13

Quella notte Toranaga non riusciva a dormire. Era un avvenimento eccezionale, perché di solito era capace di rinviare al giorno seguente anche i problemi più urgenti, conscio che il giorno seguente, se fosse stato vivo, li avrebbe risolti al meglio delle sue capacità. Da lungo tempo sapeva che un sonno tranquillo può fornire una risposta a quasi tutti i dilemmi. E se non era così, che importava in fondo? La vita non era forse una goccia di rugiada in una goccia di rugiada?

Ma quella notte aveva troppe domande su cui meditare, che lo lasciavano perplesso.

Che farò con Ishido?

Perché Onoshi è passato al nemico?

Come mi devo comportare con il Consiglio?

Ci si sono di nuovo immischiati i preti cristiani?

Da che parte verrà il prossimo tentativo di assassinio?

Quando sarà il momento di occuparmi di Yabu?

E che fare con il barbaro?

Diceva la verità?

Strano che il barbaro sia uscito dai mari orientali proprio in questo momento. È un presagio? Toccherà forse al suo karma essere la scintilla che accende le polveri?

Karma era una parola indiana che i giapponesi avevano adottato e faceva parte della filosofia buddista: si riferiva al destino di un individuo in questa vita, il destino immutabile fissato per lui dalle azioni compiute in una vita precedente, di cui quelle buone davano una posizione migliore nella vita presente, quelle cattive una peggiore. Allo stesso modo le azioni di questa vita avrebbero influito sulla prossima reincarnazione. Un individuo continuava a rinascere in questo mondo di dolore fino a quando, dopo aver sopportato e sofferto e imparato attraverso molte reincarnazioni, giungeva infine alla perfezione e al nirvana, il luogo della Pace Perfetta, da cui non si dovrà più tornare a soffrire la reincarnazione.

Strano che Budda o qualche altro dio o forse solo il karma avesse portato l’Anjin-san proprio nel feudo di Yabu. Strano che fosse sbarcato proprio nel villaggio in cui Mura, capo segreto dello spionaggio dell’Izu, si era sistemato tanti anni prima sotto il naso del Taikō e del sifilitico padre di Yabu. Strano che Tsukku-san si trovasse a fare da interprete qui a Osaka e non a Nagasaki, dove si sarebbe normalmente trovato. E che anche il sacerdote capo dei cristiani fosse a Osaka, e anche il capitano-generale dei portoghesi. Strano che il pilota Rodrigues fosse pronto a condurre Hiro-matsu ad Anjiro in tempo per catturare il barbaro vivo e impadronirsi dei cannoni. E poi c’è anche Kasigi Omi, il figlio dell’uomo che mi darà la testa di Yabu, se appena alzo un dito.

Com’è splendida la vita e com’è triste! Come fuggevole, senza passato e senza futuro. Solo un infinito presente.

Toranaga sospirò. Una cosa è certa: il barbaro non se ne andrà mai, né vivo né morto. Appartiene al regno per sempre.

Le sue orecchie afferrarono un suono quasi impercettibile di passi e la spada fu subito pronta. Ogni notte cambiava stanza da letto, guardie e parola d’ordine, a caso, per proteggersi dagli assassini sempre in agguato. I passi si fermarono fuori dallo shoji, poi gli giunse la voce di Hiro-matsu e l’inizio della parola d’ordine: “Se la Verità è già chiara, a che scopo meditare?”

“E se la Verità è nascosta?” rispose Toranaga.

“È già chiara,” rispose a sua volta, come concordato, Hiro-matsu. La citazione era tolta da Saraha, l’antico maestro di buddismo tantra. “Entra.”

Solo dopo aver constatato che si trattava veramente del suo consigliere, Toranaga ripose la spada. “Siediti.”

“Ho sentito che non dormivate. E ho pensato che forse avevate bisogno di qualcosa.”

“No, grazie.” Toranaga osservò le rughe profonde intorno agli occhi del vecchio. “Sono contento di vederti qui, mio vecchio amico.” “Siete sicuro di stare bene?” “Oh, sì.”

“Allora vi lascio. Scusate se vi ho disturbato, padrone.” “No, entra, ti prego, sono contento che tu sia qui. Siediti.” Il vecchio si mise a sedere accanto alla porta, con la schiena rigida. “Ho raddoppiato la guardia.” “Bene.”

Dopo un po’, Hiro-matsu disse: “A proposito di quel pazzo, tutto è stato compiuto secondo i vostri ordini. Tutto.” “Grazie.”

