Capitolo quindici
Cat Cullen e gli altri tornarono appena dopo le sei. Avevano poco da riferire, e nulla che potesse aiutarli a identificare Snaz.
«È incredibile quanto possano essere stupide certe persone!», si lagnò lei. «Nessuno ha saputo dirci colore dei capelli, segni caratteristici o tatuaggi, niente marche di abiti e nessun nome, a parte i pochi che hanno sentito che Chris lo chiamava Snaz».
«E guarda caso, dopo l’omicidio è scomparso», aggiunse Niall, sganciandosi la pesante cintura.
Nikki rimase impassibile, non si aspettava molto di più. «D’accordo, be’, andate a casa, fatevi un sonnellino e tornate qui di buon’ora». Guardò la figura imponente di Dave Harris, che chino sul computer continuava a pestare ostinato sulla tastiera. «E sto parlando anche con te, Dave».
«Certo, signora. Ho praticamente finito». Fece doppio clic con il mouse e la stampante si accese con un ronzio. «Tutto quello che sono riuscito a trovare su Amelia Reed e Paul Cousins». Inarcò le sopracciglia. «E c’è un bel po’ di roba».
Nikki prese il materiale e andò nel suo ufficio. Aveva già cercato di mettersi in contatto con Elizabeth Durham, ma le aveva risposto la segreteria telefonica. Aveva lasciato un messaggio chiedendole di richiamarla con una certa urgenza.
Adesso, mentre Joseph scorreva montagne di dati sullo schermo del computer, non le restava granché da fare a parte affrontare i rapporti di Dave.
Si sedette e cominciò a sfogliarli. Dave era stato scrupoloso come al solito, e aveva persino stampato gli articoli dei giornali locali sulle morti. Quando cominciò a leggere, le storie le tornarono in mente.
Due tragedie che avevano sconvolto a fondo gli amici e i parenti.
Le orribili modalità della morte di Paul Cousins avevano costretto molti agenti pallidi come fantasmi a perlustrare le rotaie in cerca di organi interni mancanti, e sua moglie aveva avuto bisogno di cure psichiatriche a lungo termine. Come Martin, Paul non aveva problemi economici, ma era anche circondato da una famiglia molto unita e la nascita del primo nipotino sembrava esser stata una gioia assoluta.
Nikki diede un rapido sguardo ai ritagli di giornale, continuando a imbattersi in parole come “incredulità”, “impossibile” e “fulmine a ciel sereno”. Le stesse che avrebbe potuto usare in riferimento a Martin.
C’erano descrizioni simili anche per Amelia Reed, sebbene le circostanze della sua morte fossero molto più oscure. Aveva perso i sensi? Era stata tenuta sott’acqua? O si era annegata da sola? I giornali avevano passato settimane a starnazzare su ogni aspetto di quella vicenda. Come donna, sembrava piena di vita e aiutava gli animali con passione. Era famosa per aver tenuto testa alle gang che organizzavano i combattimenti clandestini tra cani e tassi, e in un’occasione, prima del divieto di caccia alla volpe, anche a una squadra completa di cacciatori in giacca rossa. Aveva scalato muri, staccionate e filo spinato per salvare cani maltrattati e vari tipi di bestiame, ottenendo come ringraziamento svariate ossa rotte e una fedina penale sporca.
Non eri certo una fifona, eh, Amelia?, pensò Nikki.
Passò a un altro resoconto, lo lesse, poi corrugò la fronte e lo rilesse daccapo. Un vicino aveva detto di aver sentito Amelia protestare a gran voce contro qualcuno un’ora prima di morire, ma indagando non si era trovato segno che nessun altro fosse stato in casa sua. A sostenere questa ipotesi c’era anche il fatto che uno dei suoi cani, un Jack Russell fedele e possessivo, non aveva abbaiato per nulla durante quella che avrebbe dovuto essere una lite infervorata.
Nikki confrontò rapidamente le dichiarazioni della polizia e trovò il nome del vicino. Fece scorrere il dito lungo i dettagli e si fermò sul numero di telefono. Il tutto risaliva a un anno prima, ma c’erano buone possibilità che l’uomo vivesse ancora lì.
Prese il telefono e compose il numero.
