14

Per Blackthorne fu un’alba d’inferno. Era avvinghiato in una lotta mortale con un compagno di prigionia per la conquista di una tazza di brodaglia. Entrambi erano nudi, perché quando un prigioniero veniva rinchiuso nel vasto edificio di legno, a un solo piano, i vestiti gli venivano portati via: un uomo vestito occupa più spazio e inoltre può nascondere delle armi.

La cella fangosa e soffocante era lunga cinquanta passi e larga dieci, ed era piena di giapponesi nudi e sudati. Fra le travi e le assi che formavano le pareti e il soffitto basso non passava quasi luce.

Blackthorne riusciva a fatica a stare dritto. Era coperto di graffi e di segni lasciati dalle unghie spezzate dell’avversario e dagli spuntoni di legno delle pareti. Alla fine sbatté la testa contro la faccia dell’uomo, lo strinse alla gola e gli picchiò il capo contro una trave, fino a ridurlo all’incoscienza. Spinse il corpo da parte e caricò attraverso la massa sudata per raggiungere il posto conteso, in un angolo, preparandosi a un altro attacco.

All’alba distribuivano il pasto e le guardie passavano tazze di brodaglia e di acqua attraverso la piccola apertura. Erano il primo cibo e la prima acqua che venivano dati ai prigionieri da quando, il giorno precedente, al tramonto, Blackthorne era stato portato là dentro. La fila per prendere le tazze si era formata con insolita calma, ma senza disciplina non avrebbe mangiato nessuno. E poi quell’uomo-scimmia — sudicio, con la barba lunga e coperto di pidocchi — gli aveva dato un pugno nelle reni e si era impadronito della sua razione, mentre gli altri stavano fermi ad aspettare il seguito della scena. Ma Blackthorne si era trovato in mezzo a troppe risse di marinai per lasciarsi abbattere da un colpo a tradimento, perciò aveva finto debolezza, poi con un calcio ben misurato aveva dato il via allo scontro. Adesso, ritirato nel suo angolo, vide con stupore che uno degli altri gli porgeva la brodaglia e l’acqua che aveva creduto perse per sempre. Le prese e ringraziò l’uomo.

Gli angoli erano i posti preferiti. Lungo il pavimento di terra battuta correva una trave che divideva la stanza in due sezioni, in ognuna delle quali stavano tre file di uomini: una con le spalle alla trave, una con le spalle al muro e la terza fila in mezzo. In quella di mezzo finivano solo i più deboli o gli ammalati. Quando i più robusti, nelle file laterali, volevano allungare le gambe, dovevano metterle sopra a quelli in mezzo.

In una delle file centrali Blackthorne vide due cadaveri, gonfi e coperti di mosche; ma i loro vicini, abbandonati e morenti, sembravano ignorarli. Nella semioscurità densa di caldo, non riusciva a guardare lontano. Il sole arrostiva già le pareti di legno. C’erano dei vasi come latrine, ma la puzza era spaventosa dovunque, perché gli ammalati sporcavano se stessi e il posto in cui giacevano.

Di tanto in tanto le guardie aprivano la porta di ferro e chiamavano qualcuno. I chiamati si inchinavano ai compagni e uscivano, ma altri venivano portati dentro e lo spazio si riempiva di nuovo. Sembrava che tutti i prigionieri avessero accettato il proprio destino e cercassero di vivere non egoisticamente in pace con i vicini, nel miglior modo possibile.

Uno accanto alla parete si mise a vomitare e venne rapidamente spinto nella fila centrale, dove si accasciò, mezzo soffocato, sotto il peso delle gambe degli altri.

Blackthorne dovette chiudere gli occhi per combattere il terrore e la claustrofobia. Bastardo Toranaga! Prego il cielo di avere l’occasione di mettere te qui dentro, un giorno.

Bastarde le guardie! La notte prima, quando gli avevano ordinato di spogliarsi, aveva lottato, con un senso di amara disperazione, sapendosi già battuto e resistendo solo per non arrendersi passivamente. E poi era stato spinto attraverso la porta di ferro.

Gli edifici della prigione erano quattro, ai margini della città, in un agglomerato chiuso da alte mura di pietra. Fuori dalle mura si stendeva una zona in terra battuta, lungo il fiume, recintata da corde. Vi erano state erette cinque croci. Quattro uomini e una donna, tutti nudi, pendevano legati ai bracci delle croci per i polsi e le caviglie, e Blackthorne, mentre percorreva il perimetro dietro alle sue guardie samurai, aveva visto gli aguzzini gettare le lance nel petto delle vittime, con tiri incrociati, fra le acclamazioni della folla. Quindi i cinque erano stati calati e sostituiti da altri cinque e i samurai si erano fatti avanti per tagliare i cadaveri a pezzi con le lunghe spade, continuando a ridere.

