19. Pioggia

 

 

Le strade si separano. Nella casa affacciata sul fiume alla quale era stata aggiunta una stanza, una cameretta con una finestra in fondo e di una forma tale che quasi invitava a sedersi e aprire un libro o contemplare il giardino, il giardino piccolo e incolto eppure intimo, con quella sua scultura naturale, quel ceppo forte, dritto e alto più di mezzo metro che un tempo faceva parte di un albero tagliato e poi segato in due pezzi uguali e che, per coincidenza, aveva la forma di un busto femminile, dal seno fino all'inguine, e si ergeva come un altare primitivo, arte neoafricana, arrotondato, scuro e insensibile al freddo - in quella casa dove Eddins, sua moglie e suo figlio avevano vissuto felici e liberi da ogni pericolo, dove i vicini erano brava gente e le vie erano silenziose, e dove i poliziotti, dopo che i duri scontri con il sindaco erano finalmente finiti, erano amichevoli e ti conoscevano per nome, in quella casa, tra gli alberi e la tranquillità paesana, come un oggetto precipitato dal cielo, come se l'enorme motore di un aereo di linea che volava ad alta quota si fosse staccato cadendo giù senza essere visto e senza far rumore, la morte era apparsa all'improvviso portando distruzione e conficcandosi nella vita come un palo affilato.

Le strade si dividono. Ora la vita di Eddins era tagliata in due. In due pezzi disuguali. Tutto ciò che accadeva o che sarebbe accaduto in futuro era in un certo senso più leggero, privo di significato. La vita era vuota, come un mattino postumo. Non riusciva ad accettare l'incidente. Del funerale ricordava soltanto che era stato insopportabile. Li avevano sepolti nel   cimitero di Upper Grandview, sopra la strada, due tombe una vicina all'altra. Erano venuti il padre e la madre di Dena. Neil non era quasi riuscito a salutarli. Non poteva liberarsi dal senso di colpa. Era un uomo del Sud, era stato educato a rispettare e proteggere le donne, a difenderle. Era un dovere. Se fosse stato sul treno, avrebbe fatto in modo che non accadesse. Li aveva traditi, si sentiva come quel professore di filosofia di Valley Cottage dopo che i ladri avevano fatto irruzione in casa sua e avevano picchiato lui e la sua anziana moglie. Non era più stato lo stesso. Non tanto per le ferite o per la paura continua, quanto per il senso di vergogna che provava. Non era stato capace di proteggere la moglie.

Sotto molti punti di vista Eddins non sembrava diverso dal solito, era lo stesso di sempre, solo un po' più disinvolto. Portava un fiore all'occhiello, chiacchierava con la gente, scherzava, ma dentro di lui c'erano cose che non si vedevano. Li aveva traditi. Aveva perso l'onore.

Continuò ad abitare lì per un po', ma tornare a casa la sera non gli piaceva, gli sembrava deserta e aveva la sensazione che il mondo intero sapesse che ci viveva da solo. Affittò un appartamentino in città, vicino a Gramercy Park, dove la sera guardava il telegiornale e beveva un bicchiere, a volte più di uno, e poteva decidere di non cucinarsi niente per cena, nemmeno qualcosa di semplice. Non era depresso, era afflitto da un senso di ingiustizia. A volte gli veniva quasi da piangere per la solitudine e per ciò che aveva perduto. Ora li riconosceva per quello che erano ed erano stati: i grandi giorni dell'amore. Lei aveva chiesto e preteso così poco. Aveva offerto tutto il suo amore senza riserve, il suo magnifico sorriso, i suoi denti, la sua spensierata puerilità. Ti amo tantissimo: chi altro poteva pronunciare una frase del genere dandone prova con la straripante verità di innumerevoli gesti d'amore? Lui non aveva fatto tutto quello che avrebbe dovuto, avrebbe dovuto darle di più. Adesso lo farei, ti darei così tanto!, pensava, e lo gridava. Oh, Gesù, diceva, alzandosi   per riempire ancora il bicchiere. Non diventare un alcolizzato, pensava. Non diventare una persona che suscita compassione.

A Bowman era toccato un altro genere di vita. Senza moglie né compagna, sembrava essersi adattato a una vita da single, con le sue abitudini regolari, comoda; quando compariva con l'abito blu scuro al ristorante e alle conferenze si sentiva a proprio agio, di casa, nel mondo visibile.