«Signor Matthews? Perfetto! Ora, perdoni se la chiamo così, ma mi stavo domandando…». Nikki spiegò che stavano riesaminando il caso e avevano bisogno del suo aiuto. Parlarono per un po’, poi lo ringraziò e riattaccò. Poteva sbagliarsi, ma il suo istinto diceva il contrario. Afferrò il resto degli appunti e li sfogliò in cerca dei risultati dell’autopsia.
«Dannazione!», imprecò ad alta voce. Poi li studiò di nuovo. Nel sangue della donna era presente una quantità considerevole di farmaci, ma non si faceva cenno ad alcuna dose insolita di allucinogeno. Fissò l’elenco dei medicinali, ma a parte un diuretico non le dicevano nulla. Imprecò di nuovo.
Dalla descrizione fornita dal signor Matthew, Nikki avrebbe potuto giurare che Amelia non stesse litigando con qualcuno, ma urlando contro i demoni di un brutto trip. Questo avrebbe spiegato perché non si fosse visto nessuno, e il cane non avesse abbaiato. Ma come mai la droga non era apparsa negli esami del sangue? Forse era una specie di Rohypnol? Una di quelle che non restano in circolo a lungo. Mise il fascicolo da parte. Era possibile, ma aveva bisogno che il professor Rory Wilkinson lo confermasse.
Allungò la mano verso il telefono, poi si fermò. Meglio controllare prima l’autopsia di Paul Cousins.
Diede una rapida occhiata al rapporto, ma non riuscì a trovare nulla sulla tossicologia. Con un piccolo sbuffo d’irritazione, ricontrollò daccapo. C’era tutto, a parte l’esame tossicologico. «Merda!». Il solo rapporto che le serviva era svanito nella splendida terra inaccessibile dei Dati Mancanti.
«È arrivata la cena, signora». La voce di Joseph la calmò un po’. «Gliela porto?».
Nikki si alzò. «No, esco io. Sto per lanciare questi vecchi rapporti contro il soffitto».
«Mi dispiace. A me non sta andando troppo male, in realtà». L’uomo dispose vari vassoi di alluminio pieni di cibo sulla scrivania e tolse i coperchi. «Il profumo è buono». Le passò una forchetta. «Non penso che il commissario debba preoccuparsi molto per quelle statistiche, sa. Bisognerebbe fucilare chiunque le abbia compilate. Controllando meglio, non sono state prese in considerazione diverse variabili regionali e penso che una parte sia stata redatta usando stime basate su trend di dati, perciò a dire il vero io…».
«Joseph. Nella nostra lingua. E passami la salsa di soia, per favore». Prese la bustina e l’aprì con uno strappo. «Stai dicendo che quello studio è una merda, giusto?»
«Ha un notevole talento con le parole, signora. Ma in soldoni, sì».
«E puoi supportare questa affermazione?»
«Dovrei riuscirci. In effetti, con un altro po’ di tempo dovrei riuscire a produrre dei dati piuttosto convincenti».
«Basta qualcosa che possa togliere il commissario dai guai». Nikki infilzò con la forchetta dei noodles di Singapore e se ne trasferì un po’ nel piatto. «Sai cos’è che mi spaventa davvero di questo?»
«Dei noodles?».
Nikki gli lanciò uno sguardo esasperato. «No, scemo, delle statistiche. Se non ci avessero chiesto di guardarle, non avremmo mai notato questi altri casi sospetti».
«E sono sospetti?», chiese Joseph, mordendo un involtino primavera.
«Sono pronta a scommettere la pensione che in entrambi ci sia qualcosa che è sfuggito all’occhio del coroner».
«È spaventoso davvero».
«E se abbiamo ragione, ne troveremo altri?», chiese lei in tono sommesso.
«Cominciamo a risolvere questi, no?».
Prima che Nikki potesse rispondere, a Joseph squillò il cellulare. Lui lo aprì, lo fissò per un po’ e poi lo richiuse. Nel farlo, il suo buonumore sembrò sbiadire.
«Bryony?», chiese lei esitante.
«Bryony». Lui mosse un po’ il cibo nel piatto, senza mangiare nulla.
«Temi di metterla in pericolo, vero?».
Joseph posò la forchetta. «Mi servono prove su Billy Sweet. Senza, sono in un limbo. Rischio di sbagliare qualunque cosa faccia».
«Parlarle non può far male, no?». Nikki si chiese perché lo stesse incoraggiando.