“Sua moglie… appena saputa la sentenza, mia nipote mi ha chiesto il permesso di uccidersi, per accompagnare suo marito e suo figlio nel Grande Vuoto. Le ho negato il permesso e le ho ordinato di aspettare la vostra approvazione.” Hiro-matsu sanguinava in cuor suo. Com’è terribile la vita!

“Hai agito bene.”

“Io vi chiedo formalmente il permesso di porre termine alla mia vita. Il suo gesto vi ha messo in pericolo mortale, ma la colpa è stata mia. Avrei dovuto scoprire la sua debolezza. Ho mancato verso di voi.”

“Tu non puoi fare seppuku.”

“Vi prego. Ve ne chiedo formalmente il permesso.”

“No. Sei necessario vivo.”

“Vi obbedirò. Ma, vi prego, accettate le mie scuse.” “Le tue scuse sono accettate.”

Ci fu un lungo silenzio, poi Toranaga chiese: “Che mi dici del barbaro?”

“Molte cose, signore. Primo: se oggi non aveste dovuto aspettare il barbaro, fin dall’alba sareste stato a caccia col falco, e Ishido non vi avrebbe mai immischiato in quel disgustoso incontro. Adesso non avete altra scelta che dichiarargli guerra… ammesso che possiate uscire da questo castello e tornare a Yedo.”

“Secondo?”

“E terzo e quarantatreesimo e centoquarantatreesimo? Io sono ben lontano dal possedere la vostra intelligenza, Nobile Toranaga, ma perfino io ho capito che non tutto quello che ci hanno fatto credere i barbari meridionali è vero.” Hiro-matsu era lieto di parlare. Lo aiutava a lenire la sofferenza. “Ma se esistono due religioni cristiane, che si odiano a vicenda, e se i portoghesi fanno parte di una più grande nazione spagnola e il paese di questo nuovo barbaro — comunque si chiami — è in guerra con portoghesi e spagnoli e li sconfigge, e se quel paese è una nazione formata da isole come la nostra e se — il grande ‘se’ di tutto questo — lui ha detto la verità e il prete ha riferito con fedeltà ciò che lui diceva… Ebbene, mettendo insieme tanti ‘se’, voi potete trarne un senso e studiare un piano. Io non ne sono in grado, mi dispiace. Io so solo quello che ho visto ad Anjiro e a bordo della nave. Che l’Anjin-san possiede una mente forte, anche se al momento il suo fisico è debole, probabilmente per il lungo viaggio, e che sul mare è padrone. Non capisco niente di lui. Come può avere queste doti eppure permettere a un altro di pisciargli sulla schiena? Perché ha salvato la vita a Yabu, dopo quello che gli aveva fatto, e insieme ha salvato la vita del suo nemico semiconfesso, il portoghese Rodrigu? Mi gira la testa con tante domande, come se fossi ubriaco di sakè.” Hiro-matsu tacque a lungo. Si sentiva molto stanco. “Ma credo che dovremmo trattenerlo a terra, e con lui gli altri come lui, se ne verranno, e ammazzarli molto rapidamente.”

“Che ne dici di Yabu?”

“Ordinategli di fare seppuku stanotte stessa.”

“Perché?”

“Non sa stare al suo posto. Voi avevate previsto come si sarebbe comportato al mio arrivo ad Anjiro. Era sul punto di derubarvi della vostra proprietà. Ed è un bugiardo. Non state a riceverlo domani, come stabilito, e invece lasciate che gli porti subito il vostro ordine. Prima o poi dovrete ucciderlo. Meglio adesso che è a portata di mano, senza vassalli intorno. Io vi consiglio di non tardare.”

Si udì un bussare lieve alla porta interna. “Tora-chan?”

Toranaga sorrise, come sempre, a quella particolarissima voce, e a quel particolarissimo diminutivo. “Sì, Kiri-san?”

“Mi sono presa la libertà di portare del cha per voi e il vostro ospite, signore. Posso entrare?”

“Sì.”

I due uomini ricambiarono l’inchino. Kiri chiuse la porta e si diede da fare con le tazze. Aveva cinquantatré anni ed era la matrona delle dame di palazzo di Toranaga. Si chiamava Kiritsubo-noh-Toshiko, detta Kiri, la più anziana delle dame. I capelli erano spruzzati di grigio, la vita larga, ma il suo viso era illuminato sempre dalla gioia. “Non dovreste vegliare a quest’ora della notte, Tora-chan! Presto sarà l’alba e immagino che andrete sulle colline con i vostri falchi, ne? Avete bisogno di dormire!”