Bastardi appestati e sanguinari!

L’uomo abbattuto da Blackthorne stava riprendendo i sensi, fra l’indifferenza generale. Giaceva nella fila centrale. Il sangue gli si era raggrumato su un lato della faccia e il naso era rotto. D’improvviso balzò su Blackthorne, senza badare a quelli che gli intralciavano il passo. Blackthorne lo scorse all’ultimo momento, parò con un gesto fulmineo il colpo e lo rigettò indietro tutto raggomitolato. I prigionieri su cui l’uomo andò a cadere imprecarono contro di lui e uno, massiccio e somigliante a un bulldog, lo colpì violentemente sul collo, con un colpo di taglio della mano. Si udì un suono secco e la testa dell’uomo si piegò.

Il bulldog sollevò quella testa per la sua capigliatura pidocchiosa, poi la lasciò ricadere. Alzò lo sguardo verso Blackthorne, disse qualcosa con voce gutturale, sorrise con le gengive sdentate e si strinse nelle spalle.

“Grazie,” mormorò Blackthorne, ancora senza fiato e contento che il suo assalitore non possedesse la bravura di Mura nella lotta senza armi. “Mi chiamo Anjin-san,” continuò, indicando se stesso, “e tu?”

“Ah, so desu!“ Anjin-san!” Bulldog puntò il dito contro di sé e inspirò profondamente. “Minikui.”

“Minikui-san?”

“Hai” e continuò con una bordata di giapponese.

Blackthorne scosse il capo, stancamente. “Wakarimasen.” Non capisco.

“Ah, so desu!” Bulldog parlò brevemente con i suoi vicini, poi si strinse nelle spalle, Blackthorne fece altrettanto e tutti e due insieme sollevarono il cadavere e lo misero accanto agli altri. Quando tornarono, videro che nessuno aveva usurpato i loro posti.

La maggior parte dei prigionieri dormiva o cercava di dormire.

Blackthorne si sentiva malissimo, sudicio e prossimo alla morte. Non ti angustiare, diceva a se stesso, c’è ancora una lunga via prima della tua morte… No, in questo buco infernale non vivrò a lungo. Ci sono troppi uomini qui dentro. Oh, Dio, fammi uscire! Perché la stanza va su e giù? È Rodrigues quello che sale fluttuando dal profondo, con un paio di chele al posto degli occhi? Non posso respirare, non posso respirare. Devo uscire di qui, per piacere, per piacere, non mettete altra legna nel fuoco, e tu che fai qua, Croocq, ragazzo, credevo che ti avessero lasciato andare. Credevo fossi tornato nel villaggio, ma adesso siamo nel villaggio e io come ci sono arrivato… è così fresco e c’è quella ragazza, così bella, vicino al molo, ma perché la stanno trascinando sulla spiaggia? C’è il samurai nudo, Omi, che ride. Perché attraverso la sabbia? Ci sono impronte di sangue nella sabbia, tutti nudi, io e le vecchie e i contadini e i bambini, e c’è il calderone e siamo dentro il calderone, no, basta legna, basta legna, io affogo nella sporcizia liquida, oh Dio oh Dio oh Dio, sto morendo morendo morendo! In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancii. Questa è l’estrema unzione e tu sei cattolico siamo tutti cattolici e tu brucerai o annegherai nell’urina e brucerai col fuoco il fuoco il fuoco…

Si trascinò fuori dall’incubo, ma ancora provava il senso di definitiva e pacifica morte dell’estrema unzione. Per un momento non capì se fosse sveglio o addormentato, perché le sue incredule orecchie udivano di nuovo la formula latina e i suoi occhi increduli fissavano un vecchio rugoso europeo, simile a un corvo, chino sulla fila centrale, a quindici passi di distanza. Il vecchio sdentato aveva lunghi capelli sporchi, una barba arruffata e le unghie spezzate, e indossava una lurida tonaca consunta. Alzando una mano simile all’artiglio di un avvoltoio, sollevò un crocifisso di legno sopra un corpo seminascosto. Un raggio di sole lo illuminò per un attimo. Poi chiuse gli occhi del morto, recitò piano una preghiera e alzò lo sguardo. Vide Blackthorne che lo fissava.

“Madre di Dio, sei vero?” gracchiò in rozzo spagnolo contadinesco, segnandosi con la croce.

“Sì,” rispose Blackthorne in spagnolo. “Tu chi sei?”

Il vecchio si fece strada verso di lui, mormorando qualcosa fra sé. Gli altri lo lasciarono passare fra loro o sopra di loro, senza una parola. Egli contemplò Blackthorne con occhi acquosi nel viso stravolto. “Oh, beata Vergine, questo señor è vero. Chi sei? Io… io sono frate Domingo… Domingo… Domingo del santo ordine di san Francesco… l’ordine…” e il suo discorso si mutò in un torrente di giapponese e latino e spagnolo, tutti insieme. Contraeva la faccia e si asciugava di tanto in tanto la saliva che gli colava sul mento di continuo. “Il señor è proprio vero?”

