietro alle sottane, George Amussen no. Erano le donne a correre dietro a lui. Era un uomo elegante, riservato e anche molto ammirato per il suo successo nella compravendita di proprietà immobiliari a Washington e in campagna. Uomo pacato e paziente, si era reso conto prima di altri che la città stava cambiando, e negli anni aveva acquistato, a volte in società con altri, svariati condomini nella parte nordovest della città e un palazzo commerciale in Wisconsin Avenue. Era discreto riguardo ai suoi possedimenti ed evitava di parlarne. Guidava un'automobile qualsiasi e vestiva in modo informale, senza ostentazione, di solito con una giacca sportiva e pantaloni di buon taglio, oppure, quando era necessario, con un completo elegante.

Aveva i capelli chiari brizzolati e camminava con un passo sciolto che sembrava incarnare forza e persino una certa saldezza di principi, l'idea di stare dalla parte del giusto. Da gentiluomo, membro di diversi country club, conosceva per nome tutti i camerieri di colore e loro conoscevano lui. Ogni anno a Natale dava una mancia doppia.

Washington era una città del Sud, letargica e di medie dimensioni. Il clima era atroce, umido e freddo in inverno e caldo in maniera violenta d'estate, il caldo del Delta. La città aveva le   sue istituzioni: oltre a quelle governative, i vecchi e amati alberghi come il Wardman, detto familiarmente l'accademia delle cavalcate per via delle numerose amanti che risiedevano lì, la Riggs Bank, che era la banca consigliata, i grandi magazzini di downtown dalle solide tradizioni. Howard Breen, che era uno dei proprietari della compagnia di assicurazioni dove ufficialmente lavorava George Amussen, un giorno avrebbe ereditato le numerose proprietà accumulate da suo padre, compreso il più bel palazzo della città, dove il vecchio signore, con un feltro in testa e una sputacchiera accanto, spesso sedeva nell'atrio osservando ogni cosa con occhi da lucertola. Negli appartamenti erano ammesse soltanto le persone giuste, e persino loro venivano trattate con indifferenza. Se le salutava con un lieve cenno del capo al loro passaggio, cosa piuttosto rara, il suo veniva considerato un segno di cordialità. Comunque gli appartamenti erano ampi, con bei camini e soffitti alti, e prendendo esempio dal padrone i dipendenti erano talmente laconici da risultare insolenti.

La guerra aveva cambiato tutto. Le orde di militari e personale della Marina, i dipendenti governativi, le giovani donne attirate in città dalla richiesta di segretarie... nel giro di due o tre anni la sonnolenta città provinciale era sparita. Sotto alcuni aspetti rimaneva aggrappata alle vecchie maniere, ma il passato stava scomparendo. Vivian era diventata grande in quegli anni. Benché si presentasse al club con calzoncini che suo padre giudicava troppo corti e avesse cominciato a portare i tacchi alti troppo presto, in realtà i suoi modi erano quelli dell'epoca in cui era cresciuta.

Bowman le scrisse una lettera e lei, quasi cogliendolo di sorpresa, gli rispose. Le sue lettere erano cordiali e aperte. Quella primavera e all'inizio dell'estate venne a New York più volte; si fermava da Louise e divideva il letto con lei, ridendo, in pigiama. Non aveva ancora parlato del suo ragazzo con il padre. Quelli con cui era uscita a Washington lavoravano per il dipartimento di Stato o nel settore fondiario della Riggs Bank ed erano   sotto molti aspetti copie dei suoi genitori. Lei non si considerava una copia. Era spericolata, in effetti, a prendere il treno per vedere un uomo incontrato in un bar, di cui non conosceva le origini, per quanto le sembrasse profondo e speciale. Andavano da Luchow's, dove il cameriere diceva Guten Abend e Bowman gli parlava un po' in tedesco.

« Non sapevo che parlassi tedesco. » «Be', fino a poco tempo fa non era un grande merito» rispose Bowman.

Aveva studiato tedesco a Harvard, le spiegò, perché era la lingua della scienza.

«All'epoca volevo diventare uno scienziato. Ho cambiato idea parecchie volte. Per un po' ho pensato che avrei potuto insegnare. Ho ancora un certo trasporto per l'insegnamento. Poi ho deciso di fare il giornalista. A quel punto ho sentito che c'era un lavoro come lettore. È stata pura fortuna, o forse destino. Che cosa pensi dell'idea di destino? » «Non ci ho mai pensato» rispose lei in tono indifferente.

A Bowman piaceva parlare con lei, e gli piacevano i sorrisi che di tanto in tanto le illuminavano la fronte. Vivian portava un abito senza maniche e le sue piccole spalle rotonde brillavano. Mentre mangiava un pezzetto di pane teneva il mignolo ricurvo. I gesti, le espressioni del viso, come vestiva... questi erano i segni rivelatori. Lui immaginava luoghi dove sarebbero potuti andare insieme, dove nessuno li conosceva e lui l'avrebbe avuta tutta per sé senza limiti di tempo, per quanto non sapesse bene come sarebbe potuto accadere.