“Sì, Kiri-chan!” Toranaga le diede un’affettuosa pacca sul didietro abbondante.

“Per piacere, niente Kiri-chan!” rise Kiri. “Sono vecchia e merito molto rispetto. Le altre vostre signore mi danno già abbastanza grattacapi. Ki-ritsubo-Toshiko-san, vi prego, mio Nobile Yoshi Toranaga-noh-Chikitada!”

“Lo vedi, Hiro-matsu, dopo vent’anni cerca ancora di spadroneggiare con me!”

“Scusate, ma sono più di trent’anni, Tora-sama,” rispose lei con orgoglio. “E allora eravate maneggevole quanto oggi!”

Toranaga sui vent’anni era stato ostaggio del dispotico Ikawa Tadazaki, signore di Suruga e Totomi, padre di Ikawa Jikkyu, il nemico di Yabu. Il samurai responsabile della buona condotta di Toranaga aveva appena preso come seconda moglie Kiritsubo, allora diciassettenne. Sia il samurai che sua moglie Kiri avevano trattato molto onorevolmente Toranaga, dandogli buoni consigli, e quando poi Toranaga si era ribellato a Tadazaki, unendosi a Goroda, lo avevano seguito con molti guerrieri e avevano combattuto coraggiosamente al suo fianco. Poi battendosi per conquistare la capitale, il marito di Kiri era morto. Toranaga le aveva chiesto di diventare una delle sue concubine e lei aveva accettato con piacere. A quei tempi non era grassa, ma altrettanto materna e saggia. Lei aveva diciannove anni e lui ventiquattro, e da allora in poi Kiri era stata una delle colonne della sua casa che dirigeva ormai da anni senza problemi.

Come può essere senza problemi una casa dove ci sono delle donne, pensò Toranaga.

“Stai diventando grassa,” commentò, indifferente alla cosa.

“Nobile Toranaga! Davanti al Nobile Toda! Oh, perdonate, dovrò fare seppuku… o almeno radermi la testa e farmi monaca, e io che mi credevo giovane e snella!” Scoppiò a ridere. “In realtà ammetto di avere un grosso sedere, ma come rimediare? Mi piace mangiare e questo è un problema di Budda e il mio karma, ne?” Offrì il cha. “Ecco, adesso me ne vado. Volete che vi mandi la Nobile Sazuko?”

“No, mia premurosa Kiri-san, no, grazie. Parleremo ancora un poco e poi dormirò.”

“Buonanotte, Tora-sama. Un dolce sonno senza sogni.” Si inchinò a lui e a Hiro-matsu e scomparve. Sorseggiarono il tè con gusto.

“Mi dispiace che Kiri-san e io non abbiamo avuto un figlio. Una volta lo concepì, ma ha abortito. Mentre noi eravamo alla battaglia di Nagakudé,” osservò Toranaga.

La battaglia si era svolta subito dopo l’assassinio del dittatore Goroda, mentre il generale Nakamura — il futuro Taikō — cercava di consolidare il potere, riunendolo tutto nelle proprie mani. L’esito era ancora dubbio in quel momento, perché Toranaga appoggiava uno dei figli di Goroda, erede legittimo. Nakamura aveva attaccato Toranaga presso il villaggio di Nagakudé, ma le sue forze erano state sconfitte e messe in fuga ed egli aveva perso la battaglia. Toranaga si era abilmente ritirato, inseguito da un nuovo esercito, guidato per Nakamura da Hiro-matsu. Toranaga aveva evitato la trappola e si era rifugiato nelle sue province, con l’esercito intatto, pronto a riprendere i combattimenti. A Nagakudé erano morti cinquantamila uomini, di cui pochi erano di Toranaga. Saggiamente il futuro Taikō aveva interrotto la guerra civile con Toranaga, anche se alla fine l’avrebbe vinta. Nagakudé era stata la sola sconfitta del Taikō e Toranaga l’unico generale capace di batterlo.

“Sono lieto che non ci siamo mai scontrati in battaglia,” disse Hiro-matsu.

“Anch’io.” “Avreste vinto.”

“No. Il Taikō era il generale migliore e più saggio, l’uomo più intelligente che si sia mai visto.”

Hiro-matsu sorrise. “Sì. Tranne voi.”

“No, ti sbagli. Per quello diventai suo vassallo.”

“Mi dispiace che sia morto.”

“Anche a me.”

“E Goroda… era un uomo notevole. Tanti uomini degni scomparsi.”

