21. Azul
La primavera e l'estate di quell'anno, dell'anno in cui comprò la casa, furono per Bowman le stagioni più felici della sua vita, sebbene avesse dimenticato alcuni dei periodi precedenti. A parte qualche mobiletto per le camere del piano superiore, non avevano acquistato molto perché non c'erano i soldi, ma nella sua spoglia semplicità la casa offriva ampio spazio per essere felici. C'erano le stagioni, gli alberi, l'erba un po' troppo alta dove il pendio declinava verso l'acqua, i raggi del sole riflessi dalle finestre delle case di fronte.
Le mattine d'estate, la luce del mondo che inondava le stanze e il silenzio. Era una vita a piedi nudi, il fresco della notte sulle assi del pavimento, gli alberi verdeggianti quando uscivi, i primi deboli richiami degli uccelli. Arrivava dalla città in giacca e cravatta e non le rimetteva finché non vi tornava. La casa non si poteva chiudere a chiave, il chiavistello della porta della cucina era fuori asse. I davanzali erano stati rovinati dalle intemperie e avevano la vernice scrostata, lui aveva stuccato qualche crepa senza però ridipingerli. L'acquisto della casa aveva richiesto un pagamento in contanti di più di cinquantacinquemila dollari. Era riuscito a metterli insieme. Non si era mai preoccupato troppo dei soldi. Guadagnava trentaquattromila dollari l'anno, ed era previsto un rimborso spese per i pranzi e le frequenti cene di lavoro. Il canone d'affitto del suo appartamento era controllato, quindi pagava meno della metà della media. Le spese per andare in Europa due volte all'anno non erano a carico suo, e ogni tanto questo valeva anche per altre destinazioni, come Chicago e Los Angeles. Conduceva una vita confortevole sotto quasi tutti i punti di vista.
Beatrice non aveva lasciato niente, la lunga malattia aveva esaurito tutti i risparmi. Bowman contava di ereditare dalla zia Dorothy, ma non aveva idea di quale cifra si trattasse. Dorothy abitava in un appartamentino con il pianoforte davanti al quale Frank amava sedersi il pomeriggio per suonare la musica tintinnante e leggera che a lei piaceva tanto. Viveva grazie a una piccola rendita e alla pensione. D'estate era solita andare a trovare per un paio di settimane Katrina Loes, un'amica d'infanzia che aveva una casa alle Thousand Islands. Non aveva mai chiesto niente, le sue necessità erano modeste. Se mai tu dovessi avere bisogno di qualcosa... le aveva detto Bowman. Lei gli aveva sempre risposto che non aveva bisogno di niente.
Quando tornò da scuola per le vacanze estive, sebbene continuasse a dimostrare affetto verso sua madre e a essere una ragazza equilibrata, Anet era cambiata. Aveva sentito il richiamo della vita, degli altri, o forse di una persona in particolare, anche se non sembrava avere un ragazzo. Era consapevole della propria bellezza. La metteva alla prova, ma non con Bowman. Si era abituata a lui, lo chiamava Phil. Quell'estate non accentrò molto l'attenzione su di sé, usciva con gli amici, per giocare a tennis, fare il bagno in una delle loro piscine e parlare, parlare in continuazione, sembrava.
In un pomeriggio molto caldo, all'improvviso, dalla sua camera al primo piano giunse un urlo terrificante. Christine salì di corsa le scale.
«Anet! Cosa succede?» gridò.
Girandosi nel letto, Anet era finita sopra un'ape. La puntura l'aveva svegliata. Piangeva per il dolore. Un dolore molto acuto e inatteso. Christine cercava di consolarla. Bowman le raggiunse con un asciugamano bagnato d'acqua fredda.
«Ti passerà subito» promise. «Appoggiaci sopra questo. Dov'è andata? » « Dov'è andata che cosa? » «L'ape.» «Non lo so» rispose Anet singhiozzando.