In realtà non era così.

Christine non abitava con lui in modo stabile, lo avrebbe fatto solo quando la sua vita avesse preso una direzione più equilibrata, sosteneva. Passava la notte da lui due o tre volte la settimana. Si incontravano a fine giornata e a volte lei portava un mazzo di fiori o l'edizione europea di una rivista di moda, piena di richiami alla vita affascinante che si conduceva laggiù.

Benché non fossero sposati, godevano dei piaceri dell'amore senza sensi di colpa. Era impossibile stancarsi di lei. Cechov era persuaso che fare l'amore una volta all'anno avesse un potere sconvolgente, la forza di una grande esperienza religiosa, e che farlo più spesso significasse ridurlo a mero nutrimento, ma se il prezzo era quello, Bowman era più che disposto a pagarlo.

Al mattino gli indumenti di Christine erano sparsi per la camera e le scarpe, che gli piacevano particolarmente, vicine a una sedia. Lei preparava il caffè nella piccola cucina. Avrebbero vissuto bene insieme, lo capiva da come parlava e si comportava, dalla loro intimità. Gli era già capitato di innamorarsi profondamente, ma erano state sempre donne molto diverse da lui. Christine invece era proprio come lui, aveva la sensazione di conoscerla da sempre. Se lei fosse riuscita a liberarsi del marito, si sarebbero sposati.

Era questo il tenore dei suoi pensieri mentre attraversava Central Park, verde e immenso, circondato da alti edifici che brillavano nella luce del mattino. Nonostante il suo aspetto e le sue pose, Christine cercava stabilità. Lo aveva ammesso lei stessa, ed   era qualcosa che lui era in grado di offrirle, oltre a tutto il resto. Notò com'erano giovani alcune delle persone che incrociava. Lui era a metà della vita e stava appena cominciando a vivere.

Quel fine settimana pioveva. Non uscirono. Rimasero sdraiati a letto nel silenzio del pomeriggio, la pioggia sui vetri come nebbia. Lei guardava qualcosa alla televisione, un vecchio film italiano, e lui, per coincidenza, leggeva Verga. Una donna con il vestito scollato era seduta a darsi lo smalto sulle unghie mentre due uomini parlavano fra loro. Era un film in bianco e nero, camicie bianche, facce italiane, capelli scuri. I sottotitoli erano un po' sbiaditi, Christine faticava a seguirli. Mentre Bowman leggeva, lei fece scivolare quasi distrattamente la mano sotto il suo accappatoio e gliela strinse intorno al cazzo, ma non appena si gonfiò iniziò ad accarezzarlo con delicatezza con il pollice. L'audio era stato azzerato. Lui si accorse di deglutire. Osservò Christine, la sua guancia morbida, con la coda dell'occhio. Guardava il film con un'espressione di piacere. Il cazzo era duro, levigato come una cicatrice. Una donna con la sottoveste nera lottava con un uomo sulla riva di un lago. All'improvviso riuscì a liberarsi e si mise a correre, poi però per qualche ragione si arrese, aspettando il destino. Nel primo piano l'espressione era rassegnata ma carica di disprezzo.

Lui aveva smesso di leggere perché non capiva più il significato delle parole. Il film proseguiva. La donna stava per essere uccisa. Lui non avrebbe mai dimenticato quel volto solcato di lacrime e le braccia nude che si sollevavano per abbracciare l'assassino. Provava un piacere straziante. Il film sembrava non finire mai. Di tanto in tanto, Christine gli stringeva delicatamente la mano intorno al cazzo come per richiamare la sua attenzione. Finalmente apparvero i titoli di coda.

Era libero di fare qualsiasi cosa. Non era mai stato così, non con Vivian, certamente non con Vivian, e nemmeno con Enid. Christine era nuda dalla vita in giù, lui la fece voltare sulla pancia, riprese il suo libro e ricominciò a leggere tenendo una mano appoggiata su una natica di lei in segno di possesso. Non   erano alla pari, adesso. La sua vita, quindi, era stata una preparazione. Dopo un po' cominciarono. La città dormiva nel silenzio. Lui strofinò lentamente il cazzo contro la sua fica sollevata come per bagnarne il fusto. Poi glielo infilò dentro. Nell'accoppiamento che seguì la sua mente si svuotò completamente. Non videro né udirono la pioggia.

Dopo rimasero come tramortiti, supini, incapaci di muoversi.

