Capitolo ventidue
Man mano che Joseph si allontanava dalla costa, la pioggia si attenuò. Sentiva ancora il tuono rombare in lontananza, ma dalle condizioni delle strade si rese conto che il grosso della tempesta aveva interessato solo le paludi.
Quando arrivò da Elizabeth poteva ormai vedere il limpido cielo scuro e le stelle splendenti.
Al piano inferiore della grande casa le luci erano ancora accese, e fu sollevato che le due donne non fossero andate a letto.
Janna gli aprì e lo invitò a entrare con un debole sorriso. «Avevamo la sensazione che avrebbe potuto passare a trovarci, questa sera. Riguarda gli esperimenti clinici, vero? Pensa che ci sia qualche collegamento con la morte di Martin?». Di colpo si riprese. «Mi scusi. Si guardi, è fradicio! Mi dia la giacca».
Joseph si tolse il cappotto bagnato e glielo porse. «Avrei dovuto chiamare prima, ma il temporale sulla costa ha fatto saltare le linee del telefono. Spero di non disturbare».
«Per nulla. Scenda in veranda. Elizabeth è lì. Io vado a preparare qualcosa di caldo per tutti».
In piedi davanti alla grande finestra panoramica, Elizabeth Durham stava fissando la notte. Sentendolo entrare si voltò, e a lui sembrò che avesse appena smesso di piangere.
«La disturbo, signora Durham?», chiese in tono sommesso.
«Ah, sergente Easter. No, certo che no. Prego, si accomodi, stavo solo facendo qualche pensiero stupido ed egoista, piangendomi addosso». Lo guardò mesta. «E mi domandavo quanto conoscessi realmente il mio amato fratello».
«Credo che eventi del genere ci rendano tutti molto consapevoli di quanto noi umani siamo portati a nascondere cosa ci accade nel profondo. Anche a chi ci è più vicino».
«Devo sapere che cosa è successo, sergente. Altrimenti continuerà a divorarmi e mi farà impazzire».
Joseph annuì. Pensò a Billy Sweet, e comprese benissimo come si sentiva. «Troveremo le risposte che cerca, lo prometto». Prese le due foto dalla tasca, si alzò e andò verso di lei. «So che è passato molto tempo, ma ho davvero bisogno che lei mi dica tutto quello che ricorda su questi esperimenti e sulle persone presenti nella foto».
Elizabeth fissò una dopo l’altra ciascuna delle immagini. «Non penso ad altro da quando ne abbiamo parlato». Sbatté piano le palpebre. «Soltanto, non sono sicura di cosa possa dirle».
«Sapeva chi fosse a guidare la sezione di ricerca sul raffreddore?»
«A quel tempo no. Credevamo fosse solo un semplice reparto di ricerca dell’ospedale stesso, ma poi è corsa voce che si trattasse di un’organizzazione governativa».
Joseph sentì un tuffo al cuore. Non era il genere di cosa che voleva sentire.
«Più avanti ancora, però, Martin mi ha detto che era finanziata privatamente da un’organizzazione farmaceutica».
Il suo umore si risollevò. «Ha fatto un nome?».
Elizabeth scosse la testa. «Ha solo detto che era enorme, aveva sede all’estero e includeva molte altre aziende più piccole. Non penso che ne sapesse di più».
«Lei e i suoi amici presenti in quelle foto partecipavate agli stessi studi?»
«All’inizio sì. C’eravamo io, Martin, Amelia, Barry Smith e John Goring. Facevamo parte di un gruppo più grande che era diviso in due. La prassi era che ci somministrassero via endonasale gocce di virus del raffreddore, poi metà gruppo riceveva un placebo e l’altra metà un farmaco».
«Dopo stavate male?»
«Non direi. Alcuni sviluppavano qualche sintomo del raffreddore. Tosse, sternuti, febbre. Ricordo una ragazza che era stata piuttosto male, ma nulla di grave».
Joseph corrugò la fronte. «E questi Barry Smith e John Goring? Li sente ancora?»
«Barry è morto giovane. Ucciso in un incidente stradale poco dopo aver lasciato l’università, e ho perso i contatti con John. È andato a lavorare all’estero anni fa».
Janna arrivò con un vassoio di bevande calde che posò su un tavolino basso. Mentre le distribuiva, si fermò e prese la foto dalla mano della compagna. «Stavo pensando, Liz, se voi cinque eravate tutti qui a sorridere felici, chi ha scattato la foto?».
Fu Elizabeth ad accigliarsi, a quel punto.
«Non ricordo».
«E la seconda è stata scattata in un diverso periodo dell’anno», aggiunse Joseph, «ma siete sempre voi cinque. Possibile che la stessa persona abbia scattato anche quella?».
Elizabeth si massaggiò le tempie, come cercando di richiamare alla mente un vecchio ricordo. «Mi sembra di vederlo, vagamente. Un amico di Martin. Aveva lunghi capelli ondulati e in disordine, e vestiti sciupati. Ma come diavolo si chiamava?»
«Era nel vostro gruppo?»
«No. Era uno dei pochi ragazzi che facevano gli studi sul sonno. Stava con noi perché Martin gli dava un passaggio in ospedale. Davey! Ecco! Davey Kowalski! Signore, erano anni che non pensavo a lui».
Joseph controllò l’ortografia del nome e lo scrisse nel taccuino. La mattina seguente avrebbe fatto controllare sia lui che Goring. Fece un lungo respiro. «Odio doverlo chiedere, ma ha mai pensato che potesse esserci qualche collegamento tra gli esperimenti e la malattia di Martin?»