“Sì, sono in carne e ossa,” disse Blackthorne, alzandosi in piedi.

Il frate mormorò un’altra avemaria, con le guance rigate di lacrime. Baciò più volte la croce e sarebbe caduto in ginocchio se ci fosse stato lo spazio. Bulldog con uno scossone svegliò il suo vicino e tutti e due si spostarono quanto bastava per lasciare sedere il frate.

“Grazie al beato san Francesco, le mie preghiere sono state esaudite! Oh tu, tu, tu… ho creduto fossi un’apparizione, uno spettro, señor. Sì, uno spirito maligno. Ne ho visti tanti… tanti… da quando è qui, il señor? È difficile vederci in questo buio e i miei occhi… Da quando?”

“Da ieri. E tu?”

“Non lo so, señor. Da molto tempo. Mi hanno portato qui un settembre… era l’anno del Signore 1598.”

“Adesso siamo nel maggio del 1600.” “1600?”

Un grido lamentoso richiamò l’attenzione del frate, che si alzò e si mosse fra i corpi come un ragno, incoraggiando qua un disgraziato, là sfiorandone un altro, sempre parlando correntemente in giapponese. Non riuscì a trovare il moribondo e impartì la benedizione vagamente in quella parte della cella, a tutti, e nessuno se ne risentì.

“Vieni con me, figlio mio.”

Senza aspettarlo, il vecchio arrancò, attraverso la massa umana, verso il buio più fitto. Blackthorne esitò, poco desideroso di abbandonare il suo posto, poi si alzò e lo seguì. Dopo dieci passi si voltò: il suo posto era scomparso e sembrava impossibile che egli ci fosse mai stato.

Percorse lo stanzone fino in fondo. Nell’angolo estremo, incredibile a vedersi, c’era uno spazio libero, giusto lo spazio sufficiente per una persona sdraiata. Conteneva qualche recipiente e una vecchia stuoia di paglia.

Padre Domingo raggiunse quello spazio, scavalcando gli ultimi uomini, e lo chiamò con un cenno. I giapponesi lasciarono passare Blackthorne, osservandolo in silenzio.

“Sono il mio gregge, señor. Sono tutti miei figli nel nome del benedetto Signore Gesù. Ne ho convertiti tanti qui dentro… questo è Giovanni, ed ecco Marco e Matusalemme…” Il frate s’interruppe per riprendere fiato. “Sono così stanco. Stanco. Io… devo… devo…” La sua voce si spense ed egli si addormentò.

Al tramonto arrivò una nuova razione di cibo. Quando Blackthorne si mosse, uno dei giapponesi vicino a lui gli fece segno di fermarsi e poi gli portò una ciotola ben riempita. Un altro svegliò gentilmente il frate, offrendogli il pasto.

“Iyé.” rispose il vecchio, scuotendo la testa con un sorriso, e rimise la ciotola nelle mani del prigioniero. “Iyé. Parddeh-sama.”

Il frate si lasciò convincere e mangiò qualche boccone, poi si alzò, con le giunture scricchiolanti, e offrì la sua ciotola a uno della fila centrale. Questi si portò la mano del frate alla fronte e venne benedetto.

“Sono così contento di vedere un altro della mia razza,” disse il frate, tornando a sedere accanto a Blackthorne, con la sua voce spessa e sibilante da contadino. Indicò con la mano debole l’altra estremità della cella. “Uno del mio gregge dice che il señor ha usato la parola ‘pilota’, anjin. Il señor è un pilota?”

“Sì.”

“Ci sono altri dell’equipaggio del señor, qui dentro?”

“No, io solo. Perché sei qui?”

“Se il señor è solo… è venuto da Manila?”

“No. Non ero mai stato in Asia prima d’ora,” rispose cauto Blackthorne, in ottimo spagnolo. “Era il mio primo viaggio da pilota. Ero diretto altrove. Perché sei qui?”

“Mi ci hanno messo i gesuiti, figlio mio. I gesuiti e le loro sporche bugie. Il señor era diretto altrove? Non sei spagnolo… né portoghese…” Il frate lo scrutò con sospetto e Blackthorne si sentì investire dal suo fiato puzzolente. “La nave era portoghese? Dimmi la verità, davanti a Dio!”

“No, padre. Non era portoghese, davanti a Dio!”