«New York è una città meravigliosa, non trovi? » le disse.

« Sì. Mi piace venire qui. » « Come hai conosciuto Louise? » «Eravamo in collegio insieme, nella stessa classe. La prima volta che mi ha rivolto la parola mi ha raccontato una barzelletta sporca, be', non proprio sporca... insomma, hai capito.» Lui le raccontò di quella volta in cui le lettere ES si erano spente sulla grande insegna luminosa della Essex House, ed   eccola lì, la parola che dal quarantesimo piano illuminava la notte. Non proseguì. Non voleva sembrare volgare.

Alla fine della serata, davanti alla porta, si preparava a salutarla, ma Vivian si comportò come se lui non fosse presente, aprendo senza dire nulla. Louise era andata a trovare i genitori per il fine settimana. Vivian non voleva darlo a vedere ma era nervosa. Bowman salì con lei.

«Ti andrebbe un caffè? » gli chiese.

«Sì, sarebbe... anzi no» disse. «Non proprio.» Rimasero seduti in silenzio per qualche momento e poi semplicemente lei si allungò verso di lui e lo baciò. Un bacio lieve e appassionato.

«Vuoi? » gli chiese.

Non si spogliò completamente: scarpe, calze e gonna, nien-t'altro. Non era pronta a restare nuda. Si baciarono e sussurrarono. Mentre si sfilava le mutandine bianche, un bianco che sembrava sacro, lui trattenne il respiro. La sua delicatezza, la peluria bionda. Bowman non riusciva a credere che lo stessero facendo davvero.

«Non ho... non ho niente con me» mormorò.

Non ci fu risposta.

Lui non aveva esperienza eppure fu tutto naturale e travolgente. Semmai un po' troppo rapido, ma non poteva farci niente. Era imbarazzato. Lei teneva la faccia vicino alla sua.

«Mi dispiace» disse. «Non sono riuscito a trattenermi. » Lei non rispose perché in realtà non aveva gli strumenti per giudicare.

Andò in bagno e Bowman si sdraiò, sgomento di fronte a quanto era appena accaduto, inebriato da un mondo che all'improvviso gli aveva spalancato il più grande dei piaceri, un piacere al di là del comprensibile. Sapeva della felicità che poteva portare.

Vivian inseguiva pensieri meno esaltanti. C'era l'eventualità di rimanere incinta, per quanto in realtà avesse un'idea piuttosto vaga della cosa. A scuola si erano fatte molte chiacchiere,   ma erano chiacchiere imprecise. Comunque circolavano storie di ragazze che erano rimaste incinte la prima volta. Questione di fortuna, pensò. Ovviamente non era stata proprio la prima volta, per lei.

«Mi ricordi un pony» le disse lui affettuosamente.

«Un pony? Perché? » « Sei tanto bella. E libera. » «Non capisco che cosa c'entri con i pony» disse lei. «E poi i pony mordono. Il mio almeno mordeva. » Si rannicchiò accanto a lui e lui si sforzò di sintonizzarsi sui suoi pensieri. Qualsiasi cosa accadesse in seguito, l'avevano fatto. Provava un senso di esaltazione.

Prima della fine del mese lui andò a Washington e dormirono insieme, l'indomani Bowman andò in campagna per pranzare con il padre di lei. Possedevano una fattoria di centosessanta ettari che si chiamava Gallops, con i terreni quasi tutti a pascolo. La casa padronale, di pietra grezza, sorgeva su un'altura. Vivian lo portò a fare un giro del pianterreno e del primo piano, come se volesse presentarlo alla casa e, in un certo senso, a se stessa. Gli arredi essenziali esprimevano indifferenza per l'eleganza. Nel salotto, dietro un divano, lui notò degli escrementi canini secchi, come nei palazzi del Seicento.

Il pranzo venne servito da una cameriera di colore che Amussen trattava con assoluta familiarità. Si chiamava Mattie e servì la portata principale su un vassoio d'argento.

«Vivian mi dice che lei lavora nell'editoria» disse Amussen.

«Sì, signore. Faccio l'editor.» « Capisco. » «È una piccola casa editrice» proseguì Bowman, «con una buona reputazione letteraria. » Amussen, staccando con l'unghia del mignolo un pezzetto di cibo rimasto sull'incisivo, disse: «Che cosa intende con letteraria? »  

«Be', che pubblichiamo soprattutto libri di qualità. Libri che potrebbero diventare dei classici. Questo nella nostra collana migliore, ovviamente. Per far soldi, pubblichiamo anche altro, o quantomeno ci proviamo. » «Mattie, ci porteresti il caffè?» chiese Amussen alla cameriera. « Desidera un caffè, signor Bowman? » «Sì, grazie.» «Viv, tu?» «Sì, papà.» La breve conversazione sull'editoria non aveva suscitato alcuna eco. Non era stata più interessante di una conversazione sul tempo. Bowman aveva notato solo libri popolari nella libreria del soggiorno, «Libri del mese» con copertine intonse. Dietro i vetri di un mobile di mogano c'erano alcuni volumi scuri, rilegati in pelle, il tipo di libro trasmesso in eredità che nessuno legge.