« Non esiste niente di simile al mondo. Non riesco a immaginare niente sulla terra di più... estremo» disse lui.

«L'eroina» sussurrò Christine.

« Hai fatto uso di eroina? » «È quattro volte più piacevole del sesso. È un piacere che non può essere paragonato a niente. Credimi. » « Dunque l'hai provata. » «No, malo so.» «Non voglio essere considerato soltanto un brav'uomo. » « Non sei solo un brav'uomo. Sei un uomo vero. Lo sai » disse lei. «In taxi, quella sera, l'avevo già capito. » Lei gli offriva tutto ciò che lui aveva sempre voluto essere. Gli era stata mandata come una benedizione, come una prova dell'esistenza di Dio. In verità, non era mai stato veramente appagato. Non aveva mai ricevuto la sola moneta che avesse valore. Lei glielo aveva preso in mano con disinvoltura, e lui aveva capito a che cosa pensava. Sarebbero potuti rimanere lì sdraiati a parlare, oppure in silenzio, per giorni. Era stato un pomeriggio indimenticabile.

«Perché siamo sempre così stanchi?» chiese lui. «Non dovrebbe essere uno sforzo così pesante. » « Sì, può esserlo » rispose lei.

Eddins si riprendeva lentamente. Aveva infine accettato la disgrazia, ma continuava a restarne paralizzato. Era meno attaccato alla vita, più passivo. A differenza di prima, riusciva a stare   seduto in silenzio ad ascoltare. Prima che il sipario si alzasse, a teatro, ascoltò due signore sedute vicino a lui parlare con entusiasmo di un film che avevano visto, di quello che capitava nel film e di come tutto fosse molto verosimile. Dovevano essere sulla quarantina e, probabilmente, se le avesse conosciute non sarebbero state diverse dalle donne che trovava più interessanti, ma non provava alcun desiderio di conoscerle. Nemmeno la donna seduta accanto al marito due file davanti alla sua. La bellezza dei suoi folti capelli e il collo di pelliccia del suo cappotto lo avevano colpito. Teneva la testa quasi appoggiata contro quella dell'uomo e di tanto in tanto si girava appena per dirgli qualcosa. Aveva gli zigomi da slava e il naso lungo e diritto, un naso romano, un segno di autorevolezza. Era in grado, pensò, di osservare una donna e dedurne il carattere dai tratti somatici. Della ragazza di Delovet, che era un'attrice o un'ex attrice, e comunque un po' bassina per esserlo o esserlo stata, Eddins capì a prima vista che beveva e che se non si faceva l'amore con lei probabilmente diventava cattiva. Delovet faceva fatica a staccarsene. Lo annoiava, lo irritava, ma allo stesso tempo gli piaceva farsi vedere in giro con lei. Il suo nome era Diane Ostrow, ma la chiamavano Dee Dee. Eddins non conosceva nessuno che l'avesse vista recitare. Aveva i capelli neri e una risata vorace. Ed era scaltra quanto bastava per mantenersi a galla. Si lasciava convincere con facilità a fare i nomi degli attori famosi con cui era andata a letto. Le piaceva quando si mettevano nudi a testa in giù per lei.

«Lo hanno fatto in molti? » «Due» rispose lei con disinvoltura. «Dimmi, che genere di cose ti piace fare? » domandò a Eddins.

« La lotta » rispose lui.

«Davvero?» «Ero nella squadra di wrestling dell'università» rispose. «Ero temutissimo. » «In quale università? » «In tutte.»  

Un giorno, mentre scendeva in taxi lungo Park Avenue, all'angolo vide una donna che portava scarpe costose e il cappotto stretto in vita da una cintura di stoffa, una donna che ostentava in ogni dettaglio la propria classe di appartenenza. Abitava sicuramente in quella zona e forse aveva pensieri e problemi del tutto comuni, tuttavia l'immagine di lei gli rimase impressa per l'atteggiamento o, a modo suo, la nobiltà.

Cominciò a prestare più attenzione a come si vestiva e al proprio aspetto. Comprò alcune camicie di buona qualità e una sciarpa di seta azzurra. Quando era bel tempo andava a lavorare a piedi.

Più o meno in quel periodo, alla New York Public Library incontrò una signora divorziata che si chiamava Irene Keating. La conferenza era finita e la gente beveva vino in piedi nel corridoio. Lei era sola, non sembrava del tutto a suo agio ma indossava un bel vestito. Abitava nel New Jersey, a pochi minuti di distanza, disse.