“Oh, grazie, santa Vergine! Perdonami, señor. Ho avuto paura… sono vecchio e stupido, e ammalato. La tua nave era spagnola? e di dove? Son così contento… da dove vieni, señor? Dalle Fiandre spagnole? O forse dal ducato di Brandeburgo? Da qualcuno dei nostri possedimenti in Germania? Oh, che meraviglia poter parlare di nuovo la mia lingua! Il señor ha fatto naufragio come noi? E poi è stato malvagiamente gettato in questa prigione, accusato dai diavoli gesuiti? Possa Dio maledirli e mostrare loro il peccato del tradimento che hanno commesso!” Gli occhi gli scintillarono d’ira. “Il señor ha detto di non essere mai stato in Asia prima d’ora?”

“No.”

“Se non è mai stato in Asia, sarà come un bambino sperduto nel deserto. Oh, sì, c’è tanto da raccontare! Il señor sa che i gesuiti non sono che mercanti, trafficanti d’armi e usurai? Che qui controllano tutto il commercio della seta, tutto il commercio con la Cina? Che la Nave Nera che viene ogni anno vale un milione in oro? Che hanno costretto sua santità il papa a dare loro potere assoluto in Asia… a loro e ai loro cani, i portoghesi? Che a tutti gli altri religiosi è proibito venire qui? Che i gesuiti commerciano l'oro, e comprano e vendono a scopo di lucro — per sé e per i pagani — contro gli ordini di sua santità, papa Clemente e del re Filippo, e contro le leggi di questo paese? Che hanno contrabbandato in segreto delle armi in Giappone per i re cristiani di qui, incitandoli alla rivolta? Che intervengono nella politica e mestano per i re, mentono e truffano e rendono falsa testimonianza contro di noi? Che il loro padre superiore ha mandato un messaggio segreto al nostro viceré spagnolo a Luzon, chiedendogli dei conquistadores per impadronirsi del paese… hanno chiesto un’invasione spagnola per coprire altre colpe dei portoghesi. Tutti i nostri mali vengono da loro, señor. Sono i gesuiti che hanno mentito e imbrogliato e sparso veleno contro la Spagna e il nostro amato re Filippo! Sono state le loro menzogne a rinchiudere me qua dentro e a mandare al martirio ventisei religiosi! Credono che io, perché ero un contadino, non capisca… ma io so leggere e scrivere, señor, so leggere e scrivere! Ero uno dei segretari di sua eccellenza il viceré. Secondo loro, noi francescani non capiamo…” e a questo punto si addentrò in un altro sproloquio misto di spagnolo e latino.

In Blackthorne si era ravvivato lo spirito e i discorsi del frate gli avevano aguzzato la curiosità. Quali cannoni? Quale oro? Quale commercio? Quale Nave Nera? Un milione? E quale invasione? Quali re cristiani?

Non stai forse imbrogliando questo poveretto ammalato? si chiese. Lui ti crede un amico, non un nemico.

Non gli ho mentito.

Ma non gli hai lasciato intendere che gli sei amico?

Ho risposto alle sue domande.

Ma non hai aggiunto niente spontaneamente?

No.

Ti sembra onesto?

È la prima regola per sopravvivere in acque nemiche: non dire mai niente spontaneamente.

Il borbottio del frate andò aumentando rapidamente e il giapponese vicino a loro si agitò, preoccupato. Un altro si alzò e andò a scuotere gentilmente il vecchio, parlandogli piano. Padre Domingo gradatamente uscì dalla sua frenesia, con gli occhi più limpidi. Guardò Blackthorne riconoscendolo, rispose al giapponese e calmò gli altri.

“Scusami, señor,” disse, ansante.“Loro credono che fossi arrabbiato contro di te, señor. Dio perdoni la mia stupida collera! Era solo… que val i gesuiti vengono dall’inferno, insieme agli eretici e ai pagani. Potrei raccontartene tante su di loro.” Si asciugò la saliva sul mento e cercò di calmarsi, comprimendosi il petto, per alleviare il dolore. “Che cosa diceva il señor? La tua nave è stata sbattuta a riva?”

“Sì. In un certo senso. Ci siamo incagliati,” rispose Blackthorne. Allungò con precauzione le gambe. Gli uomini che li stavano osservando e ascoltando si spostarono, dandogli spazio. Uno si alzò e gli fece cenno di sdraiarsi. “Grazie,” esclamò lui. “Oh, come si dice ‘grazie’, padre?”

“Domo. A volte invece arigato. E una donna deve essere molto gentile, señor, e dice arigato goziemashita.”

“Grazie. Come si chiama lui?” Blackthorne indicò l’uomo che si era alzato.

“Quello è González.”

“Ma il suo nome giapponese com’è?”

“Ah, sì! È Akabo. Ma vuol dire semplicemente ‘facchino’, señor. Non hanno nomi, loro. Solo i samurai hanno un nome.” “Come?”

