12. Espana

 

 

In ottobre andarono in Spagna. Enid c'era già stata, non con suo marito ma prima di sposarsi, con degli amici. Gli inglesi adoravano la Spagna. Come tutti i popoli nordici adoravano anche il Sud della Francia e l'Italia, le terre del sole.

Il cielo di Madrid era immenso, azzurro. A differenza di altre grandi città, Madrid non sorgeva lungo un fiume, il suo fiume erano i grandi viali alberati, la calle de Alcalà, il paseo del Prado. Poliziotti con i cappelli neri e le facce scure stazionavano agli angoli di molte strade. Il paese aspettava. Franco, l'anziano dittatore che aveva vinto la brutale Guerra civile in cui si era riaffermata una Spagna cattolica e conservatrice, era ancora al potere, sebbene si preparasse per l'immortalità e la morte. Si stava facendo costruire una tomba monumentale su una collina di granito poco lontana dalla città, la Valle dei Caduti. Centinaia di uomini, detenuti ai lavori forzati, lavoravano all'allestimento del luogo sacro dove il grande capo della Falange sarebbe giaciuto per l'eternità sotto una croce di quaranta piani, visitata da turisti, preti e ambasciatori e, finché anche l'ultimo di loro non fosse morto, dai coraggiosi combattenti che avevano lottato al suo fianco. La Spagna aveva cieli luminosi eppure viveva sotto un'ombra nera. Bowman faticò per convincere il proprietario di una libreria a vendergli una copia di Romancero gitano di Lorca, messo al bando dalla censura. Ne lesse qualche pagina a Enid, che non ne rimase colpita. Il Prado era buio, un museo trascurato, o addirittura abbandonato, e le opere d'arte erano esposte male. Cenavano nei ristoranti preferiti dai toreri, vicino all'arena, e in altri locali rumorosi e aperti   fino a tarda notte, e dopo cena bevevano qualcosa al Ritz, dove un barista sembrò riconoscere Enid, sebbene lei non avesse mai alloggiato lì.

Andarono a Toledo per un giorno e poi a Siviglia, dove era ancora estate e la voce della città, come diceva il poeta, riempiva gli occhi di lacrime. Attraversarono vicoli stretti tra i muri, lei con i tacchi alti, le spalle nude, e si sedettero nell'oscurità silenziosa ad ascoltare gli accordi di una chitarra al cui suono anche l'aria diventava immobile. Il chitarrista, rigido, cupo, intonava un accordo tetro dopo l'altro, finché la donna seduta vicino a lui, fino a quel momento invisibile, sollevò le braccia, cominciò a battere le mani producendo suoni simili a colpi di pistola e con ferocia gridò: Dalé! Incitava il chitarrista e ripeteva: Dalé, dalé! Poi iniziò a cantilenare lentamente, o meglio a recitare, non cantava, recitava una storia conosciuta da sempre, una siguiriya gitana; accompagnata dal tambureggiare ipnotico e ininterrotto della chitarra cantava come se stesse rinunciando alla propria vita, come se chiamasse la morte. Lei veniva da Utrera, gridava, il paese di Ferrate, il paese di Bernarda e Fernanda...

Teneva le mani sollevate davanti al viso e le batteva in modo ritmico, secco, la sua voce era densa di angoscia, cantava con gli occhi chiusi come se fosse cieca, le braccia nude, anelli d'argento alle orecchie e lunghi capelli neri. La canzone era sua, ma in realtà apparteneva alla vega, la grande pianura dove i lavoratori avevano la pelle bruciata dal sole e la calura faceva tremolare l'aria; batteva le mani con violenza, con accanimento, e riversava nel canto la disperazione della vita, l'amarezza, i delitti; un paese che si chiamava Utrera, la casa in cui era accaduto, l'amante scambiato per morto; poi all'improvviso sbucò dall'oscurità un uomo con i pantaloni neri e i capelli scuri che fece esplodere i tacchi ricoperti di acciaio sul pavimento di legno, le braccia sospese sopra la testa. La donna cantò ancora più intensamente, tra gli accordi inarrestabili, il violento, serrato battere dei tacchi, l'argento, il nero, il sottile corpo dell'uomo che   disegnava una S, i cani che trotterellavano nel buio accanto alle case, l'acqua che scorreva, il rumore degli alberi.

Dopo si sedettero in un bar affacciato sul vicolo, quasi senza parlare.

«A che cosa stai pensando? » chiese lui.

Lei rispose solo: « Mio Dio ».