«Sono più di pochi minuti» disse lui.

«Tu abiti a Manhattan? » «Ho una casa a Piermont» rispose.

«Piermont?» «È ai piedi delle Ngong Hills.» «Di che cosa?» « Non è un posto molto conosciuto » osservò lui.

Non era una letterata ma la sua faccia gli piaceva, rivelava un'indole amabile.

«La conferenza mi è parsa... - a te come è sembrata? - un po' noiosa» disse lui.

«Sono contenta di sentirtelo dire. Io mi stavo addormentando. » «Non è una brutta sensazione. A volte, intendo. Vieni spesso?» «Be', sì e no. Di solito vengo con la speranza di conoscere qualcuno di interessante. » « Avresti più fortuna nei bar. »  

«Perché non sei in un bar, allora?» Qualche sera dopo Eddins la invitò a cena e finì per parlarle di Delovet, dello yacht senza motore a Westport e dell'ex fidanzata romena di cui era solito dire: «Avrei potuto farla deportare», e poi di Robert Boyd, l'ex predicatore che non aveva mai incontrato ma gli piaceva molto. Dopo che gli era morto il padre, Boyd viveva solo in campagna, nell'indigenza più totale come sempre.

«Ti piacerebbe. Le sue lettere sono così dignitose.» Lei lo ascoltava rapita. Gli chiese se gli sarebbe piaciuto andare a cena da lei.

« Ti cucinerò qualcosa di buono » disse.

Lui accettò per il venerdì successivo. Quella sera, tra la gente che affollava il treno, si scoprì a rimpiangere di aver accettato l'invito. Tutti tornavano a casa dai loro cari. Vivevano una vita che gli era familiare.

Lei andò a prenderlo alla stazione in automobile e lo portò a casa sua, a cinque o sei isolati di distanza. Era una casa a schiera con i gradini di mattoni e la ringhiera in ferro. L'interno, comunque, era meno sgradevole. Si offrì di appendere il suo cappotto, ma lui disse no, lascialo pure sulla sedia. Gli versò un bicchiere di champagne e lo fece entrare in cucina, dove lei indossò un grembiule sopra il vestito e continuò a cucinare mentre parlavano. Era emozionata e sembrava più giovane.

«È buono lo champagne?» chiese. «Mi sono affidata al prezzo.» « Molto buono. » « Sono contenta che tu sia venuto » disse.

«Abiti qui da molto tempo?» « Assaggia » disse lei porgendogli un cucchiaio con qualcosa che assomigliava a un consommé.

Era delizioso.

«L'ho fatto io. Da zero. » La tavola era apparecchiata per due. Lei accese le candele e dopo che si furono seduti sembrò rilassarsi un po'. La luce nella   stanza aveva una sfumatura delicata, forse era colorata dallo champagne. Lei riempì di nuovo i bicchieri. All'improvviso si alzò: aveva dimenticato di togliersi il grembiule e se lo strappò via, scompigliandosi i capelli. Si sedette e si alzò di nuovo, allungandosi deliberatamente sulla tavola per baciarlo. Non si erano mai baciati prima. Avevano il consommé davanti; lei alzò leggermente il bicchiere.

« Alla notte delle notti » disse.

Mangiarono piccioni arrosto, erano succulenti e dorati sul loro letto di riso al burro. Eddins non ricordava come si dovesse procedere. Il letto era ampio, e lei sembrava nervosa come un gatto. Si allontanava e contemporaneamente lo attirava verso di sé, non aveva ancora deciso che cosa voleva, o forse continuava a cambiare idea. Scalciava e si ritraeva, lui cercava di afferrarla. Dopo lei si scusò, gli disse che non faceva l'amore da tre anni, da dopo il divorzio, e che le era piaciuto. Gli baciò le mani come se lui fosse un prete.

Al mattino non era truccata. Per qualche ragione - la purezza dei suoi lineamenti al naturale - sembrava svedese. Gli parlò del suo matrimonio. L'ex marito era un commerciante, un direttore delle vendite. Alla luce del giorno la casa era tetra. Nemmeno uno scaffale con dei libri. La magica sala da pranzo, notò lui, era rivestita da una tappezzeria a righe. C'era già quando si erano trasferiti lì, disse lei.