“Solo i samurai hanno nomi, cognomi e soprannomi. È la loro legge, señor. Tutti gli altri prendono nome dal proprio mestiere… facchino, pescatore, cuoco, carnefice, contadino e così via. Figli e figlie in genere sono semplicemente la Prima Figlia, la Seconda Figlia, e così avanti. A volte chiamano qualcuno ‘il pescatore che abita vicino all’olmo’ o ‘il pescatore dalla vista cattiva’.” Il frate s’interruppe e trattenne uno sbadiglio. “Ai giapponesi comuni non è permesso avere un nome. Le prostitute si scelgono dei nomi da sé, come Carpa o Luna o Petalo, Anguilla o Stella. È una cosa strana, señor, ma è la loro legge. Noi, quando li battezziamo portando loro la salvezza e la parola di Dio, gli diamo dei nomi cristiani, dei nomi veri…” la voce si spense e il vecchio si addormentò.

“Domo. Akabo-san,” disse Blackthorne al facchino, il quale sorrise timidamente, s’inchinò e inspirò profondamente.

Più tardi il frate si svegliò, recitò una breve orazione e si grattò. “Solo ieri, hai detto, señor? Sei venuto qui solo ieri? Che cosa è accaduto al señor?”

“Quando siamo arrivati a terra, c’era un gesuita,” rispose Blackthorne. “Ma tu, padre, stavi dicendo che ti hanno accusato? Che cosa è capitato a te e alla tua nave?”

“La nostra nave? Il señor chiede della nostra nave? Il señor è arrivato da Manila come noi? Oppure… oh, come sono stupido! Ora ricordo, il señor era diretto altrove e non è mai stato in Asia. Per il santo corpo di Cristo, è così bello parlare di nuovo a un uomo civile, nella mia benedetta lingua! Que val era da tanto tempo… La testa mi fa male, señor. La nostra nave? Eravamo diretti a casa, finalmente, a casa, da Manila ad Acapulco, nella terra di Cortes, nel Messico, e poi per terra a Vera Cruz. E da lì in un’altra nave, attraverso l’Atlantico e finalmente, finalmente, a casa. Il mio villaggio è vicino a Madrid, señor, sui monti. Si chiama Santa Veronica. Da quarant’ anni ne sono lontano, señor. Nel Nuovo Mondo, nel Messico, nelle Filippine. Sempre con i nostri gloriosi conquistadores che la Vergine vegli su di loro! Io ero a Luzon quando fu abbattuto il locale re pagano, Lumalon, e conquistammo Luzon, portando ai filippini la parola di Dio. Molti convertiti giapponesi combattevano con noi già allora, señor. Che combattenti! Era il 1575. La Madre Chiesa ha salde radici laggiù figlio mio, e non si incontra mai uno sporco gesuita o un portoghese. Io sono stato in Giappone per quasi due anni, ma ho dovuto partire per Manila di nuovo quando i gesuiti ci hanno tradito.”

Il frate s’interruppe e chiuse gli occhi, abbandonandosi. Poi si riprese, come fanno a volte i vecchi, e ricominciò a parlare come se non avesse dormito nel frattempo. “La mia nave era il grande galeone San Felipe. Portavamo un carico di spezie, oro e argento e monete per un milione e mezzo di pesos d’argento. Ci travolse una delle grandi tempeste e ci buttò sulle rive di Shikoku. La nave si spezzò sul fondale sabbioso, il terzo giorno, dopo che avevamo scaricato il tesoro e quasi tutte le merci. E poi ci dissero che tutto era confiscato, confiscato dallo stesso Taikō, che noi eravamo pirati e…” si fermò, colpito dal silenzio improvviso intorno a lui. La porta di ferro della cella si era spalancata.

Le guardie cominciarono a scandire dei nomi. Uno dei chiamati fu Bulldog, l’uomo che aveva mostrato simpatia per Blackthorne. Uscì, senza guardarsi indietro. Anche uno di quelli intorno al padre fu chiamato: Akabo. Egli si inginocchiò accanto al frate, che lo benedisse, gli tracciò un segno di croce e gli diede rapidamente l’estrema unzione. L’uomo baciò il crocifisso e si allontanò.

La porta si richiuse.

“Lo giustizieranno?” chiese Blackthorne.

“Sì, il suo calvario comincia fuori da quella porta. Possa la Vergine santa raccoglierne presto l’anima e dargli l’eterna ricompensa.” “Che cosa aveva fatto?”

“Non ha rispettato la legge, la loro legge, señor. I giapponesi sono gente semplice, e molto severa. Hanno un unico castigo: la morte. Sulla croce, o per strangolamento, o per decapitazione. Per l’incendio doloso, muoiono bruciati. Non esiste quasi nessun’altra punizione… a volte la messa al bando, altre volte, per le donne, la rasatura della testa. Ma,” sospirò il vecchio, “ma è quasi sempre la morte.”