Quando tornarono in albergo lui cominciò a baciarle follemente le labbra, il collo. Le abbassò le spalline del vestito. Nessuna donna avrebbe potuto appartenergli di più. La vecchia vita opprimente era ormai alle sue spalle, era stata trasformata da una sorta di rivelazione. Fecero l'amore con la violenza di un crimine, lui stringeva i fianchi di lei, metà donna, metà vaso, premendo con tutto il suo peso. Lei gridava di dolore, come un cane morente. Crollarono come schiantati da un fulmine.

Bowman si svegliò non appena la luce colpì le delicate tende di pizzo. Il bagno lo rigenerò. Enid dormiva ancora, sembrava non respirare nemmeno. La guardò con stupore. Mentre lui era in piedi accanto al letto lei allungò una mano da sotto le lenzuola e lo toccò, poi fece cadere l'asciugamano e gliela strinse delicatamente intorno al cazzo. Rimase sdraiata con lo sguardo fisso senza dire una parola. Il cazzo aveva iniziato a gonfiarsi. Una piccola goccia trasparente le cadde sulla pelle, lei sollevò il braccio e la leccò.

«Ho sposato l'uomo sbagliato» disse.

Si girò a faccia in giù e lui si inginocchiò fra le sue gambe e rimase in quella posizione per un tempo che gli sembrò lunghissimo, poi le spostò leggermente, senza fretta, come se stesse sistemando un treppiedi. Alla luce del primo mattino il corpo di lei era perfetto, la schiena bellissima, la rotondità dei fianchi. Lo sentì entrare lentamente, lo cercò con la mano, era lì, diventava una parte di lei. Iniziarono a far l'amore con un ritmo lento, profondo, quasi continuo, poi via via più intenso. Fuori, la strada era avvolta nel silenzio, gli ospiti delle camere vicine dormivano ancora. Lei cominciò a gridare. Lui si sforzò di rallentare, di trattenersi, voleva che durasse a lungo, ma lei tremava come   un albero sul punto di cadere, le sue grida scivolavano sotto la porta.

Si svegliarono dopo le nove, con il sole che illuminava un'intera parete. Lei uscì dal bagno e si rimise a letto.

«Enid.» «Sì?» «Posso chiederti una cosa pratica? » «In che senso?» «Non ho usato niente» disse lui.

«Be', se dovesse succedere qualcosa... se dovesse succedere qualcosa, direi che è suo. » «Quando un uomo ha l'amante, continua a fare l'amore con la moglie? » «Credo di sì, ma non è il mio caso. È un anno che non mi tocca. Più di un anno. Pensavo che l'avessi capito. » «Peccato. Speravo dipendesse da me.» «Dipende da te. » Fuori, il sole era implacabile. Nella grande cattedrale l'elaborato sarcofago con i resti di Colombo era sostenuto dalle statue dei quattro re di Aragona, Castiglia, Leon e Navarra, e nel Tesoro si trovavano ancora oro e argento provenienti dal Nuovo Mondo.

Siviglia era la città di Don Giovanni, l'Andalusia, la città dell'amore. Il suo poeta era Garcia Lorca, capelli scuri, sopracciglia scure e il viso appuntito come quello di una donna. Omosessuale, fu considerato l'araldo del risveglio spagnolo degli anni Venti e Trenta, aveva scritto libri e opere teatrali dalla musicalità pura e fatale e poesie piene di colori, emozioni violente e amori disperati. Sebbene fosse nato in una famiglia benestante, rivolgeva le sue simpatie e il suo amore ai poveri, agli uomini e alle donne che passavano la vita a lavorare nei campi infuocati dal sole. Disprezzava la Chiesa, che non faceva niente per loro, e fu drammaturgo e amico dei gitani, che amavano la musica sopra ogni cosa ed erano invitati a suonare il pianoforte nella stanza al primo piano della sua casa appena fuori città. Il suo   colore preferito era il verde, ma anche l'argento, il colore dell'acqua di notte e delle immense pianure che l'acqua irrigava e rendeva fertili.

La notorietà di un poeta, quando arriva, non ha paragoni, e a Lorca accadde di diventare molto famoso. Fu ucciso nel 1936, all'inizio della Guerra civile, arrestato e giustiziato dalle milizie franchiste e sepolto in una tomba senza nome che era stato costretto a scavare lui stesso. Il suo reato consisteva in ciò che aveva scritto e difeso strenuamente. L'eliminazione degli uomini eccelsi non fa che confermarne l'eccezionalità. E di fronte alla morte, come diceva Lorca, non esiste consolazione, anche per questo la vita è tanto bella.

Una delle sue poesie più celebri è un'elegia funebre dedicata a un amico, un torero che si era ritirato dalle corride ma era poi tornato nell'arena per tributare un omaggio al cognato, il grande Joselito. Con indosso un abito ricamato molto aderente, forse un po' troppo aderente, si stava esibendo nell'arena di una città di provincia, quando dalla folla si levò un grido. Il corno curvo, affilato, del toro, aveva lacerato come una lama gli stretti calzoni e la carne bianca.

