15

Nel più profondo silenzio Blackthorne si levò in piedi. “Confessati, figlio mio, in fretta!”

“lo… non credo… io…” Si rese conto, nell’ottundimento del suo spirito, di parlare inglese, perciò strinse le labbra e cominciò ad allontanarsi. Il frate arrancò dietro di lui, supponendo che avesse parlato in olandese o in tedesco, e lo prese per un polso.

“Svelto, señor. Ti darò l’assoluzione. Fai presto, per la tua anima immortale. Parla in fretta, basta che confessi davanti a Dio tutto quanto nel passato e nel presente…”

Si stavano avvicinando alla porta di ferro e il frate lo teneva con una forza che sbalordì Blackthorne.

“Dillo subito! La santa Vergine ti proteggerà!”

Blackthorne strappò il braccio dalla sua stretta e con voce rauca esclamò in spagnolo: “Vai con Dio, padre.”

La porta sbatté alle sue spalle.

La giornata era incredibilmente dolce e fresca, le nubi vagavano sparse nel bel vento di sudest.

L’inglese inspirò a boccate profonde la deliziosa aria pulita e il sangue gli corse più veloce nelle vene. La gioia di vivere lo travolse.

Parecchi prigionieri nudi erano nel cortile, insieme a un funzionario, a dei secondini con le lance, ad alcuni eta e a un gruppo di samurai. Il funzionario indossava un chimono scuro, una casacca con spalline rigide ad aletta e un piccolo cappello scuro. Ritto davanti al primo prigioniero lesse quanto era scritto su un leggero rotolo e quando finì gli uomini cominciarono a camminare ognuno dietro al proprio gruppo di carcerieri verso il portone della prigione. Blackthorne era l’ultimo. Gli diedero, diversamente che agli altri, un perizoma, un chimono di cotone e degli zoccoli. E le sue guardie erano dei samurai.

Aveva deciso di tentare la fuga nel momento in cui avesse superato il portone, ma quando si avvicinò alla soglia i samurai lo circondarono più da vicino, stringendolo fra di loro. Raggiunsero il portone tutti insieme. Una grande folla era raccolta a guardare, pulita e vivace, con ombrellini rossi, gialli e dorati. Un uomo già era stato legato alla croce, che stavano innalzando nel cielo. E accanto a ogni croce attendevano due eta, con le lunghe lance scintillanti.

Blackthorne rallentò il passo. I samurai gli si strinsero addosso, costringendolo ad affrettarsi ed egli pensò confusamente che sarebbe stato meglio morire in quel momento, alla svelta, tanto che preparò la mano per afferrare la spada più vicina. Ma non portò a termine la sua decisione perché i samurai si allontanarono dalla piazza, avviandosi verso il perimetro esterno e le strade che portavano alla città e al castello.

Blackthorne aspettò, senza il coraggio quasi di respirare, per essere ben sicuro. Attraversarono la folla, che indietreggiò inchinandosi, poi infilarono una strada e non ci fu più possibilità di errore.

Blackthorne si sentì rinato. Quando riuscì a parlare, chiese: “Dove andiamo?” senza curarsi di non essere capito o di aver parlato in inglese. Aveva la testa molto leggera, quasi non toccava terra nel camminare, gli zoccoli non erano scomodi, e la sensazione insolita del chimono non era spiacevole. Anzi, ci si sta bene, pensò. Passa un po’ d’aria, forse, ma in una giornata così bella… sarebbe proprio l’indumento adatto per stare in coperta!

“Perdio, è splendido parlare di nuovo inglese!” disse ai samurai. “Cristo Gesù, credevo d’essere già morto! Se n’è andata la mia ottava vita. Lo sapete, amici? Adesso me ne resta solo una. Ma non importa! I piloti hanno almeno dieci vite, diceva sempre Alban Caradoc.” I samurai sembravano irritati da quelle sue frasi incomprensibili. Trattieniti, si ammonì. Non renderli più permalosi di quanto già sono.

