59
“Anjin-san?”
Blackthorne udì il proprio nome in sogno. Giungeva da molto lontano, con un’eco prolungata. “Hai?” rispose.
Poi lo sentì ripetere e una mano lo toccò. Allora aprì gli occhi e si mise a sedere, riprendendo coscienza. C’era di nuovo il medico, inginocchiato vicino al letto. Accanto a lui, Kiritsubo e Ochiba lo osservavano. La grande stanza era piena di Grigi. Le lanterne a olio tremolavano.
Il dottore gli rivolse di nuovo la parola. Ancora il ronzio agli orecchi, ma non poteva sbagliarsi: ci sentiva. Istintivamente si portò le mani agli orecchi e premette, per schiarirsi l’udito. Subito gli scoppiò nel cranio il dolore, pulsante e simile a una miriade di scintille.
“Scusate,” mormorò, aspettando che quell’agonia diminuisse, “mi spiace, orecchie male, ne? Ma adesso sento… capito, dottore-san? Adesso sento… un poco. Scusate, cosa dite?” Osservò le labbra del medico, per capire meglio.
“La Nobile Ochiba e Kiritsubo-sama vogliono sapere come state.”
“Ah!” Blackthorne le guardò e notò che erano in abiti da cerimonia. Kiritsubo era tutta in bianco, con una sciarpa verde sul capo. Ochiba aveva un chimono verde scuro, senza ricami né ornamenti, e uno scialle di velo bianco. “Meglio, grazie,” disse, inquieto per quel bianco. “Sì, meglio.” Poi osservò la luce all’esterno e capì che era l’alba e non il tramonto. “Dottore-san, ho dormito un giorno e una notte?”
“Sì, Anjin-san. Un giorno e una notte. Sdraiatevi, prego.” Con le lunghe dita il medico strinse il polso di Blackthorne, ascoltando i nove battiti, tre in superficie, tre medi e tre in profondità, come la medicina cinese insegnava da tempo immemorabile.
Tutti aspettavano la diagnosi, finché il dottore chinò più volte il capo. soddisfatto. “Sembra tutto a posto, Anjin-san. Niente ferite gravi, capito? Molto mal di testa, ne?” Si voltò a dare altri particolari alle signore.
“Anjin-san,” disse Ochiba, “oggi ci sono i funerali di Mariko-sama. Capite ‘funerali’?”
“Sì.”
“Bene. Si svolgeranno subito dopo l’alba. È vostro privilegio assistervi, se lo volete. Capite?”
“Sì, credo di sì. Prego, sì, vengo anch’io.”
“Benissimo.” Ochiba si rivolse al dottore, spiegandogli di prendersi la massima cura del paziente. Poi, con un inchino a Kiritsubo e a Blackthorne, se ne andò.
Kiri aspettò che fosse scomparsa. “Tutto bene, Anjin-san?”
“Male testa, signora. Mi spiace.”
“Scusatemi, ma volevo ringraziarvi. Capite?”
“Dovere, solo dovere. Fallito. Mariko-sama morta, ne?”
Kiri gli si inchinò in segno di omaggio. “Non avete fallito. Oh, no, nient’affatto. Grazie, Anjin-san, per lei e per me e per le altre. Parleremo meglio più tardi. Grazie.” Poi se ne andò anche lei.
Raccogliendo le forze, Blackthorne si alzò. Il dolore alla testa era così terribile da strappargli quasi delle grida. Strinse le labbra. Anche il petto e lo stomaco gli dolevano e gli bruciavano. Per un attimo solo la nausea passò, lasciandogli però un cattivo sapore in bocca. Muovendosi piano, andò alla finestra e si aggrappò al davanzale, lottando per non vomitare. Poi camminò su e giù, ma non gli passavano né il mal di testa né la nausea.
“Sto bene, grazie,” disse al medico e si rimise a sedere, con gioia. “Qua, bevete questo. Starete meglio. Sistema hara.” Il dottore aveva un sorriso benevolo. Blackthorne bevve, sconvolto dall’odore della pozione, che sembrava fatta di sterco d’uccelli, alghe ammuffite e foglie fermentate.
Il sapore era anche peggio.
“Bevete. Presto starete meglio.”
Si costrinse a mandarne giù un altro sorso. E poi a finirla. Intanto arrivarono le cameriere a pettinarlo. Un barbiere gli fece la barba. Si pulì viso e mani con le salviette umide e si sentì molto meglio. Però il dolore alla testa restava. Altri servi lo aiutarono a indossare il chimono da cerimonia e il mantello con le alette. C’era anche una spada nuova. “Un regalo, Anjin-san. Di Kiritsubo-sama,” gli spiegò una cameriera. Blackthorne l’accettò e l’infilò alla cintura, insieme allo spadone donatogli da Toranaga, con l’elsa piegata e quasi spezzata per aver martellato sul chiavistello. Ricordava Mariko appoggiata alla porta, poi più niente fino a quando, in ginocchio, l’aveva guardata morire. Poi di nuovo niente, fino al momento attuale. “Scusate, questo è il mastio, ne?” chiese al capitano dei Grigi.
“Sì, Anjin-san.” Il capitano si inchinò con deferenza, tozzo come una scimmia e altrettanto pericoloso.
“Perché sono qui, prego?”
Il capitano sorrise gentilmente. “Ordine del Nobile generale.”
“Ma perché qui?”
“Ordine del Nobile generale,” ripeté il capitano. “Scusate, prego, capite?”
“Sì, grazie,” rispose stancamente Blackthorne.
Quando finalmente fu pronto, si sentiva malissimo. Per un poco un sorso di cha gli giovò, ma poi lo rigettò in un bacile sorretto da un servo. Il petto e la testa sembravano trapassati da aghi infuocati a ogni spasimo.
“Mi spiace,” disse il medico, paziente. “Bevete questo, prego.”
Bevve di nuovo la pozione, ma gli servì a poco. Ormai l’alba invadeva il cielo. I servi gli fecero un cenno e l’aiutarono a uscire dalla stanza. Le sue guardie lo precedevano, gli altri samurai lo seguivano. Scesero lo scalone e uscirono in cortile. Un palanchino, con altre guardie, era in attesa ed egli vi salì con un senso di gratitudine. A un ordine del capitano, i portatori sollevarono il palanchino e fra uno sciame di guardie si unirono alla processione di lettighe e samurai e dame che usciva dal castello, attraverso il labirinto di vicoli e vie. Tutti erano in alta tenuta. Le donne erano vestite in abiti scuri, con veli bianchi sul capo, o tutte in bianco, con una sciarpa colorata.
Blackthorne sentiva di essere osservato. Finse di non notarlo, cercando di stare ben eretto e di mantenere un viso impassibile, pregando di non sentirsi male. Il dolore aumentava.
Il corteo passò davanti a interminabili file di samurai silenziosi. Nessuno veniva interrogato, nessun documento era richiesto. Il corteo superò un corpo di guardia dietro l’altro, superò le saracinesche e cinque fossati senza che nessuno si facesse avanti. Usciti dal portone principale, fuori dalle fortificazioni, Blackthorne notò che i suoi Grigi stavano all’erta, gli si stringevano più vicini, scrutando chiunque si avvicinasse. E la sua ansietà diminuì. Non aveva dimenticato di essere un uomo segnato. La processione girò intorno a uno spazio aperto, passò su un ponte, e si fermò nella piazza accanto alla riva del fiume.
Era uno spiazzo di trecento passi per cinquecento. Al centro vi era una buca quadrata di quindici passi, profonda cinque, piena di legna. Sopra alla buca si ergeva un baldacchino di seta bianca, da cui pendevano pareti di tela bianca, appese a bastoni di bambù, rivolte esattamente ai quattro punti cardinali. In mezzo a ogni parete si apriva una porticina di legno.
“Le porte servono all’anima per passare quando vola in cielo,” gli aveva spiegato Mariko a Hakoné.
“Andiamo a nuotare, o parliamo d’altro. Di cose felici.”
“Sì, certo, ma prima lasciatemi finire, perché questa è una cosa felice. Il nostro funerale è importantissimo per noi, Anjin-san, perciò dovete imparare, ne?”