Due giorni dopo essere stato incornato, tromba d'un iris nei suoi verdi inguini, Ignacio Sànchez Mejias morì nell'ospedale di Madrid dove aveva insistito per essere portato. La poesia comincia con suoni profondi e liturgici come rintocchi di campane. A las cinco de la tarde, alle cinque della sera. Il caldo è ancora opprimente. L'uomo spacciato, con ancora indosso l'abito da torero a brandelli, giace nella piccola infermeria.

Alle cinque della sera.

Il verso si ripete e rotola lungo tutta la poesia. Un ragazzo porta un lenzuolo bianco, alle cinque della sera. Il suo letto è una bara con le ruote, alle cinque della sera. Da lontano già viene la cancrena, alle cinque della sera. Le sue ferite ardono come soli, alle cinque della sera, e la folla rompe le finestre.

Hai vissuto, diceva Lorca, tramite la tua morte e il ricordo   che lasci. La morte di Mejias, avvenuta nel 1934, fu per lui un apprendistato, una prefigurazione della morte che ancora non conosceva. Già si addensava la feroce tempesta che stava per sconvolgere il paese. Il bambino con il lenzuolo bianco era in arrivo, la sporta di calce era pronta e la sabbia levigata dell'arena era già in ombra.

Lesse per la prima volta il Compianto per Ignudo Sdnchez Mejias a voce alta in una stanza affollata di gitani durante la settimana santa e quella notte dormì nell'immenso letto bianco di un ballerino gitano, sul mio viso il tuo respiro, solitaria rosa.

Quel giorno mangiarono in un ristorante che si trovava sopra un bar, con i camerieri che portavano i vassoi salendo per le scale strette. Era ventilato, non aveva pareti, soltanto un soffitto di tela. Li fecero sedere a un tavolo laterale, ma essere insieme a lei significava essere notati da tutti. Il fiume scorreva lentamente sotto di loro.

« Che cosa sono le almejasì» «Dove le hai viste? » «Qui» disse lui. «Almejas a la casera.» «Non ne ho idea.» Ordinarono pesciolini fritti con le patate. Faceva caldo, nonostante la tela riparasse dal sole. Tutti i tavoli erano occupati, in uno c'era un gruppo di tedeschi che ridevano.

«Questo è il Guadalquivir » disse Bowman puntando il dito verso il basso.

«Il fiume. » «Mi piacciono i nomi. Tu hai un nome molto bello. » «La famigerata signora Armour. » «Anche metterti le mani addosso mi piace. » «Sì, lo so.» «Davvero?» «Mmm. »  

Andarono a Granada. Il paesaggio bruciato dal sole scorreva al di là del finestrino del treno, dietro il riflesso di Bowman. C'erano colline, valli, migliaia e migliaia di ulivi. Enid dormiva. Forse per un sogno o per qualche altra ragione sconosciuta, russò lievemente, per alcuni secondi, come una bambina. Non era mai sembrata tanto serena.

In lontananza, su una collinetta vicino a un villaggio, c'era una casa bianca circondata dagli alberi, una casa dove avrebbero potuto vivere insieme, la camera da letto sopra il giardino silenzioso, fresco e verdeggiante, le porte che conducevano al balcone affacciato sul giardino, le mattine d'amore con il sole che attraversava il pavimento. Lei avrebbe fatto il bagno lasciando aperta la porta e alla sera avrebbero preso la macchina per andare verso una città - non sapeva dire quale, una città poco lontana, erano tutte magiche - e più tardi sarebbero tornati a casa nella notte profonda, stellata.

Allo stesso tempo non si sentiva sicuro di lei, era impossibile esserlo, specialmente quando taceva o si ritraeva in se stessa. In quei momenti lui aveva la sensazione di essere l'oggetto dei suoi pensieri o, peggio, di esserne escluso. A volte lei gli lanciava una breve occhiata, come di rimprovero. Lui era abile nel dissimulare la paura, eppure a volte l'autocontrollo di Enid lo metteva a disagio. Quando era capitato che lei lo lasciasse perché doveva fare alcune commissioni, in farmacia o al consolato - non si preoccupò mai di spiegargli la ragione della visita al consolato -, lui era stato colto dall'improvvisa certezza che in realtà avesse deciso di partire; aveva immaginato di tornare in albergo e di non trovare le sue valigie, con l'impiegato della reception che non ne sapeva niente. Si era visto correre in strada a cercarla, a cercare i suoi capelli biondi tra la folla.

