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Il corriere da Osaka arrivò dodici giorni dopo, nel pomeriggio, con una scorta di dieci samurai, dai cavalli schiumanti e prossimi a crollare. I gagliardetti sulle lance portavano l’insegna dell’onnipotente Consiglio dei reggenti. L’aria era grigia, afosa e carica di umidità.
Il corriere era un samurai snello e asciutto, uno dei principali luogotenenti di Ishido, famoso per la sua durezza e implacabilità. Si chiamava Nebara Jozen. Il chimono grigio era infangato e stropicciato, gli occhi rossi per la fatica. Rifiutò di mangiare e bere e, poco cortesemente, chiese udienza immediata a Yabu.
“Perdonate se mi presento in queste condizioni, Yabu-san, ma si tratta di faccende urgentissime,” disse. “Vi chiedo scusa. Il mio padrone domanda: ‘Perché addestrate uomini di Toranaga insieme ai vostri e, in secondo luogo, perché tante esercitazioni con i moschetti?”
Yabu, arrossendo per la collera davanti a tanta rudezza di modi, si trattenne. Capiva che Jozen doveva avere istruzioni precise e che tanta mancanza di cortesia rivelava una posizione di potere. Inoltre era molto colpito dal fatto che nel suo sistema di sicurezza ci fosse stata un’altra falla.
“Siete il benvenuto, Jozen-san. Potete assicurare al vostro padrone che ho sempre a cuore i suoi interessi,” rispose, con una gentilezza che non ingannò nessuno dei presenti.
Si trovavano sulla veranda della fortezza. Omi sedeva alle spalle di Yabu. Igurashi, che era stato perdonato da qualche giorno, era più vicino a Jozen e intorno a loro stavano le guardie. “Che altro dice il vostro padrone?”
“Sarà lieto che i vostri interessi siano i suoi. A proposito delle armi e dell’addestramento, il mio padrone vorrebbe sapere perché sia comandante in seconda Naga, figlio di Toranaga. ‘Comandante in seconda di che cosa? Cosa c’è di tanto importante perché un figlio di Toranaga si trovi qui?’ chiede molto cortesemente il Nobile generale Ishido. È un punto che gli interessa. E tutte le azioni dei suoi alleati gli interessano. Come mai, per esempio, a quanto pare, è il barbaro a occuparsi dell’addestramento? Addestramento a cosa? Anche questo, Yabu-sama, è molto interessante.” Jozen si aggiustò le spade, lieto di sentirsi protetto alle spalle dai suoi uomini. “Inoltre: il Consiglio dei reggenti si riunirà nel primo giorno della luna nuova. Fra venti giorni. Siete ufficialmente invitato a Osaka per rinnovare il vostro giuramento di fedeltà.”
Lo stomaco di Yabu si restrinse. “Ho sentito che Toranaga-sama si è dimesso…”
“Infatti, Yabu-san, infatti. Ma il suo posto sarà preso dal Nobile Ito Teruzumi. Il mio padrone sarà il nuovo presidente del Consiglio dei reggenti.”
Yabu fu preso dal panico: Toranaga aveva affermato che i quattro reggenti non si sarebbero mai messi d’accordo sulla nomina del quinto. Ito Teruzumi era un daimyo minore della provincia del Negato, nell’Honshu occidentale, ma la sua famiglia era antica, discendente da un ramo dei Fujimoto, e quindi egli poteva diventare reggente, anche se era un uomo inetto, un burattino effeminato. “Sarei onorato di ricevere il loro invito,” rispose, sulla difensiva, cercando di prendere tempo per riflettere.
“Il mio padrone riteneva che forse sareste partito subito, trovandovi così a Osaka per la riunione ufficiale. Mi ordina di comunicarvi che l’invito verrà trasmesso a tutti i daimyo. Subito. Così avranno modo tutti di arrivare entro il ventunesimo giorno. Per celebrare la solennità, Sua Maestà Imperiale, l’imperatore Go-Nijo, ha autorizzato una Cerimonia della Visione dei Fiori.” Jozen gli porse una pergamena.
“Ma il sigillo non è quello del Consiglio dei reggenti.”
“Il mio padrone ha spedito subito gli inviti, sapendo che, quale fedele vassallo del defunto Taikō e fedele vassallo di Yaemon, suo figlio ed erede e legittimo capo dell’impero non appena maggiorenne, comprenderete che il nuovo Consiglio approverà naturalmente il suo gesto.”