“E va bene. Ma perché quattro porte? Non ne basta una?”
“L’anima deve poter scegliere. È saggio… oh, siamo molto saggi, ne? Ti ho già detto oggi che ti amo?” gli aveva risposto. “Siamo molto saggi a permettere all’anima di scegliere. Quasi tutte le anime scelgono la porta sud. È la più importante, dove ci sono tavoli carichi di fichi secchi e melagrane fresche e frutta, ravanelli e verdure, e fasci di pianticelle di riso, se è la stagione giusta. E c’è sempre una ciotola di riso appena cotto, che è la cosa più importante. Vedete, l’anima può voler mangiare prima di andarsene.”
“Se fosse la mia, metteteci un fagiano arrosto o…”
“Mi dispiace, niente carne, e neanche pesce. Siamo molto seri in questo, Anjin-san. E sul tavolo c’è un piccolo braciere con i carboni accesi, con legni preziosi e oli profumati, perché tutto profumi…”
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Voglio che il mio funerale sia all’alba” aveva detto Mariko, con grande serenità. “Amo l’alba più di ogni cosa. E se potesse avvenire in autunno…”
Mio povero tesoro, pensò, sapevi bene che non ci sarebbe mai stato l’autunno… La sua lettiga si fermò in un posto d’onore in prima fila, vicino al centro, tanto che egli poté scorgere le gocce come lacrime sulla frutta. Tutto era proprio come aveva detto lei. Centinaia di palanchini si allineavano tutt’intorno e la piazza era affollata da migliaia di samurai e dalle loro mogli, a piedi, tutti immobili e in silenzio. Riconobbe Ishido e Ochiba, che non lo guardarono. Seduti sui palanchini sontuosi, fissavano le pareti di tela bianca mosse dalla brezza. All’altro lato di Ochiba si trovava Kiyama, e vicino a lui Zataki, con Ito. Era presente anche la portantina chiusa di Onoshi. E ognuno di loro era scortato dalle rispettive guardie. I samurai di Kiyama e di Onoshi portavano al collo il crocifisso.
Blackthorne si guardò intorno, cercando Yabu, ma non lo trovò, né scorse nessun Marrone e nessun’altra faccia amica. Adesso Kiyama lo stava fissando, col volto di pietra, e vedendo quello sguardo Blackthorne si rallegrò di essere così ben custodito. Tuttavia si inchinò leggermente. Kiyama non spostò lo sguardo, né diede segno di accettare la cortesia. Poi finalmente girò gli occhi e Blackthorne respirò più liberamente.
Il suono dei tamburi, delle campane e degli strumenti di metallo riempiva l’aria. Clangori discordanti, penetranti. Tutti gli occhi si volsero al portone del castello: ne uscì un palanchino riccamente adorno, portato da otto sacerdoti Shinto. Vi sedeva un alto sacerdote, simile a un Budda. Altri sacerdoti, davanti e dietro al palanchino, avanzavano battendo strumenti metallici, poi vennero duecento preti buddisti con vesti arancione e altri sacerdoti Shinto in abito bianco, e infine il catafalco di Mariko. Alto e sontuoso, era parato di bianco, e di bianco era vestita lei, seduta, con la testa leggermente china, il viso truccato e l’acconciatura perfetta. Dieci Marroni reggevano il catafalco e due giovani chierici lo precedevano, spargendo petali di rose di carta, che il vento trascinava in aria, a significare che la vita è effimera come un fiore; dietro il catafalco, due sacerdoti portavano due lance, a indicare che era una samurai, forte nel suo dovere, come l’acciaio delle lame. Poi altri quattro sacerdoti con delle fiaccole spente. Li seguiva Saruji, con il viso bianco come il gesso; quindi Kiritsubo e Sazuko, in bianco, con i lunghissimi capelli sciolti trattenuti da una fascia di tulle verde. Un intervallo, e infine quello che restava della guarnigione di Toranaga. Alcuni Marroni erano feriti e molti zoppicavano.
Ma Blackthorne non vide che lei: sembrava assorta in preghiera e non si scorgeva nessun segno dello strazio che ne aveva dilaniato il corpo. Blackthorne rimase immobile, conscio che una simile cerimonia pubblica, alla presenza di Ishido e di Ochiba, era un grandissimo onore che le veniva reso. Quella consapevolezza non attenuava la sua infelicità, tuttavia.
Per oltre un’ora l’alto sacerdote cantilenò le sue formule e i tamburi rullarono. Poi, in un improvviso silenzio, Saruji avanzò, prese una torcia spenta e si avvicinò a ognuna delle quattro porticine per assicurarsi che fossero aperte. Blackthorne lo vide tremare, con lo sguardo fisso a terra, mentre tornava presso il catafalco. Quindi il ragazzo sollevò il cordone bianco che vi era legato e guidò i portatori attraverso la porta sud. L’intero catafalco venne deposto sul mucchio di legna. Un altro canto solenne, quindi Saruji appoggiò un attimo la torcia impregnata d’olio sui carboni ardenti. Subito si accese. Egli esitò, poi uscì da solo dalla porta sud e diede fuoco al rogo. La legna, anch’essa impregnata d’olio, diventò ben presto una fiamma sola, alta più di tre metri. Il calore respinse Saruji, che raccolse legni profumati e li gettò sul fuoco. Il baldacchino saltò in aria, le pareti di tela avvamparono. Tutta la buca era una massa ardente, che scricchiolava e gemeva.
- I pali di sostegno del baldacchino crollarono e un sospiro passò fra gli spettatori. I sacerdoti avanzarono, aggiunsero altra legna e le fiamme salirono più alte, fra nuvole di fumo. Non restavano più che le quattro porte. Blackthorne vide il fuoco annerirle e poi anch’esse scomparvero.
A quel punto Ishido, il più importante dei testimoni, scese dal palanchino ed eseguì il rito dell’offerta di legni preziosi. Si inchinò solennemente e tornò al proprio posto. Al suo ordine i portatori sollevarono la portantina e tornarono nel castello. Ochiba lo seguì e anche altri cominciarono a allontanarsi.
Saruji si inchinò un’ultima volta alle fiamme, poi si girò e andò da Blackthorne. Fermo davanti a lui, si inchinò. “Grazie, Anjin-san,’’ disse, e si allontanò con Kiri e Sazuko.
“È tutto finito, Anjin-san,” disse il capitano dei Grigi con un sorriso. “Il kami è in salvo adesso. Andiamo al castello.”
“Aspettate, prego.”
“Spiacente, ma ho degli ordini, ne?” rispose il capitano, ansioso, mentre gli altri si stringevano più vicini.
“Prego, aspettate.” Indifferente alla loro preoccupazione, Blackthorne scese dal palanchino, nonostante il dolore che lo accecava, e i samurai si precipitarono a ripararlo da ogni lato. Andò al tavolo, raccolse qualche pezzo di legno di canfora e lo gettò nel fuoco. Attraverso la cortina di fiamme non vedeva niente. “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti” mormorò, tracciando un piccolo segno di croce. Poi anch’egli se ne andò.
Quando si svegliò, la testa era molto meno dolorante, ma ancora sentiva pulsare le tempie e la fronte, e gli sembrava di essere prosciugato.
“Come vi sentite, Anjin-san?” chiese il dottore, col suo sorriso pieno di denti. “Avete dormito a lungo.”
Blackthorne si alzò su un gomito e osservò, ancora assonnato, le ombre sul pavimento. Devono essere le cinque del pomeriggio, pensò. Ho dormito più di sei ore. “Dormito tutto il giorno, ne?”