Si accorse allora che i samurai erano tutti Grigi, uomini di Ishido. Aveva domandato a padre Alvito il nome dell’uomo che si opponeva a Toranaga, e Alvito aveva risposto: “Ishido.” Proprio un attimo prima che gli ordinassero di alzarsi per condurlo via. Tutti i Grigi sono uomini di Ishido? E tutti i Marroni di Toranaga?

“Dove andiamo? Là?” e indicò il castello che incombeva sulla città. “Là, hai?”

Hai.” Il capo annuì con la testa tonda come una palla di cannone.

Che cosa vuole Ishido da me? si chiese Blackthorne.

Il capo girò in un’altra via, allontanandosi sempre più dal porto. E allora lo scorse: un piccolo brigantino portoghese, con la bandiera bianca e azzurra sventolante al sole. Dieci cannoni sul ponte principale, con pezzi da venti a prua e a poppa. L’Erasmus lo batterebbe facilmente, si disse Blackthorne. Che ne sarà dei miei uomini? Che faranno laggiù al villaggio? Per il sangue di Cristo, mi piacerebbe rivederli! Ero così contento di lasciarli quel giorno e tornare a casa mia dove Onna — Haku — stava… la casa di… come si chiamava? Mura-san, ecco. E cosa sarà stato della ragazza nel mio letto sul pavimento, e di quell’altra, quell’angelo di bellezza che parlava con Omi-san? Quella che mi è apparsa in sogno e che entrava anche lei nel calderone.

Ma perché ripensare a quegli incubi? Mi indebolisce la mente. “Devi avere la mente molto salda per vivere con il mare,” aveva detto Alban Caradoc. Povero Alban!

Alban Caradoc era apparso per tanti anni così grande e simile agli dei, onniveggente, onnisciente. Ma era morto nel terrore. Era avvenuto al settimo giorno della guerra contro l’Armada. Blackthorne portava fuori da Portsmouth una tartana armata di uncini, da cento tonnellate, con armi, polvere, munizioni e rifornimenti per i galeoni da guerra di Drake al largo di Dover, che si affrettavano incontro alla flotta nemica. Essa stava percorrendo la Manica verso Dunkerque, dove le armate aspettavano di essere trasbordate per conquistare l’Inghilterra.

La grande flotta spagnola era stata distrutta dalle burrasche e dalle navi da guerra più cattive, più agili e più maneggevoli mai costruite da Drake e Howard.

Blackthorne si era trovato in un turbinoso assalto vicino alla nave ammiraglia di Howard, la Renown, quando il vento era cambiato, raggiungendo forza burrasca, con ondate terribili, e aveva dovuto decidere se cercare di dirigersi sopravvento per sfuggire alla bordata in arrivo dal grande galeone Santa Cruz che gli stava proprio davanti, o fuggire attraverso la squadra nemica; il resto delle navi di Howard già avevano virato, dirigendosi più a nord.

“A nord sopravvento!” aveva urlato Alban Caradoc. Si era imbarcato come secondo in comando. Blackthorne era pilota-maggiore, responsabile, ed era al suo primo comando. Alban Caradoc aveva insistito per venire alla battaglia, anche se non aveva nessun diritto di salire a bordo, se non in quanto era inglese e tutti gli inglesi avevano il diritto di salire a bordo nel momento più cupo della loro storia.

“Basta così, laggiù!” aveva ordinato Blackthorne, girando verso sud la barra del timone. Si era infilato nelle fauci della flotta nemica, sapendo che l’altra manovra li avrebbe messi sotto il fuoco del galeone che ora torreggiava su di loro.

Così erano filati a sud, correndo davanti al vento, attraverso i galeoni. Le cannonate della Santa Cruz gli erano passate sopra la testa e lui aveva scaricato due bordate contro di lei, morsi di pulce per un vascello così enorme, e poi si era trovato a filare veloce al centro della flotta nemica. I galeoni avevano preferito non mirare contro quella nave solitaria, perché con le loro bordate avrebbero potuto danneggiarsi a vicenda e i cannoni avevano taciuto. La sua nave era già passata e in fuga, quando la Madre de Dios l’aveva colpita. Tutti e due gli alberi erano partiti come frecce, insieme agli uomini impastoiati nel sartiame. Metà del ponte di tribordo era scomparsa.