“Sarebbe senza dubbio un privilegio assistere alla riunione ufficiale,” rispose Yabu, lottando per dominare la propria espressione.
“Bene,” commentò Jozen. Estrasse un’altra pergamena, la aprì e la tenne alta. “Questa è una copia della lettera di nomina del Nobile Ito, accettata, firmata e autorizzata dagli altri reggenti, i Nobili Ishido, Kiyama, Onoshi, Sugiyama.” Jozen non si curò di nascondere un’aria di trionfo, sapendo che così si chiudeva la trappola su Toranaga e i suoi alleati e insieme che quella pergamena rendeva invulnerabili lui e i suoi uomini.
Yabu prese la pergamena con dita tremanti. Non c’era da dubitare della sua autenticità. Era controfirmata da Yodoko-sama, la vedova del Taikō, che dichiarava che il documento era autentico ed era stato firmato in sua presenza, che quella era una delle sei copie inviate in tutto l’impeto, e che era inviata in particolare ai signori di Iwari, Mikawa, Totomi, Sugura, Izu e Kwanto. La data era di undici giorni prima.
“I signori di Iwari, Mikawa, Sugura e Totomi hanno già accettato. Ecco i loro sigilli. Voi siete il penultimo della lista. L’ultimo è Toranaga-sama.“
“Ringraziate, vi prego, il vostro padrone e ditegli che pregusto il piacere di salutarlo e congratularmi con lui. ”
“Bene. Ho bisogno della vostra dichiarazione scritta. Se fosse subito, sarebbe meglio.”
“Stasera, Jozen-san. Dopo la cena.”
“Benissimo. Adesso possiamo andare ad assistere alle esercitazioni.”
“Oggi non ce ne sono. Tutti gli uomini stanno compiendo delle marce forzate,” rispose Yabu. Era stato avvertito non appena Jozen era entrato nell’Izu e aveva ordinato che tutti gli uomini interrompessero ogni sparatoria e continuassero a esercitarsi all’arma bianca, lontano da Anjiro. “Potete venire con me domani… a mezzogiorno, se volete.”
Jozen guardò il cielo. Era pomeriggio avanzato. “Bene. Gradirei dormire un poco, ma tornerò al crepuscolo, col vostro permesso. Allora voi e il vostro comandante Omi-san, e il comandante in seconda Naga, mi parlerete, nell’interesse del mio padrone, dell’addestramento, dei moschetti e di tutto. E del barbaro.”
“Egli è… Naturalmente.” Yabu fece un cenno a Igurashi. “Provvedi all’alloggio per il nostro onorato ospite e i suoi uomini.”
“Grazie, ma non è necessario,” rispose subito Jozen. “La terra è un ottimo letto per un samurai, e la mia sella mi farà da cuscino. Soltanto un bagno, per favore, se non vi dispiace… c’è tanta umidità, ne? Ci accamperemo in cima alla collina… col vostro permesso, naturalmente.”
“Come desiderate.”
Jozen s’inchinò rigidamente e se ne andò, circondato dai suoi uomini, tutti con l’armatura pesante.
Appena si furono allontanati, Yabu parlò col volto contratto per l’ira. “Chi mi ha tradito? Chi? Dov’è la spia?”
Igurashi, con un viso color cenere, allontanò le guardie. “A Yedo, signore,” disse. “Non può essere altrimenti. Qui la sicurezza è assoluta, il segreto è completo.”
“Oh ko!” esclamò Yabu, quasi strappandosi le vesti. “Sono tradito. Siamo tagliati fuori. L’Izu e il Kwanto sono tagliati fuori. Ishido ha vinto. Ha vinto!”
“Per venti giorni ancora no,” si affrettò a dire Omi. “Mandate subito un messaggio al Nobile Toranaga. Informatelo che…”
“Idiota!” sibilò Yabu. “Toranaga lo sa già, è ovvio. Se da me c’è una spia, da lui ce ne sono cinquanta. Mi ha lasciato nella trappola.”
“Io non lo credo, signore,” insisté Omi, senza timore. “Iwari, Mikawa, Totomi e Sugura gli sono tutti ostili, ne? E lo sono anche a ogni suo alleato. Non lo avvertirebbero mai, perciò forse ancora non lo sa. Informatelo e suggeritegli…”
“Non hai sentito?” gridò Yabu. “Tutti e quattro i reggenti concordano sulla nomina di Ito, quindi il Consiglio è di nuovo pienamente legale e fra venti giorni si riunisce!”