«Quando pungono, perdono il pungiglione. E seghettato e ha un uncino ricurvo. Non cercare di tirarlo fuori premendo con le dita. » Non era una puntura di ape, ma nessuno capì di che cos'altro si fosse trattato. Anet si era addormentata con i pantaloncini corti, che erano leggermente abbassati.
« Ti passerà presto » disse lui.
«Fa male.» Anet singhiozzava e respirava a fatica.
« Lo vedi? » chiese.
Fece scivolare un po' più in basso la cintura dei pantaloni inclinando la testa per guardarsi una natica. A eccezione di una piccola zona arrossata, la pelle era perfetta.
«Non mi sembra male» disse Bowman giocando un po' sul doppio senso. «Adesso vediamo anche l'altra» aggiunse scherzando.
«All'altra non è successo niente» rispose lei con freddezza.
Eppure Bowman si sentiva a suo agio con lei, a trattarla come una bambina, quasi come una figlia, e forse anche lei si sentiva allo stesso modo con lui.
Un giorno, nel tardo pomeriggio, era seduto fuori a fumare una sigaretta e a osservare la superficie calma e assolutamente immobile del laghetto, le case di fronte con le luci già accese e un'automobile che, mezzo nascosta dagli alberi, si dirigeva lentamente verso una di esse. Il cielo era sereno e di un blu sempre più intenso. A ponente notò un banco di nuvole attraversate da improvvisi lampi di luce. Il rumore dei tuoni non arrivava, il temporale era ancora lontano. Poi si sentì un primo, debole rimbombo.
Christine uscì sulla veranda.
«Mi è sembrato di sentire un tuono» disse.
«Sì. Guardala.» Lei gli si sedette accanto.
« Non sapevo che fumassi » disse.
«Solo ogni tanto» rispose lui. «Di solito fumo le Gauloises, come un divo del cinema francese, ma qui non si trovano. Questa è una sigaretta qualsiasi. » «Oh, guarda! » disse lei.
Il cielo fu attraversato da una linea frastagliata, bianca e luminosissima, che arrivò fino a terra. Dopo un intervallo che parve loro molto lungo arrivò il leggero brontolio del tuono.
«Si avvicina un temporale. » « Adoro i temporali. Sì, sta arrivando. » « Se misuri l'intervallo puoi sapere quanto è distante » disse lui.
« Come si fa? » « Cinque o sei secondi tra il fulmine e il tuono corrispondono più o meno a un miglio. » Lei aspettò di vedere un altro fulmine e cominciò a contare.
«Quanti erano, circa dodici secondi?» « Più o meno. » Non era stato un tuono potente, era difficile capire. Un attimo dopo dal banco di nuvole scure si scatenò un tuono più minaccioso, simile al ruggito di una enorme fiera. Il temporale si stava avvicinando, e sembrava muoversi più velocemente. Il cielo era buio, illuminato da lampi irregolari e carichi di elettricità. Si era alzato il vento. Profumava di pioggia.
«Rimaniamo fuori? » chiese lei.
«Ancora due minuti. » La grande nube, il fronte del temporale, era già quasi sopra di loro. Era scurissima, enorme, simile alla parete di una montagna. Sembrava coprire il mondo intero. I fulmini lampeggiavano a meno di un miglio di distanza con un crepitio spaventoso e producevano quasi immediatamente un rombo assordante.
« Ci conviene entrare. » « Vieni con me » supplicò lei.
«Sto arrivando.» Erano appena entrati quando un altro lampo li abbagliò. Sembrava che il tuono fosse sopra le loro teste. Dal punto della strada dove l'avevano lasciata i suoi accompagnatori, Anet si precipitò correndo verso la porta della cucina ed entrò in casa. Era spaventata.
