9
Toccarono terra rapidamente. Blackthorne aveva intenzione di marciare in testa al gruppo, ma Yabu prese il suo posto e si avviò con un passo veloce, che l’inglese stentava a seguire. Gli altri sei samurai lo tenevano d’occhio con cura. Non ho dove scappare, idioti, pensava lui, fraintendendo quella premura, mentre con lo sguardo automaticamente misurava la baia, cercando fondali bassi o scogliere nascoste, e incamerando i dati nella mente per trascriverli in seguito.
Camminarono prima lungo la riva sassosa, poi salirono brevemente lungo rocce consunte dal mare fino a un sentiero che aggirava il colle e si snodava precariamente intorno al promontorio verso sud. La pioggia si era interrotta, ma il vento no. Più si avvicinavano alla lingua di terra esposta, più alti salivano gli spruzzi della risacca, rompendosi contro gli scogli sotto di loro. Presto furono inzuppati.
Blackthorne si sentiva gelare, ma Yabu e gli altri, con i chimoni infilati con noncuranza nella cintura, sembravano insensibili al freddo e all’umido. Dev’essere come ha detto Rodrigues, pensò con un po’ di paura. Non sono fatti come noi. Non sentono la fame, il freddo, le privazioni o le ferite come noi. Sono più simili agli animali, hanno il sistema nervoso attutito in confronto al nostro.
Sopra di loro il pendio era alto un’ottantina di metri; la riva era una quindicina di metri sotto. Al di là e tutt’intorno sorgevano dei monti e nella baia non si scorgevano né case né capanne. Cosa non sorprendente, dato che non esisteva posto per dei campi coltivati, e i sassi della riva diventavano rapidamente rocce e poi montagne di granito, con alberi sui pendii più alti.
Il sentiero scendeva e saliva, molto malsicuro, con una superficie irregolare. Blackthorne faticava, opponendosi al vento, e notò come le gambe di Yabu fossero robuste e muscolose. Scivola, bastardo figlio di puttana! pensò. Scivola, vai a fracassarti sulle rocce di sotto. Urleresti allora? Che cosa ti farebbe urlare?
Con uno sforzo distolse lo sguardo da Yabu e tornò a esaminare la riva in ogni crepaccio, gola e fenditura. Il vento soffiava con forza e gli faceva lacrimare gli occhi. Il mare batteva, avanti e indietro, ricadeva su se stesso e si ritirava. Blackthorne sapeva che la speranza di trovare Rodrigues era minima: c’erano troppe caverne e anfratti nascosti in cui non si sarebbe mai potuto cercarlo. Ma aveva sentito il dovere di venire a riva e tentare: era un debito verso Rodrigues. Tutti i piloti pregavano di morire a terra e d’essere sepolti a terra. Tutti avevano visto troppi cadaveri gonfiati dal mare e cadaveri semidivorati e semimutilati dai granchi.
Superarono il promontorio e si fermarono con piacere al riparo. Se il corpo non si trovava nella zona esposta al vento, era nascosto, o inghiottito, o già trascinato al largo, nelle profondità. A un mezzo miglio di distanza un piccolo villaggio di pescatori si annidava sulla riva imbiancata dalle spume marine. Yabu fece un cenno a due samurai, che subito si inchinarono e corsero avanti, verso il villaggio. Un ultimo sguardo, poi Yabu si asciugò la pioggia sul viso e guardò Blackthorne, indicandogli la via del ritorno. Blackthorne annuì e tutti ripresero il cammino, con Yabu in testa e gli altri samurai sempre attenti a vegliare sull’inglese. E di nuovo lui pensò che erano idioti.
A metà del cammino di ritorno videro Rodrigues.
Il corpo era stretto nella fenditura fra due grosse rocce, fuori dall’acqua, ma lambito dalle onde. Un braccio era steso in avanti, l’altro ancora agganciato al remo spezzato, che dondolava leggermente nel flusso e riflusso. Proprio quel movimento aveva attirato l’attenzione di Blackthorne, che seguiva Yabu curvandosi contro il vento.
L’unico modo per raggiungerlo era scendere lungo la bassa scogliera: quindici o venti metri, ma quasi a piombo, e senza punti d’appoggio. E la marea? si chiese Blackthorne. Sta salendo, e lo riporterà in mare. Gesù, è un bello schifo! Come fare?
Si avvicinò all’orlo del sentiero e subito Yabu lo seguì, scuotendo il capo, e gli altri samurai lo circondarono.