«Forse dovrei. Odio continuare a ignorare le sue chiamate. Dopotutto, le ho dato il mio numero».
Nikki sentì l’ombra di un’emozione che non comprendeva; un’emozione che non avrebbe certo cominciato ad analizzare proprio in quel momento. «Sì. Sei molte cose, Joseph Easter, ma maleducato no. Quindi richiamala e chiedile scusa».
«Okay, lo farò dopo cena».
«Fallo subito».
«Devo mangiare».
«Lo riscalderai dopo nel microonde. Vai a telefonare a Bryony».
Mentre mangiava lo osservò e, anche se non poteva sentire la conversazione, il suo linguaggio corporeo era eloquente. Chiunque Bryony fosse, Joseph apprezzava la sua compagnia, e dalla sua espressione Nikki dedusse che la donna gli aveva perdonato la sua insolita scortesia.
Gettò via i cartoni vuoti e il suo piatto di carta, tornò in ufficio e si chiese quale direzione avrebbe preso quella relazione.
Fece il giro della scrivania e si sedette. In ogni caso quelli non erano affari suoi, mentre il caso sì. E doveva portarlo avanti. Lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica di Rory Wilkinson, e si chiese che altro fare. Elizabeth Durham era la tappa più scontata, ma doveva aspettare che la richiamasse.
Guardò oltre il vetro nella porta del suo ufficio e vide che, tornato alla scrivania, Joseph stava scrivendo al computer con una mano e mangiando agrodolce ormai freddo con l’altra. Sorrise. Avrebbe dovuto essere felice per lui, del fatto che aveva trovato qualcuno. E lo era. Certo che sì.
Scuotendo piano la testa, Nikki tornò ai suoi rapporti e cominciò a leggere.
Passò quasi un’ora prima che Joseph bussasse alla sua porta.
«Io andrei via, signora, se posso. Ho creato un foglio informativo regionale. Per confrontare tutti i dati rilevanti ci vorrà un altro po’, ma ho molte informazioni raccolte da diverse agenzie». Le sorrise. «Se ci ho azzeccato, il commissario potrebbe darci una medaglia».
«Grandioso. Ottimo lavoro, Joseph. Adesso corri dalla tua donna».
Non sapeva se fosse un effetto della luce, ma le parve di vedere il suo collo colorarsi di una sfumatura rossastra.
«Andiamo solo a bere qualcosa. Mi darà modo di spiegare quanto sia complicato quando c’è un’indagine in corso». Sembrava un po’ un adolescente che tentava di giustificarsi. «Cercherò di mettere le cose in pausa fino a…». Scrollò le spalle.
«Lo so. Finché non avrai la prova che stai cercando». Si sentiva davvero sua madre, ed era una sensazione sgradevole. «Adesso chiudi il becco e sparisci. Ho del lavoro da fare».
Bryony aveva suggerito un piccolo bar lungo il fiume, e dato che non era un tipico luogo di ritrovo per i poliziotti lui aveva accettato prontamente.
Quando l’aveva vista, era stato ammaliato dalla sua bellezza e si era sentito riempire da una tristezza strana, perché sapeva che il suo lavoro rischiava di impedire anche solo l’inizio di quella relazione.
Avevano parlato per un paio d’ore, e alla fine Joseph aveva confessato di essere coinvolto nell’indagine di omicidio che era sulla bocca di tutti, e che forse il loro rapporto avrebbe dovuto attendere che fosse conclusa. E poi le disse che anche se si fossero frequentati, uscire con un poliziotto non era una passeggiata. Sarebbe capitato che dopo aver fissato un appuntamento lui dovesse disdire all’ultimo minuto. Non l’avrebbe chiamata come promesso, e a volte avrebbe dovuto lavorare fino a tarda notte e non sarebbe proprio riuscito a vederla.
E lei si era limitata a sorridere, dicendo che era da mettere in conto. Se avesse voluto orari regolari, sarebbe uscita con un banchiere.
L’unica cosa che Joseph non le disse fu che temeva per la sua incolumità.
Verso le undici, chiamò un taxi e aspettò nel bar con lei fino al suo arrivo.
«Risolvi il tuo caso in fretta, Joseph». Lei fece scivolare il braccio sotto il suo. «Ho dei progetti per noi».
«L’idea mi piace», sussurrò lui. «E potrei averne un paio anch’io».