«Saresti dovuta rimanere dentro l'automobile! » Sembrava fosse scesa la notte. Era praticamente buio. Si sedettero tutti e tre insieme in soggiorno e fra un tuono e l'altro sentirono cadere la prima pioggia. Diventò presto torrenziale. Diluviava. All'improvviso si spensero le luci.
«Oh, mio Dio.» «Siamo al sicuro, qui? » gridò Anet.
Si sentì un violento crepitio e la stanza fu illuminata da un lampo che era caduto appena fuori. Il bagliore permise a Bow-man di vedere le due donne strette in un abbraccio, pallidissime.
« Non preoccupatevi » disse.
«Può entrare?» gridò Anet.
«No. Non può.» Mentre pioveva, grazie alla luce intermittente dei lampi che diventavano sempre meno intensi, di tanto in tanto le osservava. Poi all'improvviso la pioggia diminuì. I tuoni si allontanarono. La terra sembrava essersi calmata. Infine Christine disse: «È finito?» «Penso di sì.» « Per quanto credi che rimarremo senza luce? » chiese lei.
«Abbiamo qualche candela. » «Dove sono?» «In un cassetto della cucina» rispose lui. «Vado a prenderle. »
Ne trovò una e l'accese. Rimasero seduti alla debole luce della fiamma, scossi.
«Ho avuto paura che colpisse la casa» disse Anet. «Cosa sarebbe successo, se l'avesse colpita? » «Mi stai chiedendo se c'era il rischio che prendesse fuoco? Probabilmente sì. Non ti sei spaventata, vero? » chiese lui.
«Sì.» «Comunque adesso il pericolo è passato. Quando sono nato io c'era un violento temporale. » Era ancora agitata.
« Forse ci sei abituato » disse lei.
Ora i tuoni erano deboli e lontani.
«È l'unica candela che abbiamo?» chiese Christine.
«C'è anche un moccolo. » Era scesa la sera. Dopo un po' di tempo lui salì al piano di sopra per vedere se le case al di là del lago erano illuminate.
« No » disse mentre scendeva. « In paese però la luce è tornata di sicuro. Andiamo in paese a mangiare qualcosa, e scopriremo cosa sta succedendo. » Pranzò sul tardi insieme a Eddins nella biblioteca del Century. Sedettero a un tavolo vicino a una finestra affacciata sulla strada sottostante. Eddins indossava la giacca e una cravatta di seta gialla. Lui e un socio stavano comprando l'agenzia: Delovet andava in pensione, disse. Si erano accordati sul prezzo e sui libri per i quali Delovet avrebbe ricevuto una parte delle commissioni.
«Credo che la maggior parte dei clienti rimarrà con noi» disse. « Non abbiamo intenzione di cambiare il nome. » « Vi tenete un'eredità infamante. » «Sì, in parte è vero, ma preferiamo non sollevare vespai. » : «Perché va in pensione? » « Non lo so con certezza. Per dedicarsi meglio ai piaceri della vita, cosa di cui del resto non si è mai privato. L'ha fatta franca parecchie volte. » « Che ne è stato dell'attrice? » «Dee Dee?» Delovet aveva finalmente rotto la relazione con lei. Era diventata un'alcolizzata. L'ultima volta che Eddins l'aveva vista, a una festa, Dee Dee era caduta dalle scale. Sei una povera ubriacona, le aveva detto Delovet. Lui stava trasferendo il suo harem in Francia.
«Viaggiare sembra avere ancora il suo fascino» disse Eddins. «Però viaggia troppa gente, ci sono troppi pullman pieni di turisti in giro. Non si riesce più a parcheggiare. Quando ero ragazzo in questo paese c'erano centotrenta milioni di persone, ricordo bene la cifra, perché l'abbiamo imparata in classe. Alla lezione di recitazione, credo, o forse no. Il mondo era più piccolo: c'era la città dove si abitava, c'era il Nord, e c'era la California - nessuno era mai stato in California. Vincent» disse facendo un cenno al cameriere, «per favore, lo metti in freezer per qualche minuto? È un po' caldo. » La sala si stava svuotando. La pausa pranzo era finita. Loro non avevano fretta. Eddins aveva venduto un libro che era entrato nella lista dei best seller e aveva intascato un consistente anticipo per un altro.
