Capitolo cinque
«Mi spiace, Nikki, ma a me sembra tutto piuttosto chiaro». Il commissario Rick Bainbridge si appoggiò allo schienale della sedia e la fissò. «Doveva essere così imbottito di medicinali da non accorgersi che sulla piattaforma panoramica c’erano già altre persone. Se era fuori di testa, forse non le ha proprio viste».
«Le ha viste benissimo, signore. L’agente Collins mi ha passato le dichiarazioni che ha raccolto. Tutti sostengono che sembrava terrorizzato da qualcosa, e un ragazzino ha detto che Martin “aveva paura di loro, soprattutto della guida, quando gli ha teso la mano per aiutarlo”».
Il commissario scrollò le spalle.
«Be’, non so cosa dedurre da quel commento, sempre che gli si dia peso. Quel povero bambino doveva essere traumatizzato. E dev’essere successo così in fretta che è un miracolo che qualcuno abbia avuto il tempo di notare qualcosa».
«In realtà i testimoni sono stati insolitamente coerenti nelle loro dichiarazioni», ribatté Nikki con stizza. «E non trascurerei la testimonianza del ragazzino. I bambini possono essere molto acuti».
Rick Bainbridge le lanciò uno sguardo preoccupato. «Penso che questo caso potrebbe toccarti un po’ troppo da vicino, ispettore. Se ci sarà bisogno di un’indagine, e per il nostro budget spero che non sia così, la assegnerò a una delle altre squadre».
«Sto bene, commissario, davvero». Nikki cercò di mantenere un tono neutro, pur essendo determinata a non farsi togliere l’indagine. «E fino all’arrivo dell’esame tossicologico possiamo fare ben poco. Nell’attesa mi limiterò a controllare le solite piste. Forse c’erano problemi di soldi, o questioni personali che, in aggiunta alle cure pesanti, potrebbero avere innescato qualcosa. Il coroner vorrà tutto quello che riusciamo a trovare per l’inchiesta».
«D’accordo. Per il momento continua così, ma ricorda che le persone non sempre sono quello che sembrano. Poteva essere un bravo vicino, ma quanto lo conoscevi davvero? Non dimenticare che prima di tornare a Cloud Fen hai vissuto quasi un anno in città. Le cose cambiano. E anche la gente».
Nikki annuì. «Ha ragione, signore. E non si preoccupi, controllerò tutto come farei per qualunque altra morte sospetta, non mi lascerò ossessionare». Gli lanciò quello che sperava fosse un sorriso sincero e disse: «Forse sono solo sensibile alla questione per via delle statistiche su cui mi ha messo a lavorare».
Fu il turno del commissario di darle ragione.
«Ah, sì. Non sono una lettura facile neanche nei momenti migliori, e poi capita questo a un amico. È comprensibile. Solo, non metterti a cercare cose che non esistono».
«Certo che no, signore. Quindi, se non c’è altro…».
«Sì, sì, vai pure. Io devo comunque tornare dal maledetto revisore. Tienimi solo aggiornato, ispettore».
Fuori dall’ufficio, Nikki fece un sospiro di sollievo. Avrebbe dovuto procedere con cautela e tentare di tenere un po’ più a freno la lingua. L’istinto le diceva che nella morte di Martin Durham c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. Tanto che non riusciva neanche a pronunciare la parola “suicidio”. Pazienza, sarebbe arrivata in fondo alla questione, e il modo più semplice per farlo era tenere l’indagine sotto il suo stretto controllo.
Joseph alzò lo sguardo quando la sua superiore rientrò nel Dipartimento di Investigazione Criminale. «Com’è andata, capo?».
L’ispettore inarcò le sopracciglia. «In termini professionali, sergente, ho quasi mandato tutto a puttane». Si lasciò cadere su una sedia. «Pensa che sia troppo coinvolta. Sono riuscita giusto a convincerlo a lasciarmi il caso, ma in futuro dovrò fare molta più attenzione».