«Bene. Apprezzo la varietà». Lei fece una risata dolce, poi alzò lo sguardo sul taxi che aveva accostato fuori. «Penso sia il mio. Posso darti un passaggio?»
«No, grazie. Mi piace camminare, e devo andare nella direzione opposta».
«Sicuro che non preferiresti stringerti a me sul sedile posteriore?».
A Joseph sarebbe piaciuto moltissimo, ma sapeva che era troppo pericoloso, per molte ragioni diverse, e poté rispondere solo con un patetico: «Presto, lo giuro».
Questa volta la baciò. E per un attimo, il suo mondo fu perfetto. Più perfetto che mai, finché non aprì gli occhi e sul lato opposto della strada vide Billy Sweet.
«Joseph? Che cosa…? Oddio, non di nuovo!». Bryony si tirò indietro e ruotò su sé stessa. «Dove?», chiese in tono urgente.
«È… era proprio lì». Lui indicò il muro che correva lungo la riva del fiume. «Laggiù».
«Allora andiamo!».
Con suo orrore, Bryony guizzò via e attraversò la strada di corsa. «No!», tuonò lui. «Lascialo!».
La donna esitò, poi si voltò e lo guardò supplichevole. «Non può passarla liscia, Joseph, chiunque sia non può continuare a pedinarti!».
«No, Bryony! Potrebbe essere pericoloso!». Joseph corse da lei e la strinse forte tra le braccia. «Questa volta almeno l’hai visto anche tu».
Ci fu una breve pausa, poi lei disse: «Certo che l’ho visto, solo di sfuggita. Penso che abbia scavalcato il muro e sia sceso lungo il sentiero che passa sotto il ponte».
«L’hai visto in faccia?»
«No. È troppo buio».
«E indossava un maledetto cappuccio», bisbigliò lui.
«Senta, signora, vuole andare a casa sì o no? Il tempo passa, sa».
Joseph fece un cenno all’autista. «Sta arrivando». Tornò a voltarsi verso Bryony. «Chiamami o mandami un messaggio quando arrivi a casa, okay? Così saprò che sei sana e salva».
Lei si strinse nella giacca. «Stavo per dirti lo stesso». Il suo bel volto si contrasse in un’espressione di preoccupazione profonda. «Ha qualcosa a che fare con il tuo caso?»
«Non ne ho idea, Bry, ma prego che non sia così».
«Per favore, vieni in taxi con me», insistette lei.
Joseph le fece attraversare la strada. «Meglio di no. Se mi tiene d’occhio, non voglio portarlo a casa tua».
«Allora stai attento, Joseph. Molto attento». Lei lo baciò di nuovo, e aprì la portiera posteriore della vettura. «Chiamami», mimò con le labbra attraverso il finestrino chiuso.
Lui annuì e il taxi partì.
Joseph attraversò di nuovo la strada e si sporse oltre il muro del fiume. Qualche metro sotto di lui il sentiero stretto s’insinuava sotto il ponte, dove scompariva nelle tenebre. Era troppo tardi per seguirlo, ormai. Avrebbe potuto prenderlo prima, ma di certo non con Bryony a cui pensare.
Bryony. Spinse le mani a fondo nelle tasche e s’incamminò verso casa. Aveva detto troppo? O troppo poco? Non era stata sua intenzione spaventarla, ma del resto lei non sembrava il tipo da farsi intimorire facilmente. Senza la minima esitazione, era scattata all’inseguimento come un proiettile sparato da una pistola. Sorrise nel buio: e non aveva battuto ciglio neanche davanti al suo lavoro. Quindi, forse, quando le acque si fossero calmate… Sentì un fremito di paura tra le scapole. Stava correndo troppo, e c’era un brutto dato di fatto a cui stava cercando di non pensare. Sweet aveva visto Bryony. In effetti, l’aveva vista due volte.
Il brivido s’intensificò. Era stato uno sciocco. Non avrebbe mai dovuto accettare di vederla. Se le fosse successo qualcosa… Non poteva pensarci. Adesso aspettava con ansia la sua chiamata. Quanto ci avrebbe messo? Massimo quindici minuti. Si morse il labbro e accelerò il passo. Voleva solo essere di nuovo a casa.