“Hai dimenticato la prigione.”

Le unghie del vecchio grattarono distrattamente le croste sul suo braccio. “Non è una punizione, figlio mio. Per loro la prigione è soltanto un luogo dove tenere temporaneamente una persona fino a quando emettono la sentenza. Solo i colpevoli ci entrano. E solo per poco.”

“È assurdo. E tu? Sei qui da più di un anno, quasi due.”

“Un giorno chiameranno anche me, come gli altri. Questo non è che un luogo di sosta fra l’inferno della terra e la gloria della vita eterna.”

“Non ti credo.”

“Non avere paura, figlio mio. È la volontà di Dio. Io sto qui e posso ascoltare la tua confessione, señor, e darti l’assoluzione e renderti perfetto… la gloria della vita eterna non dista più di cento gradini e cento istanti da quella porta. Il señor vuole che ascolti subito la sua confessione?”

“No, no, grazie. Non adesso.” Blackthorne osservò la porta di ferro. “Nessuno ha mai cercato di fuggire da qui?”

“Perché dovrebbero? Non c’è dove scappare o dove nascondersi. Le autorità sono molto rigide: chiunque aiuti un evaso o l’autore di un crimine…” indicò vagamente la porta. “González… Akabo… l’uomo che… ci ha lasciato. È un uomo-kaga. Mi ha raccontato…”

“Che vuol dire?”

“Oh, señor, sono portatori, quelli che portano i palanchini, o i kaga, quelli più piccoli, con due portatori soli, simili a un’amaca appesa a un palo. Ci ha raccontato che il suo collega aveva rubato a un cliente una sciarpa di seta, poveretto, e lui è stato condannato per non aver denunciato quel furto. Il señor può credermi, tentare di fuggire o di aiutare altri a fuggire, significa perdere la vita propria e dei familiari. Sono severissimi, señor.”

“Così, dunque, tutti vanno alla morte come pecore?”

“Non c’è scelta. È la volontà di Dio.”

Non ti arrabbiare, non lasciarti prendere dal panico, si disse Blackthorne, sii paziente. Puoi escogitare un modo. Non tutto quello che dice il frate è vero. La sua mente è confusa. E come potrebbe non esserlo, dopo tanto tempo?

“Queste prigioni sono nuove per loro, señor,” riprese il frate. “Il Taikō ha istituito le prigioni pochi anni fa, dicono. Prima di lui non esistevano. Nei tempi passati, quando uno era preso, confessava il suo delitto e veniva giustiziato.”

“E se non confessava?”

“Tutti confessano, è meglio farlo al più presto, señor. Anche nel nostro mondo è lo stesso, quando ti prendono.”

Il prete si addormentò di nuovo, grattandosi e mormorando nel sonno. Quando si svegliò, Blackthorne gli disse: “Ti prego, padre, spiegami come hanno potuto i maledetti gesuiti cacciare in questo buco un uomo di Dio.”

“Non c’è molto da raccontare. Dopo che gli uomini del Taikō furono venuti a prendersi il nostro tesoro e le nostre merci, il nostro capitano-generale volle a tutti i costi recarsi alla capitale per protestare, perché non c’erano motivi che giustificassero la confisca. Non eravamo forse sudditi del cattolicissimo Filippo re di Spagna, signore del più grande e più ricco impero del mondo? Il monarca più potente del mondo? Il Taikō non chiedeva forse agli spagnoli di Manila di commerciare direttamente col Giappone, per spezzare il losco monopolio dei portoghesi? La confisca era uno sbaglio, doveva esserlo per forza.

Io andai col capitano-generale perché sapevo parlare un po’ il giapponese… non molto, a quei tempi. señor, il San Felipe è affondato nell’ottobre del 1597. I gesuiti — uno si chiamava padre Martin Alvito — ebbero il coraggio di offrirsi come mediatori per noi, qui nella capitale, Kyoto. L’insolenza! Il nostro padre superiore dei francescani, frate Braganza, si trovava nella capitale, come ambasciatore… ambasciatore vero e proprio della Spagna alla corte del Taikō! Il benedetto frate Braganza era a Kyoto da cinque anni e lo stesso Taikō in persona aveva chiesto al nostro viceré a Manila di mandare in Giappone dei francescani e un ambasciatore. Perciò era venuto il benedetto frate Braganza. E noi, señor, noi del San Felipe, sapevamo che ci potevamo fidare di lui, non era come i gesuiti.