Aveva visto Alban Caradoc giacere presso un cannone semidistrutto, e gli era apparso incredibilmente piccolo, ridotto senza gambe. Aveva abbracciato il vecchio a cui gli occhi quasi uscivano dalla testa e che urlava orrendamente. “Oh, Cristo! Non voglio morire, non voglio morire, aiutami, aiutami, aiutami, oh, Gesù Cristo, il dolore, aiuto!” Blackthorne capì che c’era una sola cosa da fare per aiutare Alban Caradoc. Raccolse un cavicchio e colpì con tutte le forze.

Poi, dopo alcune settimane, aveva dovuto annunciare a Felicity che suo padre era morto. Le disse soltanto che era rimasto ucciso all’istante. Non le disse di avere sulle mani del sangue che non sarebbe mai scomparso…

Adesso stavano percorrendo un’ampia strada a curve. Non c’erano negozi, solo case, una accanto all’altra, ognuna con della terra intorno e alti recinti, e case e recinti, e la strada stessa, erano mirabilmente puliti.

Quella pulizia appariva incredibile a Blackthorne, perché a Londra e nelle cittadine inglesi — e europee — avanzi di cibo e urina e escrementi venivano gettati nelle strade, perché qualcuno li spazzasse via oppure si accumulassero, finché pedoni e carri e cavalli non potevano più passare. Solo allora in genere la città si ripuliva. Gli spazzini di Londra erano delle grandi orde di maiali, che durante la notte venivano condotte lungo le strade principali. Ma a ripulire Londra erano soprattutto i topi, i gatti, i cani randagi e gli incendi. E le mosche.

Osaka appariva così diversa. Come ci riescono? si chiese. Niente buche, niente mucchi di sterco equino, niente solchi di ruote, né sudiciume o rifiuti di alcun genere. Soltanto terra ben battuta, pulita e spazzata. Muri di legno e case di legno, lucenti e pulite. E dov’erano gli ammassi di mendicanti e di storpi che infestavano tutte le città cristiane? E le bande di ladroni e di giovani scatenati che là inevitabilmente si annidavano nell’ombra?

Le persone che incontravano si inchinavano gentilmente, e qualcuno si inginocchiava. I portatori si affrettavano con i palanchini o con i kaga a un solo passeggero. Gruppi di samurai — Grigi, mai Marroni — circolavano con noncuranza per le vie.

Stavano percorrendo una strada fiancheggiata da negozi, quando le gambe gli cedettero. Inciampò pesantemente e cadde. I samurai lo aiutarono a rialzarsi, ma la sua forza, almeno per il momento, era scomparsa del tutto e Blackthorne non poteva continuare.

“Gomen nasai, dozo ga matsu.” Mi dispiace, vi prego, aspettate, disse, sentendo le gambe intorpidite. Si massaggiò i muscoli accavallati del polpaccio e mandò una benedizione a frate Domingo per quanto gli aveva insegnato, che si rivelava di un valore inestimabile.

Il capo dei samurai lo guardò e gli fece un lungo discorso.

“Gomen nasai, nihon go ga hanase-masen” Mi dispiace, non parlo giapponese,” rispose Blackthorne, lentamente ma chiaramente. “Dozo, ga matsu.”

Ah! So desu, Anjin-san. Wakarimasu!“ esclamò l’uomo. Impartì un ordine breve e un samurai si affrettò per la via. Dopo alcuni minuti, Blackthorne si alzò e cercò di riprendere il cammino, ma il capo dei samurai gli disse: “Iyé!” e gli accennò di aspettare.

Ben presto l’uomo spedito via tornò insieme a quattro portatori seminudi con un kaga. Gli stessi samurai indicarono a Blackthorne in che modo doveva sdraiarvisi e tenersi attaccato alle cinghie che pendevano dal palo centrale.