Seguì la strada del fiume, poi deviò in direzione di Salmon Park Gardens. Era il percorso più rapido, e ora stava cominciando a preoccuparsi anche per la sua affittacamere. Se Sweet fosse entrato in casa sua, non ci avrebbe pensato due volte a far fuori una vecchietta. Per la sicurezza della donna, avrebbe fatto meglio a dormire in commissariato. Il capo gliel’avrebbe di certo permesso in quelle circostanze. Rientrato a casa avrebbe fatto i bagagli e poi… Joseph si bloccò di scatto, e senza volerlo si strinse le mani sulle orecchie.
Dio! Ti prego, no! Piano piano tolse le mani, ma continuò a sentirlo.
La strada deserta di fronte a lui echeggiava di un lamento strano e spettrale. Era acuto, sinistro e orribilmente familiare. L’aveva sentito solo una volta, in passato, ma non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Era il terribile gemito scaturito dalla gola di Billy Sweet mentre sedeva davanti a quelle donne massacrate in Congo.
Joseph ruotò su sé stesso, cercando di individuarne la fonte, ma poi s’interruppe di colpo.
S’irrigidì, sforzandosi di distinguere qualunque altro suono, poi d’improvviso sentì il tanfo di morte, sentì il calore umido della giungla sulla pelle e le urla degli agonizzanti. Era di nuovo di pattuglia, ogni senso teso a localizzare il nemico. Lasciandosi cadere a terra, si acquattò nell’ombra, in attesa.
Non sentendo nulla, avanzò in silenzio, poi udì un sospiro debolissimo trasportato dal vento. Proveniva dal confine del parco.
Socchiuse gli occhi e studiò con attenzione il terreno, controllando d’istinto che non ci fossero ostacoli e pericoli. Vide un mucchio di arbusti, in attesa che i giardinieri li potassero, e un fitto gruppetto di alberelli che formavano una cupola scura. Non va bene, si disse. Troppi posti dove nascondersi.
Sul lato opposto del parco poteva sentire delle risate. Ragazzini che si urlavano oscenità, poi ridevano ancora. «Restate dove siete», mormorò. «Tenetevi alla larga».
Raddrizzò la schiena e avanzò ancora di qualche centimetro, guardando da una parte all’altra, sentendosi nudo senza il suo fucile d’assalto M-16.
«Oh, Coniglietto? Coniglietto, dove sei?».
La voce cantilenante lo prese alla sprovvista e sentì la gola riempirsi di bile. Si girò di scatto nella direzione del richiamo. Aveva voluto una prova. Adesso ce l’aveva. «Fatti vedere, bastardo assassino!», sibilò.
«Quaggiù, Coniglietto caro», cantilenò la voce, ma questa volta sembrava più lontana.
Joseph uscì allo scoperto e corse verso il punto da cui era venuta, ma prima di poterla raggiungere cadde in avanti e si schiantò per terra. Qualcosa gli aveva fatto lo sgambetto.
Imprecò, rotolò di lato e si guardò intorno. Poi si accorse di essere ricoperto di una sostanza appiccicosa. Appiccicosa, calda e che sapeva di rame. O era ferro? Non era mai riuscito capirlo. Aveva importanza, adesso? No.
Joseph si tirò su e si allontanò dal corpo dell’uomo, e dopo aver controllato in fretta che l’assassino non stesse per lanciarsi sulla sua schiena scoperta, prese dalla tasca una torcia Maglite e proiettò un fascio di luce.
Capelli color grano, occhi chiari, giacca con cappuccio grigia, jeans sbiaditi e gola tagliata da un orecchio all’altro.
Non aveva senso cercare segni di vita. Dall’inclinazione strana della testa, si poteva guardare dentro la trachea tranciata. Joseph sospirò, spense la torcia e si lasciò cadere piano all’indietro fino a sedersi sui talloni.
Non era Billy Sweet l’uomo disteso sul terreno rosso di sangue, ma gli somigliava un po’. Mentre prendeva il cellulare dalla tasca per chiamare aiuto, Joseph si chiese che cosa avrebbe provato se fosse stato davvero il soldato traditore, l’assassino psicotico di donne e compagni d’armi.
La risposta era che non lo sapeva, ma quell’emozione, qualunque fosse, doveva essere in ogni caso migliore di quella che provava in quel momento.
Fornì la sua posizione, fece un breve riassunto dell’accaduto, chiuse il telefono, si sedette tra le ombre violacee di Salmon Park Gardens e pianse.