Dopo moltissimi giorni di attesa, avemmo un colloquio col Taikō… era un ometto piccolo e brutto, señor… e chiedemmo che ci restituissero le nostre merci e ci dessero un’alta nave, o un passaggio su una nave, per cui il capitano-generale si offrì di pagare generosamente. A noi parve che il colloquio fosse andato bene e il Taikō ci congedò. Ci recammo nel nostro convento di Kyoto e aspettammo e durante i mesi in cui aspettavamo la sua decisione, continuammo a portare ai pagani il Verbo di Dio. Celebravamo apertamente i nostri servizi religiosi, non come ladri nella notte, come fanno i gesuiti.” La voce di frate Domingo era piena di disprezzo. “Portavamo i nostri abiti consueti, senza travestirci da preti locali, come fanno loro. Diffondevamo il Verbo fra la gente, gli storpi e i malati e i poveri, non come i gesuiti che si mescolano soltanto ai principi. Le nostre congregazioni aumentavano di numero, avevamo un ospedale per i lebbrosi, la nostra Chiesa e il nostro gregge prosperavano, señor, grandemente. Eravamo sul punto di convertire molti dei loro sovrani, ma un giorno fummo traditi.

In un giorno di gennaio tutti noi francescani fummo condotti davanti al magistrato e accusati, con un atto che portava il sigillo personale del Taikō, accusati di aver violato la loro legge, e disturbato la pace del paese, e fummo condannati a morire in croce. Eravamo quarantatré. Tutte le nostre chiese nel territorio giapponese dovevano essere distrutte, tutte le nostre congregazioni disperse — quelle dei francescani, señor, non dei gesuiti. Soltanto noi, señor. Eravamo stati accusati falsamente, i gesuiti avevano versato veleno nell’orecchio del Taikō, insinuando che eravamo dei conquistadores, decisi a invadere il suo paese, mentre erano stati loro, i gesuiti, a pregare sua eccellenza il viceré di mandare un esercito da Manila. Ho visto la lettera con i miei occhi! Firmata dal loro padre superiore! Sono diavoli che fingono di servire la Chiesa e Cristo, ma servono solo se stessi. Hanno una smania invincibile di potere, potere a ogni costo. Si nascondono dietro un velo di povertà e di religiosità, ma sotto quel velo mangiano come re e ammassano fortune. Que va, señor, la verità è che erano gelosi della nostra purezza e del nostro modo di vivere. Il daimyo di Hizen, Dom Francisco — il suo nome giapponese è Harima Tadao, ma è stato battezzato Dom Francisco — cercò di intercedere per noi. È come un re… tutti i daimyo sono come re… e lui è un francescano e pregò per noi, ma senza frutto.

Alla fine ventisei di noi vennero uccisi: sei spagnoli, diciassette neofiti giapponesi e altri tre. Il benedetto Braganza fu tra i martiri e fra i neofiti tre erano ragazzi… Oh, señor, i fedeli vennero a migliaia quel giorno. Cinquanta, centomila persone hanno assistito al santo martirio di Nagasaki, mi hanno raccontato. Era febbraio, un giorno molto rigido di un’annata molto rigida. Fu l’anno dei terremoti e dei tifoni e di inondazioni e tempeste e incendi, quando la mano di Dio cadde pesante sul Grande Assassino e abbatté perfino il suo grande castello di Fushimi, quando scosse la terra. Fu spaventoso ma mirabile il dito di Dio che puniva i pagani e i peccatori.

Così vennero fatti martiri, señor, sei buoni spagnoli. Il nostro gregge e la nostra Chiesa andarono distrutti e l’ospedale fu chiuso.” Le rughe si approfondirono nel volto del vecchio. “Io… ero fra quelli prescelti per il martirio, ma… quell’onore non era per me. Ci mandarono da Kyoto a Osaka e qui misero alcuni in una nostra missione e gli altri… con un orecchio tagliato furono condotti per le vie come criminali comuni. Poi i fratelli furono avviati verso ovest. Camminarono per un mese. Il loro viaggio benedetto terminò alla collina che si chiama Nishizaki, sopra al grande porto di Nagasaki. Io implorai il samurai di lasciarmi andare con gli altri ma lui, señor, mi ordinò di tornare alla missione, a Osaka. Senza nessuna ragione. E poi, dopo mesi, ci rinchiusero in questa cella. Eravamo in tre… credo che fossimo tre, ma io ero l’unico spagnolo. Gli altri erano neofiti giapponesi, laici. Dopo pochi giorni le guardie li chiamarono e invece non hanno mai chiamato me. Forse è la volontà di Dio, señor, o forse gli sporchi gesuiti mi lasciano vivere solo per torturarmi… loro che mi hanno tolto l’occasione di morire martire insieme ai miei confratelli. È difficile, señor, avere pazienza. Così difficile…”

Il vecchio frate chiuse gli occhi, pregò e pianse finché cadde addormentato.