“Voglio solo guardare meglio, per amor di Cristo!” esclamò lui. “Non voglio scappare! Dove diavolo potrei andare?”
Indietreggiò leggermente e scrutò in basso. I giapponesi seguirono il suo sguardo e cominciarono a parlare fra loro. Più di tutti parlava Yabu.
Non c’è nessuna possibilità, decise Blackthorne. È troppo pericoloso. Torneremo all’alba con delle funi. Se sarà ancora lì, lo seppellirò a terra. Con riluttanza si voltò e in quell’istante un piccolo tratto del dirupo gli franò sotto i piedi ed egli cominciò a scivolare. Immediatamente Yabu e gli altri lo afferrarono e lo tirarono indietro e all’improvviso si rese conto che si preoccupavano soprattutto della sua salvezza. Vogliono solo proteggermi!
Perché mi vogliono sano e salvo? Per via di Torà… come si chiamava? Toranaga? A causa sua? Già, ma forse anche perché non c’è nessun altro a bordo in grado di pilotare la nave. Per questo mi hanno lasciato scendere a terra, mi hanno accontentato? Sì, dev’essere così. Dunque, adesso ho in mio potere la nave, il vecchio daimyo e anche questo bastardo. Come potrei sfruttare la situazione?
Si rilassò, li ringraziò e tornò a guardare di sotto. “Dobbiamo raccoglierlo, Yabu-san. Hai! E l’unica strada è questa, per la scogliera. Lo porterò su io, io Anjin-san!” Di nuovo avanzò accennando a scendere e di nuovo gli altri lo trattennero. Allora disse con finta ansietà: “Dobbiamo raccogliere Rodrigu-san. Guardate! C’è poco tempo, sta facendosi buio!”
““Iyé, Anjin-san,” rispose Yabu.
Blackthorne si voltò verso di lui, torreggiando in tutta la sua statura. “Se non volete lasciarmici andare, Yabu-san, allora mandate uno dei vostri uomini. O andateci voi stesso. Voi!”
Il vento infuriava intorno a loro, spazzando le rocce. Vide Yabu scrutare in basso, calcolando la ripidità e la scarsa luce e capì di averlo intrappolato. Sei preso, bastardo, la tua vanità ti ha messo in trappola. Se vai giù, ti farai male. Ma non ammazzarti, per piacere, rovinati solo le gambe o le caviglie. E poi affoga.
Un samurai cominciò a scendere, ma il daimyo lo richiamò.
“Torna alla nave e porta immediatamente delle funi,” gli ordinò, e l’uomo corse via.
Yabu si sfilò i sandali, poi si tolse le spade dalla cintura e le mise con cura al riparo. “Sorvegliatele e sorvegliate il barbaro. Se succede qualcosa a uno dei due, vi infilzerò sulle vostre stesse spade.”
“Vi prego, lasciate scendere me, Yabu-sama,” disse Takatashi. “Se rimaneste ferito o moriste, io…”
“Pensi di poter riuscire dove io fallirei?”
“No, signore, certo no.”
“Bene.”
“Allora, per favore, aspettate le funi. Non mi perdonerò mai se vi accadrà qualcosa.” Takatashi era basso e massiccio, con una folta barba.
Perché non aspettare le funi? pensò Yabu. Sarebbe giusto, sì. Ma non intelligente. Alzò gli occhi sul barbaro e annuì: sapeva di essere stato sfidato. Se lo era aspettato e lo aveva sperato. Per questo mi sono offerto per la spedizione, Anjin-san, si disse, segretamente divertito. Sei davvero molto ingenuo, Omi aveva ragione.
Yabu si tolse il chimono inzuppato e rimase coperto solo dal perizoma. Si avvicinò all’orlo del dirupo e lo saggiò col piede, riparato dalle calze a suola alta. Meglio tenerle addosso, pensò. La sua volontà e il suo corpo, allenati dalla vita cui si sottoponevano tutti i samurai, erano perfettamente in grado di dominare il freddo che lo mordeva. Le calze — i tabi — ti daranno una presa più solida, almeno per un po’. Avrai bisogno di tutta la tua forza e la tua abilità per arrivare laggiù vivo. Ne vale la pena?
Durante la tempesta e la corsa verso la baia Yabu era salito sul ponte e aveva preso posto a uno dei remi, senza che Blackthorne lo notasse. Era stato lieto di impiegare la propria forza insieme ai rematori, perché detestava i miasmi sottocoperta e il malessere che aveva provato. Perciò aveva deciso che sarebbe stato meglio morire all’aria aperta che soffocare nel chiuso.