«Dena voleva viaggiare» disse. «Desiderava tanto vedere la torre di Pisa. Voleva cenare sul Nilo di fronte alle piramidi. Avrebbe dovuto sposare un uomo più ricco, un magnate. Avrei dovuto avere più successo. Era una donna davvero magnifica. Lo dico sul serio. Come uomo credo di non essere stato all'altezza. Tu hai viaggiato, sei fortunato. Mi ricordo di quella donna inglese. Cosa ne è stato di lei? » «Vive a Londra» rispose Bowman. «A Hampstead, per l'esattezza. » «Vedi? Non so nemmeno dov'è, Hampstead. Dev'essere un posto con grandi prati e donne che passeggiano in abito da sera. Sai, non l'ho mai conosciuta... mi hai parlato di lei, ma non ho mai avuto l'occasione di vederla con i miei occhi. Una donna eccezionale, ne sono sicuro. Sei ancora un bell'uomo, vecchio maiale. Era alta? Non ricordo. Io preferisco le donne alte. Irene non è molto alta. Temo che non crescerà più. Sarebbe chiedere troppo. Ordiniamo un'altra bottiglia di questo vino caldo? No, meglio non esagerare. Perché invece non andiamo a prendere qualcosa al bar? » Erano stati spesso al bar, subito dopo essere diventati membri del club, e Eddins era meravigliosamente socievole. Continuava a essere socievole e si vestiva ancora meglio. Mentre si avvicinavano al banco strinse un po' il nodo della cravatta.
« Ora raccontami di Christine » disse. « Come sta Christine? » «Cosa intendi con come sta?» «Niente, chiedevo così, per sapere. Non l'ho più vista. Vive in campagna? L'hai alloggiata lì?» «In pianta stabile. » « Imbroglione. Quando mai hai pensato di sistemarti? » « Sono la persona più sistemata che esiste. » « Di sposarti, voglio dire » chiarì Eddins.
«Non c'è cosa al mondo che vorrei di più. » «Mi ricordo del tuo ultimo matrimonio, del tuo primo matrimonio, cioè. Cosa ne è stato di quella ragazza sensuale che aveva una relazione con il tuo ricco suocero? » «Lui è morto.» «È morto? Era una storia così passionale? » «No, lei non c'entra. Si era risposato, era felicemente sposato. Questo molto tempo fa. Sembrano secoli. Si usava ancora l'argenteria di famiglia. » «Mi piace pensare che quella ragazza non sia invecchiata. Chissà che ne è stato di lei. Che fine pensi che abbia fatto? » « Non ne ho idea. Forse Vivian lo sa. » «Anche Vivian era piuttosto bella. » « Sì, lo era. » «Le donne hanno questo pregio. Hanno deciso di aprire il club anche alle donne, qui, tu cosa ne pensi? Siamo nel pieno della questione femminile. Vogliono uguaglianza, nel lavoro, nel matrimonio, in tutto. Non vogliono essere desiderate a meno che non piaccia anche a loro. » «È scandaloso.» « Il punto è che vogliono una vita come la nostra. Ma non possiamo avere la stessa vita. E così il vecchio è morto, eh? Tuo suocero. » « Anche mio padre. » «Mi dispiace. Anche il mio. Proprio la primavera scorsa. È successo all'improvviso, non sono riuscito ad arrivare in tempo. Io vengo da un piccolo paese e da una famiglia rispettabile. Conoscevamo il dottore, conoscevamo il direttore della banca. Se chiamavi il dottore, anche a un'ora impossibile, veniva subito. Ti conosceva. Conosceva tutta la famiglia. Ti aveva tenuto sospeso per i piedi quando avevi due minuti di vita e ti aveva dato un colpetto sulla schiena per fare uscire il primo urlo dai tuoi polmoni. Decoro, era quella la parola d'ordine. Fedeltà. Io sono rimasto fedele a tutto questo, alla mia infanzia, al vecchio Sud. Devi essere fedele, nella vita. Se non sei fedele, rimani solo. Ho una magnifica fotografia di mio padre con la divisa della fanteria, mentre fuma una sigaretta. Non so dove gliel'hanno fatta. La fotografia è una cosa fantastica. In quella foto è ancora vivo. » Si interruppe come per riflettere, oppure per voltare pagina.