Hiro-matsu senza avvedersene tormentava con le mani il fodero logoro della spada. “Dovreste muovere contro Ishido. Questo costringerà tutti i daimyo a scegliere una volta per tutte con chi schierarsi. Alla fine noi vinceremo la guerra e allora potrete sciogliere il Consiglio e diventare Shōgun.”

“Non cerco un tale onore,” ribatté Toranaga, in tono tagliente. “Quante volte devo dirtelo?”

“Perdonate, signore, lo so. Ma sento che sarebbe meglio per il Giappone.”

“Questo è tradimento.”

“Contro chi, signore? Contro il Taikō? È morto. Contro la sua volontà e il suo testamento? Non è che un pezzo di carta. Contro il ragazzo, Yaemon? Yaemon è il figlio di un contadino che ha usurpato il potere e l’eredità di un generale, di cui ha eliminato gli eredi legittimi. Noi eravamo alleati di Goroda, poi vassalli del Taikō, è vero. Ma entrambi sono ben morti.”

“Me lo consiglieresti se tu fossi uno dei reggenti?”

“No, ma non sono uno dei reggenti, e ne sono ben felice. Sono soltanto vostro vassallo. Io ho scelto un anno fa. E liberamente.”

“Perché?” Toranaga non gli aveva mai posto quella domanda.

“Perché siete un uomo vero, perché siete un Minowara e perché agite saggiamente. Quanto avete detto a Ishido era giusto: non siamo un popolo che si possa governare in commissione. Ci occorre un capo. Chi avrei dovuto scegliere fra i cinque reggenti? Il Nobile Onoshi? È molto saggio, sì, e un buon generale, ma è cristiano e zoppo e la sua carne è così divorata dalla lebbra che puzza a cinquanta passi di distanza. Il Nobile Sugiyama? È il daimyo più ricco e appartiene a una famiglia antica quanto la vostra, ma è un voltagabbana senza fegato e lo conosciamo entrambi da sempre. Il Nobile Kiyama? Saggio, coraggioso, grande generale, e un vecchio compagno d’armi. Ma anche lui è cristiano e secondo me in questo Paese degli Dei abbiamo già abbastanza divinità nostre senza bisogno di mostrarsi tanto superbi da adorarne una sola. Ishido? Detesto quel rampollo di contadini da quando lo conosco e l’unica ragione per cui non l’ho mai ucciso è che era il cane del Taikō.” La sua faccia coriacea si aprì in un sorriso. “Così vedete, Yoshi Toranaga-noh-Minowara, che non mi restava altra scelta.”

“E se io non seguissi il tuo consiglio? Se manovrassi il Consiglio dei reggenti, compreso lo stesso Ishido, e mettessi al potere Yaemon?”

“Qualunque cosa decidiate, sarà saggia. Ma tutti i reggenti vi vorrebbero morto, questa è la verità. Io sostengo calorosamente una guerra immediata. Immediata. Prima che vi isolino del tutto. O, più probabilmente, vi uccidano.”

Toranaga meditava sui suoi nemici. Erano potenti e numerosi.

Gli ci volevano tre settimane intere per tornare a Yedo, lungo la via del Tokaidō, la strada principale che seguiva la costa fra Yedo e Osaka. Andare per nave era più pericoloso, e forse più lungo, salvo con una galea che potesse viaggiare a dispetto del vento e delle maree.

Toranaga ripassò nella mente il piano che aveva già elaborato. Non ci trovava difetti.

“Ieri ho saputo in segreto che la madre di Ishido è in visita presso suo nipote a Nagoya,” disse e Hiro-matsu si fece subito attento. Nagoya era una grande città-stato, ancora non legata a nessuna fazione. “La dama dovrebbe essere ‘invitata’ dall’abate a visitare il tempio Johji. Per ammirare i ciliegi in fiore.”

“Immediatamente,” rispose Hiro-matsu. “Con un piccione viaggiatore.” Il tempio Johji era famoso per tre cose: il suo viale di ciliegi, lo zelo dei suoi monaci buddisti zen, e la sua dichiarata, incrollabile fedeltà a Toranaga, che, anni prima, aveva pagato la costruzione del tempio e poi aveva provveduto sempre alla sua conservazione. “I fiori non saranno più in piena fioritura, ma la madre di Ishido arriverà domani. Non dubito che la venerabile dama vorrà fermarsi qualche giorno. È un luogo così rasserenante. E anche suo nipote dovrebbe andarci, ne?