La verità è che con alcune donne non si può mai essere sicuri. Avevano viaggiato insieme per dieci giorni e pensava di conoscerla, in camera da letto la conosceva, almeno per la maggior parte del tempo, e anche quando erano seduti nel bar   color nocciola dell'albergo, ma non è possibile conoscere un altro in ogni momento, i suoi pensieri, riguardo ai quali è inutile chiedere. Lei non sembrava far molto caso alla presenza del bel barista, era sempre troppo concentrata su ciò a cui stava pensando. Il barista, abituato all'ammirazione dei clienti, aspettava sconsolato a qualche passo di distanza. Detestava il pensiero di tornare a Londra, gli disse Enid, dopo.

«Anch'io» disse Bowman.

Lei rimase in silenzio.

«Per tuo marito » proseguì lui.

«Be', in parte per mio marito. Cioè, più che in parte. Non voglio lasciare questo posto. Perché non ti trasferisci a Londra? » Lui non se l'aspettava.

«Trasferirmi a Londra» disse. «Hai intenzione di divorziare?» «Mi piacerebbe. Al momento non posso. » «Perché?» «Be', per due o tre ragioni. I soldi, tanto per cominciare. Non mi darebbe un centesimo. » «Non potresti rivolgerti a un giudice? » «Il solo pensiero mi sfinisce. La causa. I tribunali. » «In compenso saresti libera. » «Libera e sola. » «Non saresti sola. » «È una promessa?» domandò lei.

Non tornarono a Londra insieme. Lui prese il volo per New York da Madrid. Casualmente, nel posto accanto al suo non c'era nessuno, così rimase seduto a guardare fuori dall'oblò per un po' e poi si appoggiò allo schienale, rilassato e profondamente felice. La Spagna scivolava via sotto di loro. Era stata lei a portarlo lì. Se ne sarebbe ricordato per molto tempo. L'alta e ampia scalinata del grande albergo, l'Alfonso XIII, sulla quale banchieri e generali nazionalisti erano saliti come su un altare. I sentieri sterrati del Retiro, le file di statue bianche.

 

Scrisse accuratamente i nomi degli alberghi, Reina Victoria, Dauro, Del Cardenal, Simon, sul risguardo del libro delle poesie di Lorca. Avevano dormito in un letto con quattro cuscini, persi nel loro candore. In spagnolo la parola nudo si traduceva desnudo. Era la stessa parola in tutte le lingue, aveva osservato lei.

Ordinò da bere. Gli annunci erano finiti e si sentiva soltanto il rumore basso, continuo dei motori. Si vedeva seduto lì come se si osservasse dall'esterno, in qualche modo, e contemporaneamente rifletteva su se stesso. Riusciva a vedersi per intero, dalla mano che stringeva il bicchiere giù giù fino ai piedi. Era un uomo molto fortunato. Intravide la gamba di un altro passeggero, che viaggiava in prima classe, avvolta nella stoffa grigia dei pantaloni. Si sentì superiore a lui, chiunque egli fosse, e a tutti gli altri. Profumi di sapone, gli aveva detto lei. Aveva fatto il bagno. Hai lavato via tutto l'odore maschile. Tornerà, le aveva risposto. La stoffa dei pantaloni del passeggero gli fece venire in mente New York, l'ufficio. Pensò a Gretchen, alle imperfezioni della sua pelle e al modo in cui in un certo senso la rendevano più desiderabile. Pensò alla ragazza che aveva incontrato in Virginia quel Natale, Dare, che sprizzava sessualità da tutti i pori, sarebbe stata tua il minuto seguente se tu fossi stato... un vero uomo. Era accaduto, adesso lo era diventato, in Spagna, con una donna che gli aveva fatto provare una sensazione di supremazia assoluta. Aveva superato alcune barriere. I suoi capelli biondi, il suo stile essenziale. Si considerava un uomo diverso, il tipo di uomo che aveva desiderato diventare, un uomo completo, avvezzo al meraviglioso. Enid fumava, lo faceva solo ogni tanto, ed espirava lentamente il ricco profumo di tabacco. L'illuminazione del Ritz la rendeva bellissima. Il rumore dei suoi tacchi alti. Non esisteva nessun'altra, non ne sarebbe mai esistita un'altra.

In un giorno d'autunno tornò in ufficio dopo pranzo. Faceva sempre più freddo, il vento rinfrescava la faccia delle persone che si affollavano per la strada. Il cielo era incolore e le finestre   degli edifici, come in genere accadeva solo nelle prime ore del mattino, erano illuminate. L'ufficio gli sembrò insolitamente silenzioso, erano usciti tutti? Era un silenzio inquietante. Non erano usciti, stavano ascoltando le notizie. Era accaduto un fatto spaventoso. A Dallas avevano sparato al presidente.