- Il medico sorrise. “Tutto ieri e la notte e quasi tutto oggi…”
Il morbido giaciglio era riparato da tre lati da squisiti paraventi, intarsiati d’avorio e dipinti con paesaggi campestri e marini. La grande stanza era piacevole e quieta, la luce penetrava dalle finestre di fronte a lui, le mosche ronzavano piano. Da fuori giungevano i rumori del castello, un trotto di cavalli fra il tinnire dei finimenti. La brezza leggera portava odore di fumo. Non so se mi piacerebbe venire bruciato, si disse… però, forse è meglio che essere infilato in una cassa e finire in pasto ai vermi. Basta, ordinò a se stesso, sentendosi trascinare in una spirale che scendeva in basso. Non c’è da pensarci tanto, il karma è il karma, e quando sei morto sei morto, e non sai più niente… e tutto è comunque meglio che affogare, meglio dell’acqua che ti gonfia e del corpo che marcisce, mentre i granchi… Basta!
“Bevete, prego.” Il medico gli porgeva un’altra dose dell’orribile pozione. Ebbe un rigurgito di nausea, ma riuscì a mandarla giù e a tenerla dentro.
“Cha, prego.” La cameriera glielo versò e lui la ringraziò. Era una donna di mezza età, con la faccia a luna piena, gli occhi come fessure e un vuoto sorriso fisso. Dopo tre tazze, sentì la bocca quasi a posto.
“Prego, Anjin-san, gli orecchi come vanno?”
“Uguale. Ancora lontano… lontano, capite? Molto lontano.”
“Ho capito. Mangiate, Anjin-san.”
Su un vassoio gli servirono riso, zuppa e pesce alla brace. Lo stomaco gli si stringeva, ma ricordando che da due giorni non mangiava si costrinse a inghiottire un po’ di riso e di zuppa di pesce. Lo stomaco migliorò e allora mangiò anche il resto, con i bastoncini che ormai usava senza accorgersene, come fossero le sue dita. “Grazie. Molta fame.”
“Certo,” disse il medico. Gli mise sul tavolino un sacchetto di tela pieno d’erba. “Preparate il cha con queste, Anjin-san. Una volta al giorno, finché tutto sarà passato. Capito?”
“Sì. Grazie.”
“È stato un onore prendermi cura di voi.” Il vecchio con un cenno ordinò alla domestica di portare via il vassoio e uscì dietro di lei. Blackthorne si adagiò sul letto, sentendosi veramente meglio.
“Avevo solo fame!” esclamò a voce alta. Indossava soltanto il perizoma.
I suoi abiti da cerimonia stavano gettati alla rinfusa dove li aveva lasciati spogliandosi, e questo lo meravigliò. Però accanto alle spade c’era un chimono marrone, pulito. Mentre si riposava, avvertì a un tratto una presenza estranea. Si alzò a sedere e si guardò intorno, poi si sollevò sulle ginocchia e guardò sopra al paravento. Allora balzò in piedi, con una fitta tremenda di dolore alla testa per il movimento improvviso: un gesuita giapponese, inginocchiato immobile presso la porta, lo fissava. Fra le mani stringeva il crocifisso e il rosario.
“Chi siete?” gli chiese, vincendo il dolore.
“Sono Fratello Michele, senhor.” Gli occhi neri non si spostavano di un millimetro. Blackthorne si avvicinò alle spade.
“Che volete da me?”
“Sono stato mandato a domandarvi come state,” rispose calmo Michele, in un buon portoghese, per quanto con inflessioni giapponesi.
“Mandato da chi?”
“Dal Nobile Kiyama.”
D’improvviso Blackthorne si rese conto che erano completamente soli. “Dove sono le mie guardie?”
“Non ne avete, senhor.”
“Ma certo che le ho! Venti Grigi. Dove sono?’’
“Quando sono arrivato non c’era nessuno, mi spiace. Stavate ancora dormendo.” Michele accennò alla porta. “Forse dovete chiedere a quei samurai.”
Blackthorne afferrò la spada. “Prego, toglietevi dalla porta.”
“Io non sono armato, Anjin-san.”
“Comunque non avvicinatevi. I preti mi innervosiscono.”
Obbediente, Michele si alzò in piedi e si spostò, con la stessa calma esasperante. Fuori dalla porta due Grigi stavano appoggiati alla ringhiera del pianerottolo.
“Buongiorno,” disse cortesemente Blackthorne, pur non riconoscendoli. Non si inchinarono. “Buongiorno, Anjin-san,” rispose uno dei due. “Prego, dove altre mie guardie?”
“Tutte le guardie sono state ritirate stamattina all’Ora della Lepre. Capite ‘Ora della Lepre’? Noi non siamo le vostre guardie, Anjin-san. Questo è il nostro solito turno di servizio.”
Blackthorne sentì un sudore freddo corrergli per la schiena. “Le guardie tolte… ordine di chi?”
Entrambi i samurai risero. Il più alto rispose: “Qui nel mastio, Anjin- san, soltanto il generale dà ordini, o la Nobile Ochiba. Come vi sentite adesso?”
“Meglio, grazie.”
Il samurai chiamò qualcuno nell’atrio e dopo pochi istanti da una stanza uscì un ufficiale con quattro samurai. Era giovane e robusto. Vedendo Blackthorne, gli si illuminò lo sguardo. “Ah, Anjin-san. Come state?” “Meglio, grazie. Prego, scusatemi, ma dove sono le mie guardie?”
“Ho ordine di comunicarvi, appena sveglio, che dovete tornare alla vostra nave. Ecco il vostro permesso.” Il capitano trasse il foglio dalla manica e glielo consegnò, indicando con un gesto di disprezzo il gesuita. “Questo individuo deve guidarvi.”
Blackthorne cercò di far funzionare il cervello, che dava segnali d’allarme. “Sì, grazie. Ma prima devo vedere generale Ishido.”
“Spiacente. Gli ordini sono che dovete tornare alla nave appena sveglio. Capite?”
“Sì. Perdonate, ma molto importante vedere Nobile generale Ishido. Prego, dite vostro capitano. Subito. Necessario vedere Nobile generale prima di andare. Molto importante, scusate.”
Il samurai si grattò il mento butterato dal vaiolo. “Domanderò. Vestitevi, prego.” Con sollievo di Blackthorne, si allontanò con aria d’importanza. Gli altri quattro samurai rimasero fermi. Blackthorne si vestì in fretta, sotto i loro occhi. Il prete attendeva in corridoio. Sii paziente, si esortò. Non pensare e non ti preoccupare. È un errore. Niente è cambiato. Possiedi ancora il potere di prima.
Infilò le spade alla cintura e bevve il resto del cha. Poi vide il permesso, un foglio coperto di caratteri fitti. Non c’è da sbagliarsi, si disse. Il chimono pulito già gli aderiva al corpo per il caldo.
“Anjin-san,” disse uno dei samurai, “ho sentito che avete ammazzato cinque ninja. Molto, molto bene, ne?”
“Scusate, solo due. Forse tre.” Blackthorne girò il capo di qua e di là, nel tentativo di schiarirsi la mente e di alleviare il dolore.
“Ho sentito che hanno trovato cinquantasette ninja morti… e centosedici Marroni. È giusto?”
“Non lo so. Mi dispiace.”
Il capitano rientrò nella stanza. “L’ordine è che andiate alla nave, Anjin-san. Il prete vi guiderà.”
“Sì grazie, ma prima vedere Nobile Ochiba. Molto, molto importante, prego, chiedo…”
Il capitano si girò verso Michele e gli parlò gutturalmente e molto in fretta. “Ne?” Michele si inchinò, imperturbabile, e si volse a Blackthorne. “Spiacente, senhor. Dice che il suo superiore parlerà al suo superiore, ma nel frattempo dovete andarvene subito e seguirmi alla galea.”
Ima! aggiunse con enfasi il capitano.
Blackthorne capì di essere un uomo morto. “Grazie,” sentì pronunciare dalla propria voce. “Dove mie guardie, prego?”
“Non avete guardie.”
“Prego mandate alla mia nave. Prego chiamate miei vassalli…”
“L’ordine è di andare alla nave, subito! Capito, ne?” Le parole risuonarono sgarbate e definitive. “Alla nave!” concluse il capitano con un sorriso storto, aspettando che Blackthorne si inchinasse per primo. Egli lo notò e gli parve di trovarsi in un incubo, dalle mosse rallentate e confuse. Avrebbe voluto asciugarsi il sudore e inchinarsi, ma sapeva che il capitano non gli avrebbe reso l’inchino, e certo non da suo pari, e così lui si sarebbe coperto di vergogna ai loro occhi. Era chiaro: era stato abbandonato e venduto ai nemici cristiani, e Kiyama, Ishido e i preti facevano tutti parte del complotto. E per qualunque ragione, a qualunque prezzo, ora non gli restava che asciugarsi il sudore, inchinarsi e uscire. Andare verso quelli che lo stavano aspettando.