“La risposta è semplice, signore. Suggerite a Toranaga che deve far uccidere immediatamente Teruzumi o un altro dei reggenti.”
Yabu restò a bocca spalancata. “Che cosa?”
“Se non volete farlo voi, mandate me. Lasciatemi provare. O Igurashi-san. Morto il Nobile Ito, Ishido è di nuovo perduto.”
“Non so se tu sia impazzito o cos’altro,” commentò sconsolato Yabu. “Ti rendi conto di quello che hai detto?”
“Signore, vi scongiuro, siate paziente con me. L’Anjin-san vi ha fornito informazioni senza prezzo, ne? Più di quanto avessimo mai sognato. Toranaga sa anche questo, dai vostri rapporti e probabilmente dai rapporti riservati di Naga-san. Se guadagniamo tempo a sufficienza, i nostri cinquecento moschetti e gli altri trecento vi daranno una forza in battaglia assolutamente superiore. Però solo per una volta. Appena il nemico, chiunque debba essere, avrà visto come impiegate gli uomini e la potenza di fuoco, imparerà alla svelta anche lui. Ma intanto avrà perso quella prima battaglia. Una sola battaglia — se è quella giusta — darà a Toranaga la vittoria completa.”
“Ishido non ha bisogno di nessuna battaglia. Entro venti giorni avrà il mandato dell’imperatore.”
“Ishido è un contadino, figlio di contadino, è un bugiardo che abbandona i compagni in battaglia, scappando via.”
Yabu fissò Omi, con la faccia chiazzata di rossore. “Sai quello che stai dicendo?”
“Così ha fatto in Corea. Io c’ero. L’ho visto, e l’ha visto mio padre. Ishido ha abbandonato Buntaro-san e noi tutti. Non è che un contadino infido… il cane del Taikō, certo. Non potete fidarvi dei contadini. Toranaga è un Minowara, di lui potete fidarvi. Io vi consiglio di pensare solo all’interesse di Toranaga.”
Yabu scosse la testa, incredulo. “Sei sordo? Non hai udito Nebara Jozen? Ishido ha vinto. Entro venti giorni il Consiglio sarà al potere.”
“Può essere al potere.”
“Anche se Ito… Ma come potresti? È impossibile.”
“Io potrei certo provare, ma non arriverei mai in tempo. Nessuno di noi lo potrebbe in venti giorni. Ma Toranaga sì.” Omi sapeva di avere infilato la testa nelle fauci del drago. “Vi prego di prendere in considerazione questa soluzione.”
Yabu si asciugò il viso con le mani. Era tutto sudato. “Dopo questa chiamata, se il Consiglio si riunisce e io non sono presente, saremo tutti morti, io e il mio clan, te compreso. Ho bisogno di almeno due mesi per addestrare il reggimento. Anche se lo avessimo pronto adesso, Toranaga e io non riusciremmo mai a vincere tutti gli altri. No, ti sbagli. Devo appoggiare Ishido.”
“Non avete bisogno di partire per Osaka prima di dieci giorni… quattordici, se andate a marce forzate. Avvertite immediatamente Toranaga di Nebara Jozen. Salverete l’Izu e il clan dei Kasigi. Vi imploro. Ishido vi tradirà e vi divorerà. Ikawa Jikkyu è suo parente, ne?”
“E di Jozen, che farne?” esclamò Igurashi. “E le armi? La strategia grandiosa? Lui vuole sapere tutto stasera.”
“Diteglielo. Nei particolari. Non è che un servo,” ribatté Omi. Sapeva che stava rischiando tutto, ma doveva tentare di impedire a Yabu di schierarsi con Ishido, distruggendo ogni loro possibilità. “Rivelategli i vostri piani.”
Igurashi si dichiarò contrario, con calore. “Appena saprà cosa facciamo, Jozen manderà un messaggio a Ishido-sama. È troppo importante perché non lo faccia. Ishido ruberà tutto il piano e noi saremo finiti.”
“Seguiremo il messaggero e lo uccideremo.”
Yabu arrossì. “La pergamena era firmata dalle autorità più alte del paese! Viaggiano tutti sotto la protezione dei reggenti! Sei pazzo a consigliare un gesto simile! Mi renderebbe un fuorilegge!”