«Sto vendendo un libro a quelli del cinema» disse. «Una cifra favolosa, ma che sciacalli! Non lo meritano. Hanno troppi soldi, troppi. Una volta avevo uno scrittore, si chiamava Boyd, un ex predicatore, sapeva scrivere, aveva talento. Non sono riuscito a vendere i suoi racconti. È una vergogna. Ha scritto un racconto che non dimenticherò mai, su una scrofa cieca, roba da spezzarti il cuore. La sua ambizione era di riuscire a vendere un racconto o due a HarperY. Non chiedeva molto, altre persone c'erano riuscite, altri scrittori che per una ragione o per l'altra erano piaciuti di più. » Si salutarono in strada stringendosi la mano. Erano da poco passate le due e il pomeriggio era radioso. La luce sembrava insolitamente trasparente. Bowman decise di risalire Madison Street. Era un quartiere davvero unico: le gallerie d'arte con frammenti di statue nelle vie laterali, gli edifici di appartamenti di lusso che facevano angolo, veri monumenti, non troppo alti, otto o dieci piani, con ampie finestre. Il traffico non era intenso, il verde del parco si trovava a un isolato. I pochi tavoli sul marciapiede di un ristorantino erano vuoti. Le donne facevano acquisti. Un anziano signore portava a spasso il cane.
Più avanti c'era una libreria che gli piaceva. Il proprietario era un tipo esile sulla cinquantina, sempre elegante, che, si diceva, proveniva da una famiglia agiata di cui era la pecora nera. Fin dall'infanzia aveva sempre amato i libri e voleva diventare uno scrittore, e più tardi si era messo a copiare a mano intere pagine di Flaubert e di Dickens. Si immaginava a Parigi, a scrivere in solitudine in una camera inondata di luce, e in effetti alla fine era stato a Parigi, ma si era sentito troppo solo e non sapeva scrivere.
La libreria era a sua immagine e somiglianza. C'era una ve-trinetta e la parte anteriore del negozio era stretta, schiacciata dal vano scala dell'edificio confinante che portava agli appartamenti dei piani superiori, ma il retro si apriva in una stanza rivestita con scaffali di libri dal pavimento al soffitto e su ciascuno di essi Edward Heiman poteva allungare la mano senza esitazione, come se li avesse riempiti personalmente. I suoi suggerimenti erano sempre affidabili. Conosceva quasi tutti i clienti, se non di persona almeno di nome, tuttavia nella sua libreria entravano e si trattenevano a lungo anche degli sconosciuti. Era cresciuto a un paio di isolati di distanza, in una casa di Park Avenue dove continuava ad abitare, e la famiglia era rimasta sconcertata dalla sua decisione di vendere libri. I best seller erano esposti su un piedistallo all'entrata del negozio, mescolati però con libri di altro genere.