Ad un tratto si sentì accanto Mariko, ricordò il terrore che l’aveva invasa, e tutto ciò che essa aveva significato e fatto e insegnato. Costrinse la mano a appoggiarsi sull’elsa dello spadone e si piantò a gambe larghe, con aria truculenta, conscio che il suo fato era deciso, il suo karma ormai chiaro, ma che se doveva morire preferiva morire in quell’istante con onore anziché più tardi.
“Io sono John Blackthorne, Anjin-san,” dichiarò, e l’impegno che aveva preso con se stesso gli diede uno strano potere e un’assoluta scortesia. “Generale della nave del Nobile Toranaga. Di tutte le sue navi. Samurai e hatamoto! Voi chi siete?”
Il capitano arrossì. “Saigo Masakatsu di Kaga, capitano, della guarnigione del Nobile Ishido.”
“Io sono hatamoto. Voi lo siete?” insisté Blackthorne, ancora più rudemente, senza nemmeno raccogliere il nome dell’altro e vedendolo con una chiarezza che aveva dell’irreale: ne scorgeva i pori della pelle, gli spunzoni della barba, ogni macchia di colore negli occhi ostili, ogni pelo sulla mano che stringeva la spada.
“No, non sono hatamoto”
“Siete un samurai… o un ronin?” L’ultima parola uscì come un sibilo e Blackthorne sentì gli uomini agitarsi alle sue spalle, ma non se ne curò. Fissava il capitano, in attesa del fendente improvviso e mortale, in cui si concentravano tutti gli hara-gei, tutte le energie interiori, e si preparava a restituirlo con altrettanta furia cieca, per sconfiggere il nemico in una reciproca e onorevole morte.
Con grande stupore vide cambiare lo sguardo del capitano. L’uomo si rattrappì e si inchinò, profondamente e umilmente, a lungo, senza difendersi. “Prego… scusate le mie cattive maniere. Io… io ero un ronin, ma il Nobile generale mi ha offerto una nuova possibilità. Prego, scusate la mia maleducazione, Anjin-san.” La voce era piena di vergogna. Blackthorne era ancora pronto a colpire, ansioso di colpire, pronto alla morte e non a una vittoria. Gli sembrò tutto ancora più irreale. Guardò gli altri samurai: tutti si inchinarono, dandogli la vittoria totale.
Dopo un momento anche Blackthorne si inchinò rigidamente, ma non da loro pari. E quelli rimasero inchinati finché egli si fu allontanato per il corridoio, seguito da Michele. Scese lo scalone e uscì nel cortile. Ora non provava più nessun dolore, gonfio soltanto di felicità. I Grigi lo osservarono e il gruppo di samurai che lo scortò con Michele sino al primo posto di guardia si tenne a debita distanza dalla sua spada. Uno di loro si affrettò avanti. Al posto di guardia un altro ufficiale gli si inchinò e lui rispose correttamente. Il permesso venne attentamente esaminato, e un’altra scorta li accompagnò al successivo controllo. Tutta la scena si ripeté. Nessuno mise ostacoli e nessuno gli rivolse particolare attenzione.
Si rese conto che la testa non gli doleva quasi più. Il sudore si era asciugato. Tolse dalla spada le dita intorpidite e le piegò e distese più volte. Si fermò a una fontana, bevve e si gettò dell’acqua fresca sulla testa, mentre i Grigi della scorta aspettavano tranquillamente. E intanto lui almanaccava cercando di capire perché Ishido e Ochiba gli avessero tolto il loro favore e la loro protezione. Non può essere tutto cambiato, pensava disperato. Alzò gli occhi e scorse Michele che lo fissava. “Che volete?”
“Niente, senhor,” rispose Michele, gentilmente. Poi si illuminò di un sorriso pieno di calore. “Ah, senhor, mi avete fatto un grande piacere lassù, costringendo quel cabron villano a rimangiarsi la sua villania. Che gioia è stata vedervi! Tu,” aggiunse in latino, “ti ringrazio.”
“Non era per voi,” rispose Blackthorne in portoghese.
“Sì, ma la pace sia con voi, senhor. So che Dio ha le sue vie misteriose. È stato un servizio reso a tutti gli uomini. Quel ronin è stato svergognato e lo meritava. È una vergogna abusare del bushido.”
“Siete anche voi samurai?”
“Sì, senhor, ho quest’onore,” rispose Michele. “Mio padre è cugino del Nobile Kiyama e il mio clan è della provincia di Hizen, a Kyushu. Come sapevate che era un ronin?”
Blackthorne tentò di ricordare. “Non ne ero sicuro. Forse perché ha detto che era di Kaga, che si trova molto lontano e Mariko… la Nobile Toda… mi aveva spiegato che Kaga era nell’estremo nord. Non so, non ricordo neanche bene che cosa ho detto. ’’
L’ufficiale della scorta tornò presso di loro. “Scusate, Anjin-san, ma questo individuo vi disturba forse?”
“No, no, grazie.” Blackthorne si rimise in cammino. Il permesso fu di nuovo controllato, con cortesia, ed essi proseguirono. Il sole stava calando e l’aria calda sollevava nugoli di polvere. Oltrepassarono numerose scuderie, da cui spuntavano i cavalli. I samurai lustravano cavalli e finimenti, e dappertutto si scorgevano lance e selle pronte per una partenza immediata. Blackthorne fu sbalordito dalla quantità di samurai.
“Quanti cavalli, capitano?” chiese.
“Migliaia, Anjin-san. Dieci, venti, trentamila, qui e in tutte le parti del castello.”
Mentre attraversavano il posto di guardia presso l’ultimo fossato, Blackthorne con un cenno chiamò Michele. “Voi mi guidate alla galea?”
“Sì. Così mi è stato ordinato, senhor.”
“Non in un altro posto?”
“No, senhor.”
“Chi ve l’ha ordinato?”
“Il Nobile Kiyama. E il padre visitatore, senhor.”
“Ah, lui! Preferisco Anjin-san, non ‘senhor’… padre.”
“Scusate, Anjin-san, non sono ‘padre’, non sono stato ordinato.” “Quando lo sarete?”
“Quando a Dio piacerà,” rispose tranquillo e fiducioso Michele.
“Dov’è Yabu-san?”
“Non lo so, mi spiace.”
“Mi portate alla nave e non altrove?”
“Sì, Anjin-san.”
“E poi sono libero? Libero di andare dove voglio?”
“A me è stato detto di chiedervi come stavate e poi accompagnarvi alla nave. Nient’altro. Non sono che un messaggero, una guida.”
“Lo giurate davanti a Dio?”
“Sono solo una guida, Anjin-san.”
“Dove avete imparato così bene il portoghese? E il latino?”
“Ero uno dei quattro chierici mandati a Roma. Allora io avevo tredici anni e Uraga-noh-Tadamasa dodici.”
“Ah, adesso ricordo! Uraga-san mi parlò di voi. Eravate suo amico. Sapete che è morto?”
“Sì. Ho molto sofferto quando l’ho saputo.”
“Sono stati i cristiani a ucciderlo.”
“Sono stati degli assassini, dei sicari, Anjin-san. E saranno giudicati, non temete.”
Dopo un momento Blackthorne gli chiese: “Vi è piaciuta Roma?”
“La detestavo. E così tutti gli altri di noi. Ogni cosa ci era odiosa: il cibo e il sudiciume e la bruttezza. Sono tutti eta laggiù… incredibile! Ci sono voluti otto anni per tornare a casa e ho tanto ringraziato la Madonna quando ci siamo riusciti.”
“E la Chiesa? I padri?”