Mentre faticava con gli altri nel freddo agghiacciante, aveva cominciato a osservare i piloti comprendendo chiaramente che, in mare, la nave e tutti gli uomini a bordo erano in loro potere. I piloti si trovavano nel loro elemento, indifferenti sul ponte rollante come sarebbe stato lui in groppa a un cavallo al galoppo. Nessun giapponese a bordo era alla loro altezza, per capacità, coraggio e esperienza. E quella consapevolezza gradatamente aveva generato in lui una visione grandiosa: moderne navi barbare piene di samurai, pilotate da samurai, comandate da samurai, manovrate da samurai. I suoi samurai.
Se avessi inizialmente tre navi barbare, prenderei facilmente il controllo delle rotte fra Yedo e Osaka. Facendo base nell’Izu, potrei bloccare qualunque spedizione. O lasciarla passare. Quasi tutto il riso e tutta la seta. E allora non sarei arbitro fra Toranaga e Ishido? O almeno l’ago della bilancia fra di loro?
Nessun daimyo si è ancora mai avventurato sul mare.
Nessun daimyo possiede navi o piloti. Tranne me.
Io possiedo una nave — possedevo una nave — e adesso potrei riavere la mia nave — se sono furbo e intelligente. Possiedo un pilota, cioè un maestro di piloti, se riesco a sottrarlo a Toranaga. Se riesco a dominarlo.
Quando fosse di sua volontà mio vassallo, addestrerebbe i miei uomini, e costruirebbe navi. Ma come renderlo vassallo? Il pozzo in cui è stato chiuso non lo ha piegato.
Prima bisogna isolarlo e tenerlo solo. Non ha detto così Omi? Allora gli si potranno insegnare le dovute maniere e la nostra lingua. Sì. Omi è molto intelligente. Forse troppo… ma a Omi penserò in seguito. Devo concentrarmi su questo pilota. Come si può dominare un barbaro, un cristiano mangiaimmondezza?
Che cosa ha detto Omi? “Danno importanza alla vita. Il loro dio principale, Gesù Cristo, insegna loro ad amarsi a vicenda e a dare valore alla vita.” Potrei ridargli la vita? Risparmiargliela, sì, questo sarebbe già un bene. Ma come piegarlo?
Yabu era stato così invaso dall’eccitazione per i suoi piani da non badare più alla nave e al mare. Un’ondata lo investì; vide che il pilota ne era stato investito con la stessa violenza, ma che non manifestava alcun timore.
Come poteva, pensò Yabu stupefatto, come poteva uno che si era lasciato pisciare addosso da un nemico senza reagire, per salvare la vita a un trascurabile vassallo, come poteva avere la forza di dimenticare un simile eterno disonore ed ergersi sul ponte sfidando gli dei del mare, come un eroe di leggenda… per salvare quegli stessi nemici? E poi, dopo che la grande ondata aveva spazzato via il portoghese e loro stavano per affondare, l’Anjin-san miracolosamente aveva irriso la morte e aveva dato loro la capacità di sfuggire agli scogli.
Non li capirò mai, pensò.
Sull’orlo della scogliera, Yabu si guardò indietro un’ultima volta. Ah, Anjin-san! Lo so che tu credi io vada incontro alla morte, messo in trappola da te. So che tu non scenderesti laggiù. Ti osservavo da vicino. Ma io sono cresciuto fra le montagne e noi, in Giappone, le scaliamo per divertimento e per orgoglio. Per cui adesso io gioco alle mie condizioni, e non alle tue. Proverò, e se morirò, non importa. Ma se riuscirò, tu, uomo, saprai che sono meglio di te, alle tue condizioni. E inoltre sarai in debito verso di me se ti riporto il corpo.
Tu sarai mio vassallo, Anjin-san!
Scese lungo la parete rocciosa con grande abilità. Era a mezza strada quando scivolò. Con la sinistra si aggrappò a una sporgenza. La caduta si interruppe e Yabu ondeggiò fra la vita e la morte. Strinse a fondo le dita, sentendosi sfuggire la presa e tentò di scavarsi con i piedi un minimo appoggio mentre cercava un’altra presa. La mano sinistra si staccò e intanto i piedi trovarono una fenditura, vi si infilarono ed egli si abbracciò disperatamente alla roccia, ancora squilibrato, sempre cercando una presa per le mani. Poi il terreno della fenditura gli cedette sotto i piedi, riuscì ad afferrare un’altra sporgenza con entrambe le mani, a tre metri sotto, e per un momento vi restò appeso, ma anche quella cedette.