Per quanto lo desiderasse, Blackthorne non riuscì a dormire, anche dopo che fu scesa la notte. Gli si raggricciava la carne per i morsi dei pidocchi e la testa gli girava per il terrore.

Capiva, con terribile chiarezza, che non c’era via di scampo. Era dominato dal senso dell’inutilità e della prossimità della morte. Nell’ora più fonda della notte, il panico lo vinse e per la prima volta in vita sua cedette e pianse.

“Figlio mio,” mormorò il frate, “cosa c’è?”

“Niente, niente,” rispose Blackthorne col cuore che batteva a grandi colpi. “Torna a dormire.”

“Non devi avere paura. Siamo tutti nelle mani di Dio,” lo confortò il frate e si riaddormentò.

Il grande terrore scomparve e al suo posto Blackthorne provò una sorta di paura con cui poteva anche convivere. In qualche modo uscirò di qui, si disse, tentando di credere alla propria bugia.

All’alba arrivarono cibo e acqua. Blackthorne si sentì più forte. È stupido lasciarsi andare così, si ammonì. Stupido, debole e pericoloso. Non ripeterlo o ti spezzerai e diventerai pazzo e certo morirai. Ti metteranno nella fila centrale e là morirai. Sii cauto e paziente e stai all’erta.

“Come va oggi, señor?”

“Bene, grazie, padre. E tu?”

“Abbastanza bene, grazie.”

“Come si dice in giapponese?”

Domo, genki desu.”

Domo, genki desu. Ieri mi dicevi delle Navi Nere portoghesi, padre… come sono? Ne hai mai viste?”

“Oh, sì, señor. Sono le navi più grandi del mondo, quasi duemila tonnellate. Ci vogliono duecento uomini per manovrarne una, señor, e fra equipaggio e passeggeri portano almeno mille anime. Mi hanno raccontato che sono galeoni che filano bene davanti al vento, ma sono pesanti col vento al traverso.”

“Quanti cannoni?”

“A volte venti o trenta su tre ponti.”

Padre Domingo era lieto di rispondere alle domande e di parlare e spiegare, e Blackthorne era altrettanto lieto di ascoltare e imparare. L’esperienza del frate, sparsa e sconnessa, era preziosa e vasta.

“No, señor,” gli stava dicendo ora. “Domo vuol dire ‘grazie’ e dozo ‘prego’. ‘Acqua’ è mizu. E ricordati sempre che i giapponesi danno grandissima importanza alle buone maniere e alla cortesia. Una volta ero a Nagasaki… Oh, se solo avessi penna e inchiostro e della carta! Ma sì… qui, disegna le parole nella polvere, ti aiuterà a ricordarle…”

Domo” ripeté Blackthorne. E dopo aver imparato qualche altra parola, chiese: “Da quanto tempo sono qui i portoghesi?”

“Oh, il paese venne scoperto nel 1542, señor, l’anno della mia nascita. Furono tre uomini, da Mota, Peixoto e il terzo non lo ricordo. Erano tutti mercanti portoghesi, che commerciavano lungo le coste della Cina con una giunca cinese, partendo da un porto siamese. Tu, señor, sei stato nel Siam?”

“No.”

“Ah, c’è tanto da vedere in Asia! Questi tre uomini furono colti da un’enorme tempesta, un tifone, e gettati fuori rotta, così che sbarcarono a Tanegashima, a Kyushu. Era la prima volta che un europeo metteva piede in Giappone e subito cominciarono i commerci. Pochi anni dopo giunse qui Francesco Xavier, uno dei fondatori della Compagnia di Gesù. Era il 1549… brutto anno per il Giappone, señor. Avrebbe dovuto essere primo uno dei nostri confratelli, allora avremmo conquistato noi questo regno, invece dei portoghesi. Francesco Xavier morì in Cina tre anni dopo, solo e abbandonato… Ho detto al señor che un gesuita si trova già alla corte dell’imperatore di Cina, in un luogo chiamato Pechino? Oh, dovreste vedere Manila, señor , e le Filippine! Abbiamo quattro cattedrali, quasi tremila conquistadores e circa seimila soldati giapponesi sparsi in tutta l’isola e trecento confratelli…”

La mente di Blackthorne si riempiva di dati e di parole e frasi giapponesi. Chiese notizie della vita in Giappone e dei daimyo, dei samurai e di Nagasaki, della guerra e della pace, dei gesuiti e i francescani e i portoghesi in Asia, e di Manila spagnola, e altre precisazioni sulla Nave Nera che ogni anno giungeva da Macao. Per tre giorni e tre notti Blackthorne sedette con padre Domingo e domandò, ascoltò e imparò. Ebbe incubi durante il sonno ma, appena sveglio, cominciava subito a porre altre domande per avere nuove informazioni.

Poi, il quarto giorno, gridarono il suo nome.

“Anjin-san!”