“Detestabili. Per la maggior parte,” rispose tranquillo Michele. “Mi hanno sconvolto la loro immoralità e le amanti e l’avidità, la pompa, l’ipocrisia e la maleducazione… e le loro due facce: una per il gregge, l’altra per i pastori. Tutto era odioso… eppure in alcuni di loro ho scoperto Dio, Anjin-san. È così strano. Ho scoperto la Verità nelle cattedrali, nei chiostri e tra i padri.” Michele lo guardò con occhi innocenti, pieni di dolcezza. ‘‘Avveniva di rado, Anjin-san, molto di rado, di trovare una scintilla, è vero, però ho trovato Dio e la Verità, e ho capito che il cristianesimo è l’unica via verso la vita eterna… scusatemi, prego, il cattolicesimo.”
“Avete conosciuto l’inquisizione, le prigioni… i tribunali?”
“Ho visto molte cose terribili. Pochissimi sono i saggi… la maggioranza è fatta di peccatori e grandi mali avvengono sulla terra in nome di Dio. Ma non è Dio. Questo mondo è una valle di lacrime, che deve solo prepararci alla vita eterna.” Pregò per qualche istante, in silenzio, poi, riconfortato, guardò Blackthorne. “Anche qualche eretico può essere buono, ne?”
“Forse,” rispose Blackthorne, provando simpatia per lui.
L’ultimo fossato e l’ultimo portone, il principale. L’ultimo controllo, e il permesso venne ritirato. Michele superò l’ultima saracinesca e Blackthorne lo seguì. Fuori dal castello erano in attesa un centinaio di samurai. Uomini di Kiyama. Vedendone i crocifissi e l’aria ostile, Blackthorne si arrestò. L’ufficiale gli fece cenno di proseguire e egli obbedì. I samurai lo chiusero in mezzo a loro. Mentre passavano per le strade, portatori e piccoli mercanti si scostavano e si appiattivano a terra, aspettando che si allontanassero. Qualcuno sollevava patetiche croci e Michele li benediceva. Era lui a guidare il gruppo, che passò lungo lo spiazzo dove nessun rogo ardeva più. Superarono un ponte e si addentrarono nella città, diretti verso il mare. Fra i passanti si vedevano dei samurai e dei Grigi che salivano al castello. Scorgendo Michele si oscuravano in volto e lo avrebbero respinto da una parte, se non ci fosse stato alle sue spalle il folto gruppo di samurai di Kiyama.
Blackthorne camminava ormai senza più paura. L’aveva superata, pur sentendo ancora il desiderio di fuggire. Ma non aveva dove fuggire né dove nascondersi. La sua unica salvezza era sull’Erasmus, in alto mare, con un numeroso equipaggio, e abbondanti armi e provviste.
“Cosa succederà sulla galea, fratello?”
“Non lo so, Anjin-san.”
Stavano avvicinandosi al mare. Superato un angolo si trovarono in un mercato del pesce, all’aperto. Cameriere belle e grasse, vecchie signore e ragazzi, uomini e venditori e clienti, e bambini, tutti lo rimiravano a bocca spalancata, poi si affrettavano a inchinarsi. Blackthorne seguiva i samurai fra banchi e ceste e vassoi di bambù, carichi di ogni genere di pesce odoroso di mare, esposto in bell’ordine: aragoste e granchi e gamberi, anche di fiume, alcuni ancora vivi dentro i secchi d’acqua. Mai visti tanto puliti a Londra, pensò distrattamente, né i pesci né i venditori. Poi vide una fila di banchi col pesce che arrostiva sulle braci. Gliene giungeva il profumo. Senza riflettere, cambiò direzione e immediatamente un samurai gli sbarrò il passo.
“Gomen nasai, kinjiru”
“Iyé!” ribatté lui, con altrettanta durezza. “Watashi tabetai desu, ne? Watashi Anjin-san, ne?” Ho fame. Sono l’Anjin-san!
Si fece strada a spinte e l’ufficiale superiore accorse per bloccarlo. Michele si affrettò a spiegare con calma autorevole e il permesso fu accordato, sia pure di malavoglia.
“Prego, Anjin-san,” gli disse, “l’ufficiale dice di mangiare, se volete. Che cosa preferite?”
“Qualcuno di quelli,” rispose Blackthorne indicando dei gamberi giganti, aperti per il lungo, con la carne bianca e rosa, arrostiti alla perfezione. Non riusciva a staccarne gli occhi. “Prego, dite all’ufficiale che non mangio da quasi due giorni e d’un tratto ho molta fame. Mi dispiace.”
Il venditore era un vecchio con tre denti soli e la pelle coriacea, vestito del solo perizoma. Gonfiandosi d’orgoglio per essere stato il prescelto, servì su un vassoio di bambù i cinque gamberoni più belli e subito ne mise degli altri sul braciere.
“Dozo, Anjin-sama!”
“Domo.” Blackthorne si sentiva lo stomaco illanguidito. Voleva solo riempirlo, ma con calma scelse un gambero, lo sollevò con i bastoncini puliti, lo immerse nella salsa e mangiò con enorme piacere. Era delizioso.
“Fratello Michele?” disse, offrendogli il vassoio. Michele ne accettò uno, ma solo per educazione. L’ufficiale ringraziò, ma rifiutò. Blackthorne spolverò quel vassoio e poi altri due. Ne avrebbe divorati anche altri due, ma decise di no per cortesia verso gli altri e anche per non aggravare troppo lo stomaco.
“Domo” disse, deponendo il vassoio, con l’obbligatorio rutto di soddisfazione. “Bimi desu!” Deliziosi.
L’uomo sorrise beato e si inchinò, imitato da tutti i venditori vicini e a quel punto Blackthorne si rese conto, inorridito, di non avere denaro. Arrossì.
“Cosa succede?” domandò Michele.
“Io… ehm… non ho denaro. Non ho niente da dargli. Io… potreste prestarmi qualcosa?”
“Non ho niente, Anjin-san. Noi non portiamo mai soldi.”
Ci fu un silenzio imbarazzato. Il venditore sorrideva, aspettando paziente. Michele, altrettanto imbarazzato, si rivolse all’ufficiale, che guardò Blackthorne con ferocia, poi chiamò un samurai che pagò generosamente. Il venditore lo copri di ringraziamenti, mentre Michele, sudato e rosso, riprendeva il cammino. Blackthorne lo raggiunse. “Mi dispiace tanto di questo… non mi è mai successo! È la prima volta che mi capita di comprare qualcosa da quando sono qui. Non ho mai avuto denaro, per assurdo che possa sembrare, e non ho mai pensato… non ne ho mai tenuto in tasca…”
“Prego, dimenticatelo, Anjin-san. Non è niente.”
“Dite all’ufficiale, prego, che glieli restituirò appena saremo alla nave.” Michele obbedì e proseguirono tutti in silenzio. In fondo alla strada c’era il mare, calmo nel tramonto. Riconoscendo il luogo, Blackthorne indicò un’ampia strada che andava da est a ovest. “Passiamo di là.”
“Ma questa strada è più breve, Anjin-san.”
“Sì, ma bisogna passare davanti alla missione gesuita e al lorcha portoghese. Preferisco allungare e andare di qua.”
“Mi hanno detto di fare questa strada.”
“Prendiamo l’altra,” insisté Blackthorne. L’ufficiale volle sapere di che si trattava e alla risposta di Michele accennò di proseguire, per la via più corta.
Blackthorne soppesò l’eventualità di un rifiuto: l’avrebbero costretto, legato o trasportato, o trascinato. Non gli piaceva l’idea, così si strinse nelle spalle e riprese il cammino. Uscirono sulla strada spaziosa che costeggiava la spiaggia. A un mezzo ri sorgevano le banchine e i magazzini dei gesuiti. A un centinaio di passi di distanza egli scorse la nave portoghese. Duecento passi più avanti, c’era la sua galea, ancora troppo lontana per vedere gli uomini a bordo.
Blackthorne raccattò un sasso e lo mandò sibilando a volare in mare. “Camminiamo un po’ sulla spiaggia.”