Omi scosse la testa, mantenendo un’aria sicura. “Io sono convinto che la Nobile Yodoko e gli altri sono stati ingannati, come è stata ingannata Sua Maestà Imperiale, dal traditore Ishido. Noi dobbiamo proteggere le armi, signore. Dobbiamo fermare qualunque messaggero…”
“Silenzio! I tuoi consigli sono una follia!”
Omi si inchinò alle parole sferzanti, ma alzò gli occhi e riprese con calma: “Allora permettetemi di fare seppuku, signore. Ma prima, vi prego, permettetemi di finire. Mancherei al mio dovere se non cercassi di proteggervi. Vi chiedo questo ultimo favore da fedele vassallo.”
“Finisci!”
“Non esiste Consiglio dei reggenti adesso, quindi non esiste protezione legale per l’ingiurioso e villano Jozen e i suoi uomini, a meno che voi rispettiate un documento illegale perché…” Omi stava per dire “siete debole”, ma si corresse in tempo e mantenne nella voce un tono fermo e tranquillo, “…venite ingannato come gli altri, signore. Non esiste nessun Consiglio. Non possono ‘ordinare’ né a voi né a nessuno di fare niente. Quando il Consiglio fosse riunito, allora potrebbero, e allora dovreste obbedire. Ma adesso, quanti daimyo obbediranno prima che vengano emanati ordini legittima Solo gli alleati di Ishido, ne? Iwari, Mikawa, Totomi e Sugura non sono forse in mano a suoi parenti e alleati dichiarati? Quel documento significa la guerra, ma io vi scongiuro di farla, questa guerra, secondo i termini vostri, e non quelli di Ishido. Trattate questa minaccia col disprezzo che merita! Toranaga in battaglia non è mai stato sconfitto, Ishido sì. Toranaga ha evitato di prendere parte alla rovinosa campagna del Taikō contro la Corea, Ishido no. Toranaga è favorevole alla marina e al commercio, Ishido no. Toranaga mirerà alla flotta del barbaro — e non gliel’avete chiesta anche voi? Ishido no, mai. Ishido chiuderà l’impero, Toranaga lo aprirà. Se vince, Ishido consegnerà a Ikawa Jikkyu il vostro feudo ereditario dell’Izu. Toranaga darà a voi la provincia di Jikkyu. Voi siete l’alleato principale di Toranaga. Non vi ha forse donato la sua spada? Non vi ha affidato il controllo delle artiglierie? E le artiglierie non assicurano forse una vittoria, se usate di sorpresa? Che cosa vi offre in cambio il contadino Ishido? Vi manda qui un samurai-ronin, maleducato e rozzo, con l’ordine preciso di coprirvi di vergogna davanti a tutta la vostra provincia! Io dichiaro che Toranaga Minowara è per voi l’unica scelta possibile. Dovete schierarvi con lui.” S’inchinò e attese in silenzio.
Yabu osservò Igurashi. “Ebbene?”
“Sono d’accordo con Omi-san, signore.” Il viso di Igurashi rivelava rutta la sua ansia. “Quanto a uccidere un messaggero… sarebbe pericoloso e dopo non si potrebbe più tornare indietro. Jozen certamente ne spedirà uno domani, uno o due. Forse potrebbero scomparire, ammazzati dai banditi…” s’interruppe. “I piccioni viaggiatori! Ce n’erano due cesti fra i bagagli di Jozen!”
“Dovremo avvelenarli stanotte,” disse Omi.
“Come? Saranno sorvegliati.”
“Non lo so. Ma occorre eliminarli prima dell’alba.”
“Igurashi, manda subito a sorvegliare Jozen,” ordinò Yabu. “Controlla se spedisce oggi uno dei piccioni.”
“Vi consiglio anche di mandare immediatamente a est tutti i nostri falconi e i falconieri,” aggiunse Omi, in fretta.
“Se vedrà catturare un piccione o scoprirà che si traffica con i suoi uccelli, si insospettirà,” replicò Igurashi.
Omi si strinse nelle spalle. “È indispensabile fermarlo.”
Igurashi guardò Yabu. E questi annuì, con rassegnazione. “Va bene.”