Svolgeva la maggior parte del suo lavoro per telefono. I clienti lo chiamavano e gli ordinavano libri di cui avevano sentito parlare e li ricevevano a casa il giorno stesso, a volte insieme a uno o due titoli scelti da lui, che potevano essere restituiti. La sua opinione sui libri era molto acuta, libri sfuggiti ai critici - tranne ai più perspicaci -, che se ci si decideva ad aprirli si rivelavano ricchi di informazioni, intelligenti o pieni di stile. I suoi consigli piacevano soprattutto alle donne, che lo ritenevano una persona sensibile nonostante la timidezza. Era attratto dalle donne che indossavano abiti maschili, aveva confidato un giorno a Bowman, e in particolare dalle giapponesi. Gli piacevano le scrittrici, anche quelle la cui reputazione si basava su opere mediocri, o persino testi politici. Era convinto che gli uomini fossero stati avvantaggiati per secoli e che ora toccasse alle donne. Gli eccessi erano inevitabili.
« Clarissa » disse con l'abituale tono di voce pacato. « È un libro stupendo. Merita di avere successo. Non ne vendiamo molte copie, certo, ma questo non significa granché. Whitman ha regalato più copie di Foglie d'erba di quante ne abbia vendute, cosa che si potrebbe fare con molti dei libri contenuti qui. Non vendiamo nemmeno molti libri di John Marquand o di Louis Bromfield, se è per questo, ma è un'altra faccenda. » Era sposato, benché non si vedesse mai la moglie in negozio. Qualcuno diceva che era molto attraente. Non in senso fisico. Nel complesso.
Era una donna unica come lui, dunque, che in parte ne condivideva i gusti o forse aveva gusti propri. Lui viveva in un mondo di libri. Lei non era molto interessata ai libri, preferiva i vestiti e un certo tipo di amici. I libri, poi, erano davvero troppi; se ne poteva leggere uno ogni tanto... Forse Edward Heiman assomigliava a Liebling, o a Tomasi di Lampedusa nella sua Sicilia. Le loro mogli erano altrove.
Bowman continuò a camminare. Era una parte di Manhattan che gli piaceva, una zona piacevole e ricca le cui eccentricità valevano il loro prezzo. L'edificio in mattoni bianchi dove aveva abitato Swangren, il vecchio scrittore, era a pochi isolati, e l'appartamento disordinato di Gavril Aronsky era lì vicino. Il salvatore era diventato un libro famoso, aveva venduto almeno mezzo milione di copie. Baum non aveva mai pronunciato una parola di rimpianto per non averlo pubblicato. Aronsky aveva scritto altri quattro o cinque libri, ma la sua fama si era andata gradualmente spegnendo. Con l'età era diventato sempre più sottile anche lui e aveva finito per assomigliare a un uccello affamato. Quando qualcuno citava Il salvatore, Baum si limitava a rispondere: «Sì, conosco quel libro».
Al Clarke's Bowman fu colto da un sentimento di leggera nostalgia. A quell'ora del pomeriggio il locale era quasi deserto. La folla era rientrata negli uffici. Alcuni avventori bevevano seduti vicino alla vetrina e la luce del sole non consentiva di distinguerli chiaramente. Gli vennero in mente Vivian e la sua amica Louise. E George Amussen, con il suo atteggiamento di incrollabile disapprovazione. Le due figlie avevano condiviso con lui la passione per i cavalli ed entrambe avevano scelto l'uomo sbagliato. Il problema di Vivian - per quanto lui non se ne fosse accorto, allora - era che il bere, le grandi case, le automobili con il sedile posteriore pieno di stivali incrostati di fango e di sacchi di cibo per cani, l'alta stima di sé e il denaro erano una parte inestirpabile di lei. All'epoca gli erano sembrate cose trascurabili, persino divertenti.
Ordinò una birra. Si sentì trasportato indietro nel tempo. Si vide riflesso nello specchio brunito e argentato dietro al banco proprio come si era visto anni prima, appena arrivato a New York, un giovanotto ambizioso con il sogno di trovare il proprio posto, con tutto ciò che significava. Scrutò la propria immagine nello specchio. Era a metà del percorso o aveva superato da poco la metà, a seconda del punto in cui si iniziava a contare. Se la sua vita vera era cominciata a diciotto anni, adesso si trovava all'apice.