Joseph annuì. «Be’, ha appena ricevuto una chiamata di Elizabeth Durham. È distrutta, ma vuole parlarle. Ho detto che saremmo passati da lei domattina presto, va bene?»
«Certo che sì. Hai preso l’indirizzo completo?».
Lui lanciò un’occhiata al taccuino. «Sì, signora. Monk’s Lodge. Ho le indicazioni».
«Bene. Ci andremo subito dopo la riunione mattutina».
«Perciò adesso che cosa faccio?», chiese Joseph.
«Io ho delle scartoffie che non possono aspettare, quindi perché non chiami il medico di Martin e fai due chiacchiere con lei? Sono quasi sicura che andasse dalla dottoressa Helen Latimer. Il suo ambulatorio copre buona parte di Cloud Fen. La trovi a Church Gate. Il numero è sulla guida».
«Subito, signora».
Helen Latimer confermò di essere il medico di Martin e, con un po’ di riluttanza, accettò di riceverlo prima di aprire l’ambulatorio alle quattro del pomeriggio, a patto che Joseph arrivasse in tempo. Lui controllò l’orologio, calcolò in fretta quanto avesse richiesto il loro precedente viaggio a Cloud Fen e stabilì che avrebbe dovuto avere almeno una ventina di minuti con la dottoressa. Un tempo sufficiente, se si fosse dato una mossa. Mentre agguantava la giacca e le chiavi dell’auto e usciva in fretta dall’ufficio, sentì un’ondata di quella che poté chiamare solo felicità. Il caso poteva essere triste, ma era così bello trovarsi di nuovo al lavoro.
Il traffico in uscita dalla città andava a rilento, anche se Joseph sapeva che una volta raggiunte le strade che portavano alle paludi la congestione sarebbe scomparsa.
In quel momento, però, era fermo. Cosa di cui la sua rigida tabella di marcia non aveva tenuto conto. Mentre tamburellava con impazienza le dita sul volante e aspettava che la sua corsia riprendesse a muoversi, notò un gruppo di uomini che correva sul marciapiede. Dai vestiti pensò che fossero dei lavoratori agricoli e stavano cercando di attraversare la strada trafficata scansando a uno a uno i veicoli in lento movimento. Molti ridevano e urlavano in una lingua est-europea. D’un tratto, uno di loro fece di corsa il giro della sua auto, poi si sporse sul cofano e sbatté con forza il palmo contro il parabrezza, prima di guardarvi attraverso.
Lui si ritrasse in automatico vedendo gli occhi di un uomo a pochi centimetri dai propri. Poi quasi balzò all’indietro nel sedile, con il cuore che martellava nel petto.
Sganciò la cintura di sicurezza, si girò di scatto e cercò di vedere dove fosse andato l’uomo, che però aveva già raggiunto il marciapiede opposto e si stava allontanando in fretta.
Joseph spalancò la portiera, scese dall’auto e fissò la figura che batteva in ritirata, ma in pochi secondi l’uomo era scomparso.
Ci fu un forte colpo di clacson alle sue spalle, e lui si lasciò ricadere al volante e mise l’auto in marcia. Avanzando, decise che doveva essersi sbagliato. Tutti avevano un doppio, a quanto pareva, e lui aveva appena avuto la sventura di incontrarne uno.
Mentre il semaforo scattava e la strada tornava ad aprirsi, decise che la sua reazione era stata del tutto esagerata. Quell’uomo stava scorrazzando con un branco di stranieri, ergo era uno straniero anche lui. E questo chiudeva la questione. Come si poteva essere così stupidi?
Mise la freccia per indicare che lasciava la strada principale e si diresse verso le paludi. Di fronte a lui, un lungo tratturo dritto si estendeva a perdita d’occhio. Premette il piede sull’acceleratore e, mentre l’auto scattava in avanti, gli sembrò di aver ripreso il controllo. Riuscì persino a ridere della propria stupidità.