Tutto il gruppo ripartì. Blackthorne riprese forza e avrebbe preferito camminare, ma sapeva di essere ancora troppo debole. Ho bisogno di riposo, pensò. Non ho riserve. Devo fare un bagno e mangiare. Mangiare del cibo vero.

Salirono un’ampia gradinata che congiungeva due strade ed entrarono in un’altra zona residenziale, vicino a un bosco di alti alberi, percorso da sentieri. Blackthorne provò un vivo piacere a trovarsi fuori dalle strade, su quel percorso morbido, che si allungava fra il verde.

Quando furono nel fitto del bosco, apparve un altro gruppo di una trentina di Grigi, uscito da una curva poco più avanti. Giunto alla loro altezza si fermò e dopo il consueto cerimonioso scambio di saluti fra i capi, tutti puntarono gli sguardi su Blackthorne. Ci fu un rapido colloquio poi, mentre si preparavano ad andarsene, i nuovi arrivati piombarono sui samurai che accompagnavano Blackthorne e il loro capo tranquillamente estrasse la spada e trafisse l’altro caposamurai. L’imboscata era stata così ben preparata e fu così improvvisa che tutti e dieci i samurai Grigi del primo gruppo morirono quasi nello stesso istante. Nessuno ebbe neppure il tempo di estrarre la spada.

I portatori erano caduti in ginocchio, atterriti, con la fronte nell’erba. Blackthorne era accanto a loro. Il samurai capitano, un tipo massiccio e panciuto, mandò due sentinelle alle estremità del sentiero, mentre gli altri raccoglievano le armi dei morti. In tutto questo tempo nessuno prestò attenzione a Blackthorne, finché lui cominciò a indietreggiare. Allora il capitano diede immediatamente un ordine sibilante, che significava, senza ombra di dubbio, che egli doveva restarsene dov’era.

A un altro ordine tutti i nuovi arrivati si strapparono di dosso i chimoni grigi, sotto i quali indossavano una collezione di stracci e di chimoni vecchi. Tutti si tirarono sul volto delle maschere, che già avevano appese al collo. Uno raccolse le divise grigie e scomparve nel bosco.

Devono essere banditi, pensò Blackthorne. Altrimenti, perché le maschere? Ma cosa vogliono da me?

I banditi chiacchieravano tranquilli fra loro, tenendolo d’occhio, mentre ripulivano le spade sui vestiti dei morti.

“Anjin-san? Hai?” Gli occhi del capitano rilucevano tondi e penetranti nei fori della maschera.

Hai,” rispose Blackthorne, sentendosi accapponare la pelle.

L’uomo puntò un dito a terra, indicandogli di non muoversi. “Wakarimasu ka?”

Hai.

Lo scrutarono da capo a piedi, poi una delle sentinelle — non più in divisa e mascherata — uscì dai cespugli per un attimo, a cento passi di distanza. Agitò una mano e scomparve. Immediatamente gli uomini circondarono Blackthorne, preparandosi ad andare via. Il capo posò lo sguardo sui portatori, che tremarono come cani davanti a un padrone crudele e affondarono ancor più la testa nell’erba.

Il capo abbaiò un ordine e i quattro alzarono lentamente la testa, increduli. Il comando fu ripetuto ed essi si inchinarono e indietreggiarono strisciando, poi balzarono in piedi e scomparvero nel sottobosco.

Il capo sorrise con disprezzo e fece segno a Blackthorne di avviarsi in direzione della città. Egli li seguì, senza speranza. Non era possibile fuggire.

Presso il margine del bosco si fermarono. Si udirono dei rumori davanti a loro e dalla curva apparve un gruppo di trenta samurai: Marroni e Grigi. I Marroni davanti, con in testa il capo in palanchino e qualche cavallo da carico dietro. Si arrestarono subito. I due gruppi presero posizione, a una settantina di passi l’uno dall’altro, osservandosi ostili. Il capo dei banditi avanzò nello spazio vuoto, muovendosi a scatti, e gridò rabbioso contro i samurai, indicando Blackthorne e poi il luogo dell’imboscata, dietro di sé. Sguainò la spada, levandola minaccioso ed evidentemente intimando ai samurai di andarsene.