Mentre bevevano il caffè Bowman fece l'ultimo tentativo di mettersi in buona luce come editor, ma Amussen passò a parlare della Marina, Bowman era stato in Marina, giusto? Avevano un vicino, Royce Cromwell, che aveva frequentato l'Accademia Annapolis nella stessa classe di Charlie McVay, il comandante dell'Indianapolis. Bowman lo aveva incontrato, per caso?

«Non mi pare. Ero soltanto un giovane guardiamarina. Il suo vicino ha combattuto nel Pacifico? » « Non saprei. » «Perché c'era una grande flotta anche nell'Atlantico, navi convoglio, per l'invasione e il resto. Centinaia di navi.» «Non saprei proprio. Dovrebbe chiederlo a lui. » Quasi senza darlo a vedere Amussen era riuscito a far passare Bowman per un curioso. Era stato uno di quei pranzi in cui il rumore del coltello o della forchetta sul piatto, o di un bicchiere appoggiato sul tavolo, non fanno che amplificare il silenzio.

Una volta fuori, mentre si avviavano verso l'automobile, Bowman vide qualcosa che si muoveva lento, ondeggiando, nell'aiuola di edera che costeggiava il vialetto.

 

«C'è un serpente, credo.» « Dove? » «Lì. Sotto l'edera. » «Accidenti» disse Vivian. «E proprio il posto dove ai cani piace andare a dormire. Era grosso? » Non era un serpentello, era grosso come un tubo di gomma.

«Grandicello» rispose.

Vivian si guardò intorno, trovò un rastrello e cominciò a conficcare furiosamente il manico nell'aiuola. Comunque il serpente non c'era più.

«Che cos'era? Un serpente a sonagli?» «Non lo so. Era grosso, ci sono serpenti a sonagli, da queste parti? » « Certo che ce ne sono. » «Faresti meglio a uscire di lì. » Vivian non aveva paura. Passò ancora una volta il manico del rastrello fra le foglie scure e lucide.

«Maledetto rettile» disse.

Andò a informare il padre. Bowman rimase a fissare l'edera fitta dell'aiuola, attento a cogliere il minimo movimento. Lei ci era entrata dentro.

Tornando a casa, quel giorno, Bowman ebbe la sensazione di lasciare un posto dove non parlavano la sua lingua. Stava per dirlo, quando Vivian commentò: « Non far caso a papà. Certe volte è così. Non ce l'aveva con te».

« Non credo di aver fatto una buona impressione. » «Oh, dovresti vederlo con Bryan, il marito di mia sorella. Lo chiama Whyan. Perché diavolo si sarà presa un tipo simile? dice. Non è neanche capace di cavalcare. » « Questo non mi consola granché. Però so andare per mare » aggiunse. « Anche tuo padre lo fa? » «È andato in barca a vela alle Bahamas. » Sembrava pronta a difenderlo e Bowman capì che era meglio non insistere. Vivian guardava fuori dal finestrino, un po' assente, ma con quella gonna di pelle, i capelli legati in una coda di   cavallo, il volto scoperto, una sottile catena d'oro al collo, era il ritratto vivente della donna desiderabile. Si girò verso di lui.

«È così» commentò. «Come se prima dovessi farti passare dalla porta di servizio. » « Tua madre è come lui? » « Mia madre? No. » «Com'è?» «È un'ubriacona» disse Vivian. «È per questo che hanno divorziato. » «Dove abita? A Middleburg? » «No, ha un appartamento a Washington, vicino a Dupont Circle. La conoscerai. » Sua madre era stata bella anche se adesso era difficile immaginarlo, aggiunse Vivian. Cominciava a bere vodka al mattino e non si vestiva quasi mai prima del pomeriggio.

«In realtà ci ha cresciute papà. Siamo le sue ragazze. Ha dovuto proteggerci. » Proseguirono per un po' in silenzio e dalle parti di Center-ville lui le gettò un'occhiata e vide che si era addormentata. La testa era scivolata dolcemente di lato e aveva la bocca socchiusa. A Bowman vennero pensieri erotici. Le sue gambe nelle calze seriche, chissà perché le pensava separatamente, la loro lunghezza, la forma. Si rese conto di essere profondamente innamorato. Lei aveva il potere di dispensare una felicità immensa.

Quando alla stazione si salutarono ebbe la sensazione che fra loro fosse accaduto qualcosa di definitivo. Malgrado l'incertezza della situazione si sentiva sicuro, provava una sicurezza che non lo avrebbe mai abbandonato.