Si era preparato il meglio possibile all’urto e atterrò sui piedi come un gatto, ruzzolò lungo la china rocciosa per attutire il colpo e si fermò ansimando. Si coprì il capo con le braccia ferite per proteggersi da un’eventuale valanga di pietre, che però non cadde. Scosse la testa per schiarirsi la mente e si alzò. Una caviglia gli si era stortata: un dolore dilaniante gli salì dalla gamba fino ai visceri. Si coprì di sudore. Le punte e le unghie dei piedi sanguinavano, ma era una conseguenza prevedibile.
Non c’è nessun dolore. Tu non sentirai dolore. Stai dritto. Il barbaro ti guarda. Una colonna di spruzzi lo raggiunse e lo bagnò e il freddo alleviò la sofferenza. Con precauzione si lasciò scivolare sui massi coperti di alghe, superò i crepacci e raggiunse il corpo.
All’improvviso Yabu si rese conto che l’uomo era ancora vivo. Dopo essersene accertato, si sedette. Lo voglio vivo o morto? Che cosa è meglio?
Un granchio sgusciò da sotto una pietra e si gettò in acqua. Le onde lo investivano e Yabu sentiva il sale sulle ferite. Come è meglio: vivo o morto?
A fatica si alzò e gridò: “Takatashi-san! Il pilota è ancora vivo! Vai alla nave, porta una barella e un medico, se c’è!”
Nonostante il vento, gli giunse debolmente la risposta di Takatashi: “Sì, signore.” Rivolto agli altri, mentre si allontanava di corsa, il samurai aggiunse: “Occupatevi del barbaro, che non gli succeda niente!”
Yabu guardò la galea, che dondolava dolcemente all’ancora. Il samurai che aveva mandato a prendere le funi si trovava già vicino alle scialuppe. Lo guardò entrare in una di esse, che poi venne calata in mare. Sorrise fra sé e si voltò a guardare Blackthorne che sull’orlo della scogliera stava gridandogli qualcosa.
Che cosa cerca di dirmi? si chiese Yabu. Vide il pilota indicare il mare, ma non capì. Il mare era grosso e infuriato, ma non diverso da prima.
Alla fine Yabu rinunciò a capire e rivolse la sua attenzione a Rodrigues. Con molta difficoltà lo trascinò più in alto, sulle rocce, fuori dall’acqua. Il respiro del portoghese era irregolare, ma il cuore sembrava resistere bene. Aveva molte ferite e escoriazioni. Un osso spezzato sporgeva dalla caviglia. La spalla destra era fuori posto. Yabu cercò eventuali perdite di sangue, ma non ne vide. Se non ha qualche lesione interna, pensò, forse sopravviverà.
Il daimyo era stato ferito troppe volte e troppe volte aveva osservato uomini morenti o feriti per non possedere una certa capacità diagnostica. Potendo tenere Rodrigu al caldo, dandogli sakè e erbe ricche di essenze, facendogli molti bagni caldi, il portoghese si sarebbe salvato. Forse non potrà camminare, ma vivrà. Sì, voglio che viva. Se anche non camminerà, non importa. Sarebbe magari meglio. Avrò un pilota di riserva, e quest’uomo senza dubbio mi deve la vita. Se il pirata si rifiuterà di cooperare, forse potrò servirmi di costui. Varrebbe la pena di fingersi cristiano? Contribuirebbe a legarli entrambi a me?
Che cosa farebbe Omi?
È intelligente, quell’Omi. Già. Troppo? Omi capisce troppe cose troppo in fretta. Se vede così lontano, deve capire che con la mia scomparsa toccherebbe a suo padre il comando del clan — mio figlio è troppo inesperto anche solo per sopravvivere, lasciato a se stesso — e dopo suo padre, ci sarebbe lui, Omi. Ne?
Che fare di Omi? E se consegnassi Omi al barbaro? Come giocattolo. Servirebbe?
Dall’alto giunsero grida ansiose e Yabu comprese allora che cosa gli indicava il barbaro: la marea! La marea stava salendo rapida. Già cominciava a coprire il suo scoglio. Si arrampicò più in alto e una fitta di dolore alla caviglia lo fece sussultare. Ogni via di scampo lungo la riva era bloccata dal mare. Vide che il segno lasciato dalle maree sugli scogli superava in altezza la statura d’un uomo.