Tutte le spade dei suoi uomini uscirono frusciando dai foderi. A un suo comando, un altro bandito si mise dietro Blackthorne, con l’arma alzata e pronta, e di nuovo il capo parlò agli avversari.

Per un momento non accadde niente, poi Blackthorne vide scendere dal palanchino il capo dei samurai e subito lo riconobbe: era Kasigi Yabu. Yabu replicò urlando al capo bandito, ma quello agitò furiosamente la spada, ordinandogli di sgombrare la strada. La sua invettiva si concluse con tono definitivo. Yabu diede un comando breve e caricò la spada levata lanciando un forte grido di battaglia. Zoppicava leggermente. I suoi uomini lo seguirono, e dietro caricarono, a poca distanza, i Grigi.

Blackthorne si lasciò cadere in terra, per evitare il colpo di spada che l’avrebbe tagliato a metà, ma il colpo era comunque mal calcolato e il capo dei banditi prese la fuga tra i cespugli, seguito dai suoi uomini.

Marroni e Grigi attorniarono Blackthorne, che si stava rialzando. Alcuni samurai inseguirono i banditi, altri corsero avanti per il sentiero e il resto si dispose in posizione di difesa. Yabu si fermò al margine del sottobosco, distribuì ordini imperiosi, poi tornò indietro adagio, zoppicando più marcatamente.

So desu, Anjin-san,” disse, col respiro un po’ affannoso.

So desu, Kasigi Yabu-san,” rispose Blackthorne usando la stessa frase che poteva significare, di volta in volta: “bene” o “davvero!” o “ma è la verità?” Indicò la direzione presa dai banditi in fuga. “Domo.” Si inchinò con garbo, da pari a pari, e mandò un’altra benedizione a frate Domingo. “Gomen nasai, nihon go ga hanase-masen.” Mi dispiace, non so parlare giapponese.

Hai,” disse Yabu, piuttosto impressionato, e aggiunse qualcos’altro che Blackthorne non capì.

Tsuyaka ga imasu ka?” chiese Blackthorne. Avete un interprete?

Iyé, Anjin-san. Gomen nasai.”

Blackthorne si sentì più a suo agio. Adesso poteva comunicare direttamente. Il suo vocabolario era molto scarso, ma era già un buon principio.

Oh, come vorrei avere un interprete! stava pensando Yabu. Per Budda! Vorrei tanto sapere che cosa è accaduto quando hai parlato con Toranaga, Anjin-san, che domande ti ha fatto e che cosa gli hai risposto, che cosa gli hai detto del villaggio e dei cannoni e del carico e della nave e della galea e di Rodrigu. Vorrei sapere ogni parola che è stata pronunciata, e dove sei stato e perché ti trovi qui adesso. Allora avrei un’idea di ciò che passa nella mente di Toranaga, dei suoi progetti. Allora potrei anche preparare quello che gli devo dire oggi. Invece così sono indifeso.

Perché Toranaga ha voluto vedere, immediatamente, appena arrivati, te e non me? Perché da quel momento a oggi non ho ricevuto da lui una parola né un ordine, salvo i consueti saluti d’obbligo e un: “Conto sul piacere di vedervi presto”? Perché mi ha mandato a chiamare proprio oggi? Perché il nostro incontro è stato rinviato due volte? A causa di qualcosa che gli hai detto tu, forse? O che gli ha detto Hiro-matsu? O è un ritardo normale, dovuto ai suoi tanti impegni?

Oh, certo, Toranaga, hai dei problemi quasi insormontabili da affrontare! L’influenza di Ishido giunge ovunque come un incendio. E sei già al corrente del tradimento del Nobile Onoshi? Sai che Ishido mi ha offerto la testa di Ikawa Jikkyu e la sua provincia, se io mi unisco subito a lui in segreto?