«No, mai». Lei scosse la testa con enfasi. «Mi ha assicurato che doveva la vita alla squadra di dottori che si occupava degli esperimenti. Sarebbe morto se non gli avessero diagnosticato la malattia e agito in maniera così tempestiva per procurargli la cura giusta. So che sembra un disastro medico. Si sente spesso parlare di casi terribili in cui gli esperimenti finiscono malissimo, ma sono certa che qui non sia andata così. Mio fratello non era un bravo attore, e non tollerava che si dicesse una sola parola contro la squadra di ricercatori. Se qualcosa fosse andato storto l’avrei saputo, sergente Easter, lo penso davvero».
«Ma suo fratello era cambiato, no? Ha detto che aveva perso la sua scintilla».
«Forse ci ho ricamato troppo. Il cancro ti cambia, e Martin era un giovane uomo pieno di vita. Un giovane uomo costretto a trascorrere il resto dei suoi giorni sotto un severo regime farmacologico e uno stile di vita molto più rigido di quanto doveva aver immaginato. Chiunque cambierebbe, non trova?»
«Certo, ha ragione», disse con delicatezza Joseph, ma dentro di sé sentiva che quelle convinzioni erano ben lontane dall’essere corrette.
Il gruppetto si zittì, poi Janna si alzò di colpo. «Liz? Hai detto Kowalski?».
L’altra donna annuì e guardò la compagna recuperare una valigetta da dietro una delle sedie per poi spargerne il contenuto sul pavimento di marmo.
«È qui da qualche parte, dannazione». Janna frugò impaziente tra montagne di documenti.
«Che diavolo stai cercando?», chiese Elizabeth.
«Questo!». Lei saltò in piedi trionfante. «Dev’essere lo stesso uomo!». Sventolò verso Joseph un foglio scritto a macchina. «Ascolti, è la lettera di dimissioni di una mia dipendente. Linda Kowalski». Diede una rapida scorsa al foglio e poi lesse ad alta voce la parte rilevante. «“Mi rincresce molto”, eccetera eccetera, “così felice del mio lavoro”, bla bla bla, ma sì, ecco qui! “Ma a causa della malattia di mio fratello David, ho deciso di lasciare il lavoro per occuparmi di lui. Prego Dio che si riprenda e possa tornare a casa”». Gli porse la lettera e disse: «Quanti David Kowalski conosce?»
«Potrebbe essere lo stesso», disse lui. «L’età corrisponde?»
«Linda ha una cinquantina d’anni. Mi ha detto che sono veri nativi del Lincolnshire, nati e cresciuti qui nelle Fens. Il cognome viene dal nonno che era un immigrato polacco».
«Be’, l’età potrebbe combaciare». Joseph guardò Elizabeth. «Questo Davey, l’amico di Martin, aveva una sorella?»
«Due, credo». Lei annuì lentamente. «E un’altra cosa, sono quasi sicura che abbia preso parte all’ultimo esperimento con Martin».
Joseph fece un lungo respiro. Quindi era quello l’uomo con cui doveva parlare, e il prima possibile. Si voltò verso Janna. «Sa perché è così malato?»
«Non ne ho idea, ma so che è in Terapia Intensiva al Greenborough General».
La sua mente cominciò a galoppare. Un suicidio fallito, forse? Doveva andare all’ospedale. «Potreste prestarmi la guida del telefono, per favore?»
«Usi il telefono in cucina, sergente», disse Janna. «Il numero dell’ospedale è sulla lavagna. Tra quello del dottore e quello del veterinario».
Joseph tornò in veranda pochi minuti dopo. «Devo andare da loro, ma potrebbe essere davvero lo stesso uomo». Finì in fretta la tazza di caffè. «Grazie a entrambe di tutto, e prometto di tenervi aggiornate su quello che scopriremo».
Fuori, in auto, controllò l’ora. Quasi mezzanotte, e senza distintivo, era inutile andare in ospedale. Non gli restava altro da fare che tornare a casa. Prese dalla tasca il telefono nuovo e sorrise nel buio: dopo aver telefonato a Bryony.
Cominciò a digitare il suo numero, poi richiuse il telefono. Era giusto? Non erano neanche ciò che si sarebbe detto una coppia. Sì, stavano per avere una storia, impossibile negarlo, ma che diritto aveva di cominciare a telefonarle a qualunque ora assurda solo perché gli andava?
Si abbandonò contro il sedile e si chiese che cosa fare. Bryony gli aveva dato ogni indicazione di voler portare avanti il loro rapporto. Probabilmente avrebbe apprezzato una telefonata, sapendo quanto quell’ultimo periodo fosse spaventoso. Joseph fece un respiro profondo e ricompose il numero. Dopo un paio di secondi, sentì partire la segreteria. Be’, questo tagliava la testa al toro.
«Ciao Bry, sono io, Joseph. Ehm, be’, è molto tardi, lo so, ma volevo solo dirti che sto bene e che ho molta voglia di sentirti. Ti chiamo domattina, prima che vai al lavoro». Fece una pausa. «Mi manchi, Bry, e non vedo l’ora di risolvere questa situazione così avremo tempo per conoscerci meglio. Stammi bene. Ci sentiamo presto. Ciao».
Chiuse il telefono e sospirò. Aveva sperato che rispondesse. In quel momento, lei era l’unica fonte di luce in tutto quel casino. L’unica cosa sana e solida a cui potersi aggrappare.
Joseph girò la chiave nell’accensione e pregò che Nikki Galena trovasse un modo per fermare Billy Sweet, prima che lui distruggesse tutte le cose belle della sua vita.