Perché mai un uomo che aveva visto l’ultima volta in un altro continente dodici anni prima avrebbe dovuto sfidare le auto sulla Greenborough High Road? Era impensabile, e semplicemente idiota. Rallentò mentre si avvicinava a un ponte a schiena d’asino su un corso d’acqua, e cercò di riportare i pensieri sul defunto Martin Durham.
Il capo credeva che ci fosse qualcosa di strano nelle modalità della sua morte e, pur avendo rinvenuto quell’arsenale di farmaci a Knot Cottage, Joseph cominciava a pensare che potesse avere ragione.
Quando infine raggiunse la piccola villetta riconvertita in ambulatorio, si era ormai dimenticato quello strano incontro ed era di nuovo del tutto concentrato sul lavoro che lo aspettava.
Se al telefono la dottoressa Helen Latimer era sembrata brusca, i suoi modi si ammorbidirono molto quando lo incontrò di persona.
«Mi dispiace tantissimo, sergente. La notizia è stata un po’ uno shock. Temo di essere sembrata piuttosto scortese. Non era mia intenzione». Gli sorrise con aria di scusa. «Posso portarle un caffè, o un tè?».
Joseph accettò l’offerta, e si guardò intorno nello studio mentre Latimer andava a occuparsi delle bevande. Sembrava di essere in un soggiorno privato. Non c’erano attrezzature mediche moderne, solo una scrivania, un computer, due sedie e un lettino per le visite. Mancavano anche i poster orripilanti: quelli che mostravano muscoli rossicci tesi sugli scheletri, o bulbi oculari che sporgevano dalle orbite dei teschi. La dottoressa Latimer sembrava preferire acquerelli della costa cornica e studi di Labrador neri.
Per quel semplice motivo, Joseph decise che gli sarebbe piaciuto averla come medico.
La dottoressa gli passò una tazza di caffè e si sedette. Lui stabilì che doveva essere vicina alla quarantina, ma era una donna dalla bellezza notevole, con ondulati capelli castani lunghi fino alle spalle e profondi occhi nocciola. La pelle aveva un bel tono olivastro che gli suggerì possibili origini mediterranee.
Si prese il suo tempo, spiegando con cura tutto ciò che sapevano dell’incidente, e quando ebbe finito la dottoressa Latimer scosse la testa con enfasi e disse: «Impossibile! Nel modo più assoluto! Conosco Martin, e sì, aveva problemi di salute, ma la malattia era sotto controllo e lui seguiva cure precise». Tese le mani con i palmi verso l’alto e aggiunse: «Non capisco».
«È la terza donna coinvolta nel caso che si rifiuta categoricamente di credere che Martin Durham fosse capace di fare quello che ha fatto», disse Joseph.
«Di chi altri stiamo parlando, sergente?»
«Del mio capo, l’ispettore Galena, e dell’agente che è arrivata per prima sulla scena».
Helen Latimer gli rivolse uno strano sorriso enigmatico. «Nikki Galena è il suo capo?»
«Questo è il mio primo giorno come membro permanente della sua squadra, dottoressa, anche se ho già lavorato con lei in passato». Lui ricambiò il sorriso, in un modo che sperava fosse altrettanto criptico.
«Mmm». Lei annuì. «E per quanto ricordo, lei e Martin si conoscevano bene, ma si è trasferita in città, no?»
«L’ispettore è tornata da poco a Cloud Fen». Joseph si fece serio. «Ha parlato con Martin questa mattina. Dice che era in ottima forma».
«Santo cielo, ma allora che cosa può essere accaduto?», rifletté la dottoressa.
«Speravamo che potesse aiutarci lei, al riguardo».
Helen Latimer scosse il capo. «Mi spiace, ma l’unica cosa che posso fare è darvi il suo fascicolo. Al coroner servirà in ogni caso».
«Perché Martin aveva bisogno di tutti quei farmaci?»
«Aveva il sistema immunitario danneggiato dalla malattia e dalle cure per un cancro avuto verso i vent’anni».
«Che genere di cancro?», chiese Joseph.
«Della milza».
«C’era la possibilità di una ricaduta?»