Guardò la scialuppa: adesso era vicina alla nave. Takatashi stava ancora correndo sulla battigia. Le funi non arriveranno in tempo, pensò. Il suo sguardo percorse con attenzione tutto lo spazio intorno: non c’era modo di risalire, né c’erano rocce che offrissero riparo. Nessuna caverna. In mare spuntavano degli scogli alti, ma non li avrebbe mai potuti raggiungere, perché non sapeva nuotare e non aveva niente da usare come zattera.
Gli uomini in cima alla scogliera lo stavano osservando. Il barbaro indicò gli scogli in mezzo al mare, incitandolo a segni a nuotare, ma Yabu scosse la testa. Scrutò ancora intorno a sé. Niente.
Non c’è via d’uscita, pensò. Adesso dovrai morire. Preparati.
Il karma, si disse. E si distolse da tutti, sistemandosi più comodamente; per gustare la vasta luce che gli si apriva davanti. L’ultimo giorno, l’ultimo mare, l’ultima luce, l’ultima gioia, l’ultimo tutto. Come erano splendidi il mare e il cielo e il freddo e il sale! Cominciò a meditare sull’ultima poesia-canzone che avrebbe dovuto comporre, secondo la consuetudine. Si sentì fortunato. Aveva il tempo di meditare a fondo.
Blackthorne stava gridando. “Ascolta, bastardo di puttana! Cerca uno scoglio a fior d’acqua… deve essercene per forza uno, da qualche parte!”
I samurai gli stavano davanti, fissandolo come se fosse impazzito. A loro appariva evidente che non c’era via di scampo e che Yabu stava preparandosi a una dolce morte, come avrebbero fatto loro al suo posto. E quelle smanie li irritavano, come sapevano avrebbero irritato Yabu.
“Guardate giù, anche voi! Forse c’è uno scoglio vicino!”
Uno di loro si accostò all’orlo e scrutò in basso, si strinse nelle spalle, parlò con i compagni e questi si strinsero a loro volta nelle spalle. Ogni volta che Blackthorne si avvicinava all’orlo per guardare, lo fermavano. Gli sarebbe stato facile spingerne giù uno e ammazzarlo, e ne sentì la tentazione, ma capiva loro e i loro problemi. Escogita un modo per salvare il bastardo. Devi salvare lui per salvare Rodrigues.
“Ehi. tu, maledetto, inutile, merdoso giapponese! Ehi, Kasigi Yabu! Dove li hai persi i cojones? Non arrenderti! Solo i vigliacchi si arrendono! Sei un uomo o una pecora?”
Blackthorne raccattò un sasso e lo tirò. Cadde nell’acqua senza attrarre l’attenzione di Yabu e i samurai gli gridarono qualche parole irosa. Blackthorne capì che da un momento all’altro lo avrebbero afferrato e legato. Ma come? Non avevano corde…
Corde! Procurarsi della corda! Si può fabbricarla in qualche modo? Lo sguardo gli cadde sul chimono di Yabu. Cominciò a strapparlo in lunghe strisce, saggiandone la resistenza. La seta era molto robusta. “Forza!” ordinò ai samurai, strappandosi di dosso la camicia. “Fate una corda. Hai?”
Capirono. Veloci si sciolsero le cinture, si sfilarono il chimono e lo imitarono, mentre lui si affannava a legare le estremità delle strisce, comprese le cinture.
Poi lasciò finire a loro la corda, si sdraiò bocconi e strisciò lentamente verso l’orlo. Due samurai lo tenevano per le caviglie, per sicurezza. Non avrebbe avuto bisogno del loro aiuto, ma volle rassicurarli.
Sporse la testa il più possibile, avvertendo l’ansia degli uomini. Osservò palmo per palmo come se si trattasse del mare. Una sezione per volta. Impiegando tutto l’arco visivo, ma soprattutto gli angoli estremi.
Una panoramica completa. Niente.
Ancora una volta. Niente.
Ancora. Che cos’è quello? Proprio sopra alla linea della marea?
Blackthorne cambiò posizione. Ormai il mare aveva già quasi coperto la roccia su cui sedeva Yabu e quasi tutti gli scogli fra lui e la base della scogliera. Riuscì a vedere meglio e indicò col dito.
“Là! Quello non è uno scoglio a pelo d’acqua?”
Con le mani formò nell’aria lo scoglio e con due dita raffigurò un uomo. Mise l’uomo sullo scoglio, poi con un altro dito indicò un lungo fardello sulla spalla dell’uomo: adesso c’era un uomo su uno scoglio — quello scoglio — con un altro uomo sulle spalle.