“Certo Anjin-san.” Michele s’inoltrò sulla rena. E Blackthorne lo seguì, godendo la frescura, il lieve singhiozzo delle onde.
“È una delle migliori ore della giornata, ne?”
“Ah, Anjin-san” esclamò Michele con improvvisa, schietta cordialità, “ci sono tante volte in cui, la Madonna mi perdoni, vorrei non essere prete, ma solo figlio di mio padre. E questa è una di quelle volte.”
“Perché?”
“Vorrei potervi trasportare, voi e la vostra strana nave di Yokohama, a Hizen. il nostro grande porto nel Sasebo. E vi chiederei di fare uno scambio con me: voi insegnereste a me e ai nostri capitani i vostri sistemi per governare la nave e per navigare e in cambio io vi offrirei i migliori maestri del regno, maestri di bushido, di cha-no-yu, hara-gei, ki, meditazione zasen, disposizione dei fiori e di tutte le speciali conoscenze, uniche al mondo, che noi possediamo.”
“Mi piacerebbe. Perché non lo facciamo subito?”
“Oggi non è possibile. Ma voi avete già imparato tanto e in così poco tempo, ne? Mariko-sama è stata una meravigliosa maestra. Voi siete un degno samurai. E avete una dote molto rara fra noi: siete imprevedibile. Lo era anche il Taikō, e lo è Toranaga. Capite, di solito noi siamo gente molto prevedibile.”
“Anche voi?”
“Sì.”
“Allora cercate di prevedere in che modo potrò sfuggire alla trappola in cui mi trovo chiuso.”
“Scusate, ma non c’è nessuna trappola, Anjin-san,” replicò Michele. “Non ci credo. Come sapevate che la mia nave è a Yokohama?”
“Lo sanno tutti.”
“Davvero?”
“Quasi tutto di voi, e di come avete difeso Toranaga e la Nobile Maria, la Nobile Toda, è risaputo. E onorato.”
“Non credo neanche a questo.” Blackthorne raccolse un’altra pietra piatta e la mandò a roteare sul pelo dell’acqua. Camminando canticchiava una canzone marinaresca, provando una viva simpatia per Michele. Si trovarono davanti a un frangiflutti e dovettero tornare sulla via. I magazzini dei gesuiti e la missione si ergevano cupi nel rosso del tramonto. Scorgendo i fratelli laici, in abito arancione, a guardia del portone ad arco, ne avvertì l’ostilità. Però non lo toccarono. La testa riprese a fargli male.
Come si aspettava, Michele si diresse verso la missione e lui si preparò, deciso a lottare fino all’incoscienza prima di entrare e consegnare le armi.
“Dunque, mi dovete solo guidare alla galea, eh?”
“Certo, Anjin-san.” Con sua grande meraviglia, Michele gli accennò di fermarsi fuori del portone. “Niente è cambiato. Devo solo informare il padre visitatore che passiamo di qui. Scusate, ma dovete aspettarmi un momento.”
Blackthorne con stupore lo guardò entrare da solo. Si era immaginato che alla Missione il suo viaggio sarebbe finito. L’Inquisizione, il processo, con la relativa tortura, e poi lo avrebbero consegnato al capitano-generale. Osservò il lorcha a un centinaio di passi. A poppa stavano Ferriera e Rodrigues e il ponte era affollato di armati. Dietro la nave la banchina s’incurvava leggermente ed egli riuscì a scorgere a fatica la galea. C’erano degli uomini alla falchetta e gli parve di riconoscere Vinck e Yabu, ma non ne era sicuro. Gli parve di scorgere anche delle donne, ma non capiva chi potessero essere. Intorno alla galea c’erano dei Grigi, molto numerosi.
Tornò a osservare Ferriera e Rodrigues. Entrambi erano armati fino ai denti, come del resto i marinai. I cannonieri sembravano oziare presso i cannoncini puntati verso la spiaggia, ma in realtà si tenevano pronti. Riconobbe la mole di Pesaro, il nostromo, in mezzo a un gruppo di uomini. Li seguì con lo sguardo e si sentì gelare il sangue. All’estremità del molo un lungo palo era stato confitto in un mucchio di terra e alla sua base era stata accatastata della legna.
“Ah, capitano-pilota, come state?”
Dal portone usciva Dell’Aqua e al suo fianco Michele sembrava un nano. Quel giorno il padre indossava una tonaca da gesuita, e la statura e la grande barba grigia gli davano la minacciosa regalità di un patriarca biblico. Un inquisitore da capo a piedi, esteriormente benevolo, pensò Blackthorne. Fissò lo sguardo negli occhi bruni, meravigliandosi di dovere, per una volta, alzare i suoi e ancor più meravigliato di scorgervi della compassione. Ma sapeva che non ci sarebbe stata pietà in quell’uomo, né se l’aspettava.
“Come state?” rispose, e i gamberi gli parvero di piombo nello stomaco.
“Vogliamo proseguire?”
“Perché no?” Dunque a bordo ci sarà l’inquisizione, pensò disperato, desiderando avere alla cintura le sue pistole. Sareste il primo a morire, Eminenza.
“Tu resta qui, Michele” disse Dell’Aqua. Guardò la fregata portoghese e il viso gli si indurì. Poi si avviò.
Blackthorne esitò. Michele e i samurai lo guardavano stranamente.
“Sayonara, Anjin-san,” salutò Michele. “Dio vi accompagni.”
Blackthorne annuì e attraversò le file di samurai, aspettandosi che gli piombassero addosso a spade levate. Ma lo lasciarono passare senza sfiorarlo. Si fermò e si voltò a guardarli, col cuore che batteva veloce. Per un attimo fu tentato di estrarre lo spadone e caricarli. Ma non c’era via di fuga da quella parte. Non si sarebbero battuti, lo avrebbero afferrato, legato e consegnato. Non mi lascerò consegnare legato mani e piedi, si giurò. L’unica, strada possibile era quella davanti a lui, e là le sue spade sarebbero state inutili contro le armi da fuoco.
“Capitano Blackthorne, venite,” lo chiamò Dell’Aqua.
“Sì, un momento solo,” rispose. Con un cenno fece avvicinare Michele. “Ascoltate, fratello, là, sulla spiaggia, avete detto che ero un degno samurai. Lo pensavate davvero?”
“Sì, Anjin-san, e anche tutto il resto.”
“Allora, da samurai, vi chiedo un favore,” disse quieto, ma pressante. “Quale?”
“Di morire da samurai.”
“La vostra morte non è nelle mie mani, ma in quelle di Dio.”
“Sì, ma vi chiedo un favore.” Blackthorne indicò il palo. “Quello non è il modo. È ignobile…”
Michele, perplesso, guardò verso il lorcha e per la prima volta scorse il palo. “Madonna benedetta…”
“Capitano Blackthorne, prego, venite…” chiamò di nuovo Dell’Aqua. In tono incalzante, Blackthorne insisté: ”Vi prego, spiegatelo all’ufficiale. Ha abbastanza samurai con sé da potersi imporre, ne? Diteglielo. Siete stato in Europa, sapete come vanno le cose. Non chiedo molto, ne? Prego, sono un samurai. Uno di loro potrebbe farmi da secondo.”
“Io… domanderò.” Michele corse dall’ufficiale e cominciò a parlare piano e in fretta.
Blackthorne si voltò e concentrò l’attenzione sulla nave. Avanzò e Del- l’Aqua riprese a camminare quando egli l’ebbe raggiunto. Blackthorne vide Ferriera lasciare la poppa, attraversare il ponte, con le pistole alla cintura e la spada al fianco. Rodrigues lo guardava, la destra sulla pistola da duello a canna lunga. Pesaro e dieci marinai erano già sulla banchina, appoggiati ai moschetti con le baionette innestate. E l’ombra del lungo palo si tendeva verso di lui. Oh, mio Dio, avere un paio di pistole e un cannone, pensò, mentre lo spazio diminuiva inesorabilmente. Dio, lascia che io non sia coperto di vergogna…
“Buonasera, Eminenza” esclamò Ferriera, con lo sguardo fisso su Blackthorne. “Dunque, inge…”
“Buonasera, capitano-generale.” Dell’Aqua indicò con un gesto di collera il palo. “È una vostra idea, quella?”