Perché mi hai mandato a chiamare proprio oggi? Quale buon kami mi ha portato qui in tempo per salvare la vita dell’Anjin-san, dandomi poi la delusione di non potergli parlare direttamente e neppure tramite un altro, in modo da scoprire la chiave del tuo segreto? Perché lo avevi imprigionato per farlo giustiziare? Perché Ishido lo vuole fuori dalla prigione? Perché i banditi hanno cercato di rapirlo per ottenere un riscatto? E da chi? E perché l’Anjin-san è ancora vivo? Quel bandito avrebbe potuto facilmente tagliarlo a metà.

Yabu notò sul viso di Blackthorne delle rughe profonde, che non aveva visto durante il loro primo incontro. Ha l’aria affamata, pensò. Sembra un cane inselvatichito. Ma non uno qualsiasi del branco… il capo del branco.

Oh, sì, pilota, darei mille koku per avere qui subito un interprete degno di fede. Io sarò il tuo padrone. Tu costruirai le mie navi e addestrerai i miei uomini. Devo manovrare Toranaga in qualche modo. Se non ci riesco, non importa; sarò più preparato nella mia prossima vita.

“Bravo cane!” disse Yabu a voce alta a Blackthorne, con un lieve sorriso. “Non ti serve altro che una mano ferma, qualche osso e qualche frustata. Ma prima ti consegnerò al Nobile Toranaga… dopo un bagno. Puzzi, pilota!”

Blackthorne non comprese le parole, ma intuì la loro cordialità e vide il sorriso di Yabu. Gli sorrise in risposta. “ Wakarimasen.” Non capisco.

Hai, Anjin-san.”

Il daimyo si girò a guardare il punto in cui erano scomparsi i banditi. Si mise le mani a coppa intorno alla bocca e gridò un ordine. Immediatamente tutti i Marroni tornarono da lui. Il capo dei Grigi, che stava piantato in mezzo al sentiero, richiamò i suoi. Nessuno dei banditi era stato catturato.

Quando il capitano dei Grigi si avvicinò a Yabu nacque una discussione, con grandi cenni verso il castello e la città. Erano evidentemente in disaccordo. Alla fine Yabu l’ebbe vinta, con la mano sulla spada, e fece segno a Blackthorne di salire sul palanchino.

I!” esclamò il capitano. Lui e Yabu cominciarono a squadrarsi e Grigi e Marroni si agitarono innervositi.

“Anjin-san desu shunjin Toranaga-sama…”

Blackthorne afferrava qualche parola, qua e là. Watakushi significava “io” e con l’aggiunta di hitachin, “noi”, shunjin “prigioniero”. A quel punto ricordò le parole di Rodrigues e scosse la testa, interrompendoli bruscamente. “Shunjin, iyé! Watakushi wa Anjin-san!”

I due uomini lo fissarono. Blackthorne ruppe il silenzio in un giapponese stentato, ben sapendo che le sue parole suonavano sgrammaticate e slegate, come quelle di un bambino, ma con la speranza di farsi intendere. “Io amico. Non prigioniero. Capite, prego. Amico. Mi spiace, amico vuole bagno. Bagno, capito? Stanco. Fame. Bagno.” Indicò il torrione del castello. “Andare là! Adesso, prego. Nobile Toranaga uno, Nobile Ishido due. Andare adesso.”

E dando un tono di autorità all’ultimo ima, si arrampicò goffamente sul palanchino e si abbandonò sui cuscini, lasciando i piedi di fuori.

Yabu scoppiò a ridere e tutti lo imitarono.

“Ah so, Anjin-sama!” gli rispose, con un inchino ironico.

Iyé, Yabu-sama, Anjin-san!” lo corresse allegramente Blackthorne. Sì, bastardo, adesso due o tre cose le so. Ma non mi sono dimenticato di te. E presto camminerò sulla tua tomba.