«Decisamente no. Avevano effettuato una splenectomia, e si sottoponeva a controlli annuali. La clinica oncologica mi ha sempre tenuto informata su tutto». Si appoggiò allo schienale e gli rivolse un sorriso piuttosto triste. «Quanto ai suoi problemi di immunodeficienza, sono il suo medico da poco più di un anno, perciò mi limitavo a seguire una cura già ben pianificata. È un po’ ironico, in effetti, ma stavamo parlando di fare una revisione completa. Nuovi farmaci vengono sviluppati di continuo e ci tenevo che lui assumesse quelli più adatti alle sue esigenze».
«E lui ne era felice?».
La dottoressa si accigliò. «Non all’inizio, devo ammetterlo. Sembrava molto riluttante all’idea di qualunque cambiamento, ma la settimana scorsa è arrivato a un appuntamento tutto allegro e pimpante e ha detto di voler procedere».
«E l’avete fatto?»
«Cielo, no! Dovevo fare molte ricerche sulla sua anamnesi e sulle cure precedenti prima di prendere anche solo in considerazione l’idea di cambiare qualcosa, sergente». Gli rivolse uno sguardo di leggero rimprovero. «Avrei dovuto sottoporre tutti i miei suggerimenti al suo specialista. È una questione complessa, e non la prenderei mai alla leggera. Non avevo neanche dato inizio al procedimento».
«Capisco. E non ha avuto la sensazione che ci fosse qualcos’altro che lo preoccupava?», chiese Joseph.
Lei scosse la testa. «Come ha detto il suo capo, l’ultima volta che l’ho visto era in ottima forma. In effetti, sembrava stare così bene che mi sono chiesta se fosse il caso di pensare di cambiare la sua cura».
«Se non è rotto, perché aggiustarlo?»
«Esatto. Ma questa volta è stato Martin a dire che avremmo dovuto esplorare nuove terapie. Era davvero entusiasta. Considerando quanto era stato riluttante in passato, ero piuttosto sorpresa».
«Mmm, mi chiedo a cosa fosse dovuto quel cambiamento».
«Immagino che adesso non lo sapremo mai, sergente, e temo che dovrà scusarmi, ho dei pazienti che attendono, e devo ancora predisporre quel fascicolo».
Joseph si alzò e le porse la mano. «La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato, dottoressa Latimer».
«Non c’è di che. E mi chiami se vi serve qualcos’altro». Fece una pausa. «O se scopriste qualcosa che ritenete dovrei sapere».
«Lo farò, grazie». Joseph si voltò per andarsene.
«Oh, e buona fortuna con l’ispettore Galena, sergente Easter». Le parole avevano una sfumatura un po’ gelida.
Andando verso la reception, Joseph si chiese che cosa fosse accaduto in passato tra Helen Latimer e il suo capo, perché il sottofondo era palpabile.
Mezz’ora dopo se ne andò, tenendo sottobraccio un gran fascio di appunti chiusi in una spessa busta marrone. Era certo che per lui avrebbero significato ben poco, ma sarebbero stati di grande utilità al medico legale.
Mentre si metteva al volante e allacciava la cintura di sicurezza, ebbe di colpo un vivido flashback del volto oltre il parabrezza. Per un istante, se lo rivide davanti. Pelle ruvida e spessa, denti irregolari, occhi azzurro ghiaccio e sporchi capelli biondo opaco. Dio, la somiglianza era spaventosa.
Joseph scosse la testa per liberarsi della visione indesiderata, e spinse la chiave nell’accensione. Non voleva ammetterlo, ma era evidente che fosse ancora un po’ scosso. All’ospedale avevano detto che ci sarebbe voluto del tempo, perciò forse non si era ancora ripreso quanto credeva. O forse era solo l’ansia del primo giorno. Veder spuntare il cadavere di un amico del capo proprio la prima mattina di lavoro non era esattamente il massimo.
Sospirando, mise in moto e partì, con in testa ancora più domande di quando era arrivato.