“Sì, eminenza.”
“Tornate a bordo della vostra nave!”
“Questa è una decisione di carattere militare.”
“Tornate a bordo della vostra nave!”
“No! Pesaro!” Il nostromo e i marinai avanzarono subito verso Blackthorne e Ferriera estrasse la pistola. “Dunque, ingeles, ci incontriamo di nuovo.”
“Una cosa che non mi piace affatto,” ribatté Blackthorne e sfoderò la spada, brandendola a due mani. Il manico rotto gli faceva male.
“Stanotte vi piacerà l’inferno!” proruppe Ferriera con ira.
“Se aveste un filo di coraggio, vi battereste da uomo a uomo. Ma non siete un uomo, siete un vigliacco, uno spagnolo vigliacco senza coglioni.” “Disarmatelo!” ordinò Ferriera. Immediatamente i dieci uomini avanzarono, con le baionette puntate. Blackthorne arretrò, ma si trovò circondato. Le baionette gli miravano alle gambe ed egli respinse uno degli assalitori con lo spadone, ma un altro subito l’attaccò alle spalle. Dell’Aqua si riprese dallo sbalordimento e urlò: “Deponete i fucili! In nome di Dio, vi ordino di fermarvi!”
I marinai erano eccitati. Tutti i moschetti erano puntati su Blackthorne, che stava inutilmente in posizione di difesa, con la spada levata.
“Tornate indietro, tutti quanti!” gridò Dell’Aqua. “Indietro! In nome di Dio, indietro! Siete delle bestie?”
“Voglio quell’uomo!” gridò Ferriera.
“Lo so, e vi ho già detto che non potete averlo! Ve l’ho detto ieri e oggi! Siete sordo? Che Dio mi doni la pazienza! Ordinate agli uomini di risalire a bordo!”
“Ordino a voi di andarvene!”
“Voi date ordini a me?”
“Certo, ve lo ordino io, capitano-generale, governatore di Macao, primo ufficiale del Portogallo in Asia! Quest’uomo è una minaccia per lo Stato, per la Chiesa, per la Nave Nera e per Macao!”
“In nome di Dio io vi scomunico e con voi scomunicherò tutta la vostra ciurma se farete male a quest’uomo. Mi avete sentito?” Dell’Aqua si voltò con furia verso i marinai, che arretrarono spaventati. Tutti, meno Pesaro, che rimase al suo posto, con aria di sfida, in attesa degli ordini di Ferriera. “Salite sulla nave e toglietevi di mezzo!”
“Commettete un terribile errore!” tuonò Ferriera. “È una minaccia! Io sono il comandante militare in Asia e…”
“Questo è un problema della Chiesa e non militare…”
Blackthorne, di nuovo in preda a un dolore lancinante alla testa, stentava a pensare e a vedere. Tutto si era susseguito così in fretta: prima custodito, poi abbandonato, prima nelle mani dell’inquisizione, poi salvo, e quindi di nuovo in pericolo, per essere difeso dal capo dell’inquisizione. Non aveva senso.
Ferriera stava urlando: “Io vi diffido! Dio mi sia giudice, commettete un errore e io ne informerò Lisbona!”
“Intanto rimandate i vostri uomini a bordo, o vi tolgo il grado di capitano-generale della Nave Nera!”
“Non avete questo potere!”
“Se non rimandate a bordo gli uomini e non lasciate immediatamente libero l’ingeles, vi dichiaro scomunicato… voi e chiunque serva ai vostri ordini, e getterò la maledizione su voi e tutti i vostri uomini!”
“Per la Madonna…” Ferriera s’interruppe. Non temeva per sé, ma la sua Nave Nera era in pericolo. Sapeva che la maggioranza dell’equipaggio lo avrebbe abbandonato, se non avesse obbedito. Cedette. “E sia. A bordo, tutti quanti! Abbassate le armi!”
Gli uomini obbedirono e si allontanarono, lieti di sfuggire all’ira del sacerdote. Blackthorne, stordito, si domandava se la sua testa non lo ingannasse. E in quel momento, nella confusione, l’odio di Pesaro esplose. Prese la mira. Dell’Aqua scorse il gesto e si lanciò avanti per riparare Blackthorne con la sua mole. Pesaro schiacciò il grilletto, ma in quello stesso istante una pioggia di frecce lo trafisse e egli cadde urlando, mentre lo sparo finiva nel vuoto.
Blackthorne si girò e vide sei arcieri di Kiyama con le frecce già incoccate negli archi. Accanto a loro stava Michele. L’ufficiale giapponese parlò duramente. Pesaro si contorse e con un ultimo grido morì.
Michele tremava, nel prendere la parola. “L’ufficiale dice di scusare, ma ha temuto per la vita del padre visitatore.” Michele stava pregando Dio di perdonarlo per aver dato il segnale di tirare. Ma Pesaro era stato avvertito, si disse, e il mio dovere è di far obbedire agli ordini del padre visitatore, di proteggere la sua vita, di eliminare gli assassini e di non vedere nessuno scomunicato.
Dell’Aqua era in ginocchio accanto al corpo di Pesaro. Pronunciando le formule benedette, tracciò il segno della croce. I portoghesi osservavano i giapponesi, smaniosi di uccidere gli assassini. Gli altri uomini di Kiyama accorrevano dalla Missione, dove erano rimasti in attesa e molti Grigi stavano sopraggiungendo dalla loro postazione presso la galea, per indagare sugli avvenimenti. Nonostante la rabbia che lo accecava, Ferriera comprese di non poter sostenere uno scontro, in quel momento e in quel luogo.
“Tutti a bordo! E prendete il corpo di Pesaro!”
Blackthorne, intontito, abbassò la spada, sempre tenendola sguainata. Rodrigues, sul cassero, ordinò calmo: “Attenti a respingere chi volesse salire a bordo, ma attenzione, per amor di Dio!” Subito gli uomini corsero ai loro posti. “Coprite il capitano-generale! Preparate la scialuppa…”
Dell’Aqua si rialzò e si volse a Ferriera, che si teneva pronto con arroganza a difendere la nave. “Siete voi il responsabile di questa morte!” gli ringhiò fra i denti. “Con la vostra fanatica smania di vendetta e…”
“Prima che diciate in pubblico qualcosa di cui potreste pentirvi, Eminenza, pensateci su,” lo interruppe Ferriera. “Ho ceduto al vostro ordine, pur sapendo, Dio mi è testimone, che commettete un terribile sbaglio. Mi avete sentito ordinare agli uomini di ritirarsi! Pesaro ha disobbedito a voi, non a me e la verità è che ne siete responsabile voi, e voi soltanto. Voi avete impedito a lui e a noi di compiere il nostro dovere. Quell’ingeles è un nemico! E perdio era una questione militare! Ne informerò Lisbona.” Con lo sguardo controllava i preparativi della nave e l’avvicinarsi dei samurai.
Rodrigues si era accostato alla passerella. “Capitano-generale, non posso prendere il mare con questo vento e questa corrente.”
“Preparate la scialuppa per rimorchiarci, se è necessario.”
“Lo stiamo facendo.”
Ferriera gridò di sbrigarsi agli uomini che trasportavano il cadavere di Pesaro e in fretta tutti risalirono a bordo. I cannoni, sia pure in modo poco visibile, erano pronti e ogni uomo aveva due moschetti accanto a sé. I samurai si erano raggruppati sulla banchina, ai due lati della nave, ma nessuno intervenne. Prima di risalire a bordo, Ferriera si volse a Michele, in tono di comando: “Dite a tutti quanti di andarsene! Non c’è nessun problema qui… non hanno niente da fare. È stato uno sbaglio, grave, ma avevano il diritto di colpire il nostromo. Ditegli di andarsene.” Odiò se stesso nel pronunciare quelle parole e li avrebbe volentieri sterminati tutti, ma fiutava il pericolo nell’aria e non poteva che ritirarsi.
Michele obbedì, ma gli ufficiali non si allontanarono.