“In fretta! Isogi! Fateglielo capire… Kasigi Yabu-sama! Wakarimasu ka?”
Un samurai saltò in piedi e parlò rapidamente con gli altri, i quali guardarono anche loro: adesso tutti vedevano lo scoglio. Si misero a gridare. Yabu rimaneva immobile, come impietrito. Continuarono a gridare e Blackthorne si unì a loro, ma sembrava che il daimyo non li udisse affatto.
Uno dei samurai disse poche parole ai suoi compagni, che annuirono, e si inchinarono. Egli si inchinò in risposta, poi all’improvviso urlò a tutta forza: “Bansaiiiii!” e si gettò dall’orlo della scogliera, verso la morte. Yabu fu strappato con violenza dal suo stato di trance, si girò e balzò in piedi.
Gli altri samurai gridarono di nuovo, indicandogli lo scoglio, ma Blackthorne non li sentì, incapace di vedere altro che il corpo sfracellato in basso, già inghiottito dal mare. Che razza d’uomini sono questi? pensò disperato. È coraggio o pazzia? Quello si è deliberatamente ucciso nella speranza di richiamare l’attenzione di un altro che si era già arreso. Non ha senso! Sono degli insensati.
Vide Yabu raddrizzarsi vacillando. Si aspettava che corresse a salvarsi, abbandonando Rodrigues. Così farei io. Proprio? Non lo so. Invece Yabu, mezzo strisciando, mezzo scivolando, si trascinò dietro il corpo inerte attraverso i brevi spazi pieni d’acqua, ai piedi della scogliera, finché trovò lo scoglio emergente. Era largo una trentina di centimetri. Con duro sforzo vi spinse Rodrigues, rischiando una volta di perderlo, poi vi si issò anche lui.
Alla corda mancavano cinque-sei metri. I samurai vi aggiunsero rapidamente i loro perizomi. Adesso, alzandosi in piedi, Yabu poteva afferrarne l’estremità.
Con grida di incoraggiamento, aspettarono.
Nonostante l’odio che provava, Blackthorne dovette ammirare il coraggio di Yabu. Una mezza dozzina di volte le onde furono sul punto di sommergerlo. Due volte Rodrigues stava per essere trascinato via, e Yabu lo tirò indietro, tenendogli la testa fuori dall’acqua avida, resistendo quando Blackthorne dovette ammettere che lui si sarebbe arreso. Dove trovi il coraggio, Yabu? Sei un figlio del diavolo? Lo siete tutti quanti?
Già lo scendere per quella scogliera aveva richiesto molto coraggio. Al principio Blackthorne aveva pensato che Yabu avesse voluto compiere una bravata. Ma presto aveva dovuto ammettere che l’uomo impiegava tutte le sue capacità contro la roccia e quasi era riuscito a vincere. Poi aveva saputo interrompere la caduta come un saltimbanco. E si era arreso con dignità.
Cristo Gesù, ammiro quel bastardo, e lo odio!
Per quasi un’ora Yabu si oppose al mare e all’indebolirsi del proprio corpo e infine, al crepuscolo, Takatashi fu di ritorno con le corde. Misero insieme una specie di amaca e la calarono giù per la scogliera con una destrezza che Blackthorne non aveva mai visto a terra.
Rodrigues venne rapidamente portato in cima alla scogliera. Blackthorne voleva cercare di soccorrerlo, ma un giapponese dalla testa rapata a zero gli si era già inginocchiato vicino. L’inglese lo osservò esaminare la gamba rotta. Un samurai tenne Rodrigues per le spalle, mentre il medico poggiava il suo peso sul piede e rimandava a posto l’osso, sotto la carne. Le dita del medico tastarono e spinsero e riassestarono, poi egli legò la gamba a un’assicella e avvolse degli impacchi di erbe intorno alla ferita dal brutto aspetto. Quindi anche Yabu venne riportato su.
Il daimyo respinse ogni aiuto, rimandò con un cenno il medico da Rodrigues, e si sedette ad aspettare. Blackthorne lo guardò. Yabu ne sentì lo sguardo e lo fissò a sua volta.
“Grazie,” disse infine Blackthorne, indicando Rodrigues. “Grazie per avergli salvato la vita. Grazie, Yabu-san.” Con un gesto marcato si inchinò. Questo è per il tuo coraggio, figlio dagli occhi neri di una schifosa puttana.
Yabu si inchinò altrettanto rigidamente. Ma dentro dì sé sorrise.