“No. Lei sola. Altrimenti ‘l’invito’ dell’abate sarebbe troppo evidente. Poi: manda un messaggio segreto e cifrato a mio figlio Sudara: Lascerò Osaka al momento stesso in cui il Consiglio concluderà questa sessione… entro quattro giorni. Fallo portare da una staffetta e confermalo domani con un piccione viaggiatore.”

La disapprovazione di Hiro-matsu apparve chiara sul suo viso. “Allora posso chiamare diecimila uomini subito? A Osaka?”

“No, quelli che abbiamo qui bastano. Grazie, mio vecchio amico. Credo che adesso dormirò.”

Hiro-matsu si alzò per uscire, poi, giunto sulla soglia, chiese: “Posso dare a mia nipote Fujiko il permesso di uccidersi?”

“No.”

“Ma Fujiko è una samurai, signore, e sapete cosa provano le madri per i figli. Il bambino era il suo primogenito.”

“Fujiko potrà avere molti figli. Quanti anni ha? Diciotto… non ancora diciannove. Le troverò un altro marito.”

Hiro-matsu scosse il capo. “Non lo accetterà. La conosco troppo bene. Il suo desiderio più ardente è cessare di vivere. Vi prego.”

“Rispondi a tua nipote che non approvo le morti inutili. Il permesso è rifiutato.”

Hiro-matsu si inchinò e si avviò per uscire.

“Quanto sopravviverà il barbaro in quella prigione?” chiese Toranaga. Hiro-matsu non si voltò. “Dipende dalla sua capacità di resistenza e di combattimento.”

“Grazie. Buonanotte, Hiro-matsu.” Quando fu sicuro di essere solo, chiamò piano: “Kiri-san?”

La porta interna si aprì, la donna entrò e si inginocchiò.

“Manda immediatamente un messaggio a Sudara: Tutto bene. Mandalo con i piccioni più veloci, tre allo stesso momento, all’alba. E ripeti l’invio a mezzogiorno.”

“Sì, signore.” Kiri se ne andò.

Uno passerà, pensò Toranaga. Almeno quattro cadranno per frecce, spie o falchi, ma il messaggio non significherà comunque niente per Ishido, a meno che non abbia scoperto il nostro codice.

Il codice era segretissimo, noto solo a quattro persone: il figlio maggiore, Noboru; il secondogenito e erede, Sudara; Kiri e lui stesso. Una volta decifrato, il messaggio diceva: Ignorate ogni altro messaggio. Mettete in esecuzione il piano cinque.. Il piano cinque, già predisposto, conteneva l’ordine di radunare immediatamente nella capitale Yedo tutti i capi del clan Yoshi e i loro consiglieri più fidati, e mobilitarsi per la guerra. L’espressione in codice per la guerra era “Cielo rosso”. Se lui fosse stato ucciso o fatto prigioniero, il Cielo rosso sarebbe stato inevitabile: un attacco immediato di fedelissimi contro Kyoto, condotto dal suo erede Sudara, con tutti i loro armati, per impadronirsi della città e dell’imperatore-marionetta. A quell’operazione si sarebbe unita l’insurrezione, segreta e meticolosamente calcolata, di cinquanta province, da anni preparate all’evento. Da lungo tempo erano già stati scelti tutti gli obiettivi, i passi, le città, i castelli, i ponti e armi, uomini e determinazione erano sufficienti a conquistare la vittoria. È un buon piano, pensò Toranaga, ma fallirà, se non lo guido io. Sudara fallirebbe. Non per mancanza di coraggio o di intelligenza, o a causa di qualche tradimento, semplicemente perché ancora non possiede cognizioni e esperienza sufficienti e non potrebbe trascinare con sé abbastanza daimyo fra quelli ancora non schierati. E anche perché il castello di Osaka e l’erede Yaemon gli bloccano la strada, inviolati, raccogliendo intorno a sé tutte le inimicizie e le gelosie che mi sono attirato in cinquantadue anni di guerre.

La guerra di Toranaga era cominciata quando lui aveva sei anni ed era stato inviato come ostaggio nel campo nemico, poi restituito, poi catturato da altri nemici e di nuovo dato in pegno e poi riscattato quando aveva dodici anni. A dodici anni aveva guidato vittorioso la sua prima pattuglia.

Tante battaglie, e nessuna perduta. Ma tanti nemici. Che adesso si andavano raccogliendo tutti insieme.

Sudara fallirebbe. Tu sei l’unico che possa vincere nel Cielo rosso, forse. Il Taikō lo potrebbe, senza alcun dubbio. Ma sarebbe meglio non dover scatenare il Cielo rosso.