“Meglio che ve ne andiate, eminenza,” osservò amaro Ferriera. “Però non finirà qui… rimpiangerete di averlo salvato!”
Anche Dell’Aqua avvertiva la tensione minacciosa tutt’intorno, ma non ne era turbato. Tracciò il segno della croce, pronunciò una benedizione e si voltò. “Venite, pilota!”
“Perché mi lasciano andare?” domandò Blackthorne, ancora incapace di crederci, e torturato dal dolore alla testa.
“Venite, pilota!”
“Perché mi lasciano andare? Non capisco.”
“Nemmeno io,” ribatté Ferriera. “Anch’io vorrei sapere la ragione vera, Eminenza. Non rappresenta forse ancora un pericolo per noi e per la Chiesa?”
Dell’Aqua lo fissò. Sì, avrebbe voluto rispondere, per spegnere l’arroganza di quella faccia di bellimbusto, ma la guerra è un pericolo maggiore e bisogna guadagnare tempo per te e per cinquanta anni di Navi Nere, e bisogna scegliere fra Toranaga e Ishido. Tu non capisci niente dei nostri problemi. Ferriera, né delle poste in gioco, e della delicatezza della nostra posizione qui, né dei suoi pericoli.
“Prego, Nobile Kiyama, riprendete in esame la situazione. Io vi consiglierei di scegliere il Nobile Toranaga,” aveva detto il giorno prima al daimyo, usando come interprete Michele, perché non si fidava del proprio giapponese, appena discreto.
“Questa è un’interferenza indebita nelle questioni giapponesi. È fuori della vostra giurisdizione. E il barbaro deve morire.”
Dell’Aqua era ricorso a tutta la propria abilità diplomatica, ma Kiyama era rimasto sulle sue decisioni, rifiutando di impegnarsi o di cambiare. Poi, quella mattina stessa, egli si era recato da Kiyama per dirgli che grazie a Dio. l’ingeles era neutralizzato e una lieve speranza si era presentata.
“Ho riflettuto sulle vostre parole,” aveva dichiarato Kiyama. “Non mi alleerò con Toranaga. Nel periodo fra oggi e il giorno della battaglia osserverò molto attentamente entrambi i contendenti e al momento giusto sceglierò. E adesso acconsento a lasciar andare il barbaro… non per quanto mi avete detto voi, ma per rendere onore alla Nobile Mariko, e perché l’Anjin-san è un samurai…”
Ferriera lo stava fissando. “Non è ancora un pericolo, l’ingeles?”
“Fate buon viaggio, capitano-generale, e veloce. Pilota, vi accompagno alla vostra galea… State bene?”
“È… la mia testa… per via dell’esplosione… Davvero mi lasciate andare? Perché?”
“Perché la Nobile Maria, la Nobile Mariko, ci ha chiesto di proteggervi.” Dell’Aqua si incamminò.
“Ma questa non è una ragione! Non lo fareste soltanto perché lei ve l’ha chiesto.”
“Questo è certo,” esclamò Ferriera. E a voce alta: “Eminenza, perché non gli dite tutta la verità?”
Dell’Aqua non si fermò. Blackthorne cominciò a muoversi, senza però voltare le spalle alla nave, ancora aspettandosi un attacco a tradimento.
Sapete bene che vi distruggerò, che vi strapperò la Nave Nera… ”
Ferriera rise con disprezzo. “Con che cosa, ingeles? Non avete più nave!”
“Che intendete dire?”
“Non avete più la nave. È morta. Se non fosse così, non vi lascerei mai andare, qualunque cosa dicesse sua eminenza.”
“Non è vero!”
Attraverso una nebbia Blackthorne sentì Ferriera ripeterglielo e ridere forte, aggiungendo qualcosa su un incidente e la mano di Dio, e.“la vostra nave è bruciata fino alla carcassa, così non toccherete più la mia, adesso, anche se siete sempre un nemico, un eretico e un pericolo per la Fede.” Poi scorse Rodrigues chiaramente: sul suo viso c’era la pietà e le labbra dicevano: “È vero, ingeles.”
“Non è vero, non può essere vero.” E da mille leghe di distanza gli giunse la voce dell’inquisitore che diceva: “Ho ricevuto un messaggio stamattina da padre Alvito. A quanto pare un terremoto ha provocato una grande ondata, che…”
Blackthorne non l’ascoltava più. Il suo animo gridava: la tua nave è morta! tu l’hai abbandonata e lei è morta! Non hai più nave, più nave, più nave…
“Non è vero! Mentite! La mia nave è in un porto sicuro, custodita da quattromila uomini. È salva!”
Qualcuno esclamò: “Ma non dalla mano di Dio,” e poi di nuovo sentì l’inquisitore: “L’ondata ha travolto la nave. Dicono che le lanterne sul ponte si sono rovesciate e hanno appiccato il fuoco. La nave è affondata…”
“Menzogne! E la guardia sul ponte? C’è sempre la guardia! È impossibile!” urlò, ma capì che, in qualche modo, la nave era stata il prezzo della sua vita.
“Siete a terra, ingeles’’ insisteva Ferriera, malvagiamente. “In secca. Resterete qui per sempre, perché non troverete mai un passaggio su una nostra nave. Siete a terra per sempre…”
Gli sembrava di affogare. Ma infine gli si schiarì la vista, udì le strida dei gabbiani, gli giunse l’odore della spiaggia e vide bene in faccia Ferriera, il suo nemico, e capì che era una menzogna, congegnata per farlo impazzire. Lo sapeva con assoluta certezza, e i preti entravano anche loro nella congiura. “Che Dio vi scaraventi all’inferno!” urlò a Ferriera e gli si gettò contro con la spada alzata. Ma delle mani salde lo trattennero senza sforzo, gli tolsero le spade e lo fecero camminare in mezzo a due Grigi fino alla galea. Là gli restituirono le spade e lo lasciarono andare.
Gli era difficile vedere e ascoltare, il cervello torturato dal dolore, ma era sicuro che lo imbrogliassero per farlo impazzire e che se non si fosse opposto con tutte le sue forze, ci sarebbero riusciti. Che qualcuno mi aiuti, pregò dentro di sé. E a un tratto gli furono accanto Yabu e Vinck e i suoi vassalli, ed egli non poteva distinguere le lingue che parlavano. Lo guidarono a bordo, e c’erano Kiri e Sazuko, e un bambino che piangeva fra le braccia della cameriera, e tutti i Marroni rimasti, che affollavano il ponte insieme ai rematori e ai marinai.
Odore di sudore e di paura. Yabu gli parlava. E Vinck. Gli occorse un lungo tempo per concentrarsi. “Pilota, in nome di Cristo, perché ti hanno lasciato andare?”
“Io… loro…” non riusciva a pronunciare quelle parole.
Senza sapere come si trovò sul cassero, con Yabu che ordinava al capitano-san di salpare prima che Ishido cambiasse idea sulla loro partenza, o i Grigi sulla banchina a loro volta cambiassero idea. A tutta velocità a Nagasaki… e Kiri pregava, scusate, Yabu-sama, prima a Yedo, dobbiamo andare a Yedo…
I remi puntarono contro il molo e avviarono la nave contro il vento, contro la corrente, inseguita dai gabbiani stridenti e Blackthorne finalmente si strappò dall’intontimento quanto bastava per dire: “No. Andate a Yokohama. Devo andare a Yokohama.”
“Prima a Nagasaki, a raccogliere gli uomini, ne? Anjin-san, capite? È importante. Prima gli uomini. Ho un piano,” insisteva Yabu.
“No. A Yokohama. La mia nave… la nave è in pericolo.”
“Quale pericolo?” chiese Yabu.
“I cristiani… dicono… incendio!”
“Come!?”
“Per amor di Dio, pilota, che cosa è successo?” gemette Vinck.
Con mano tremante Blackthorne indicò il lorcha. “Mi hanno detto… hanno detto che l’Erasmus è perduto, Johann. La nostra nave è perduta… incendiata.” Poi gridò: “Oh, Dio, fa’ che sia una menzogna!”