Appena di ritorno, Igurashi si rivolse a Omi. “Omi-san, mi è venuta in mente una cosa: molto di quanto avete detto, riguardo a Jikkyu e al Nobile Ishido, è giusto, ma se consigliate di far ‘scomparire’ i messaggeri, perché perdere tempo con Jozen? Perché rivelargli tutto? Perché non ammazzare tutti in una volta?”
“Perché no, davvero? A meno che ciò possa divertire Yabu-sama. Riconosco che il vostro piano è migliore, Igurashi-san.”
Entrambi fissarono Yabu. “Come posso mantenere il segreto sulle armi?” chiese lui.
“Uccidete Jozen e i suoi,” rispose Omi.
“Non c’è altro modo?”
Omi scosse il capo e Igurashi ripeté il gesto.
“Forse potrei arrivare a un baratto con Ishido,” disse Yabu, scosso, cercando di escogitare una via d’uscita. “Hai ragione a proposito del tempo: ho dieci giorni, forse anche quattordici. Come comportarmi con Jozen e intanto avere il tempo di manovrare?”
“Sarebbe saggio fingere che andrete a Osaka,” suggerì Omi. “Ma non c’è niente di male a informare subito Toranaga, ne? Uno dei nostri piccioni potrà essere a Yedo prima di sera. Probabilmente. Non c’è niente di male in questo.”
“Potreste spiegare a Toranaga-sama dell’arrivo di Jozen,” intervenne Igurashi, “e della riunione del Consiglio entro venti giorni. Invece il resto, riguardo all’assassinio del Nobile Ito, è troppo pericoloso per metterlo per scritto… Troppo pericoloso, ne?”
“D’accordo. Niente su Ito. Toranaga deve pensarci da sé. È ovvio, ne?”
“Sì, signore. Inammissibile, ma ovvio.”
Nel silenzio Omi aspettava, cercando freneticamente una soluzione. Sentiva su di sé lo sguardo di Yabu, ma non lo temeva. Il suo consiglio era buono e volto solo a proteggere il clan, la famiglia e Yabu, l’attuale capo del clan. Che Omi avesse deciso di eliminare Yabu e cambiare il capo non gli aveva impedito di dare a Yabu un consiglio intelligente e acuto. E adesso era pronto a morire. Se Yabu era così stupido da non ammettere l’evidente verità delle sue idee, presto non sarebbe più esistito nessun clan da guidare. Karma.
Yabu si chinò in avanti, ancora indeciso. “Come potrei allontanare Jozen e i suoi uomini senza pericolo per me, e riuscire a non impegnarmi per dieci giorni?”
“Naga. Inventate una trappola in cui Naga abbocchi all’amo,” rispose Omi con semplicità.
Blackthorne e Mariko arrivarono alla porta di casa al crepuscolo, seguiti dalla scorta. Erano stanchi entrambi. Mariko cavalcava come un uomo, con pantaloni larghi e un mantello, stretto in vita. Portava anche un cappello a larghe tese e i guanti per proteggersi dal sole. Persino le contadine cercavano di riparare dal sole il volto e le mani. Da tempo immemorabile, più la pelle era scura, più basso era il rango dell’individuo; più la pelle era bianca, più era apprezzata.
I servi si occuparono dei cavalli e Blackthorne licenziò il seguito in un giapponese discreto, poi salutò Fujiko che aspettava orgogliosa sulla veranda, come sempre.
“Posso servirvi del cha, Anjin-san?” chiese lei cerimoniosamente, come sempre, ed egli rispose, come sempre: “No. Prima farò il bagno. Poi sakè e qualcosa da mangiare.” E, come sempre, le ricambiò l’inchino e se ne andò nel retro della casa, attraversò il giardino e raggiunse la casa del bagno. Una domestica gli prese i vestiti e l’inglese si sedette, all’interno, completamente nudo. Un’altra domestica lo insaponò e lo strofinò, gli lavò i capelli e gli versò addosso l’acqua per sciacquar via la schiuma e il sudicio. Poi, ben pulito, per gradi s’immerse nell’acqua bollente della enorme vasca di ferro e si distese.
“Gesù, che meraviglia!” esclamò felice e con gli occhi chiusi si lasciò penetrare dal calore, fin dentro i muscoli, mentre il sudore gli scorreva dalla fronte. Sentì la porta aprirsi e la voce di Suwo che lo salutava con un: “Buonasera, padrone,” e una serie di parole ancora incomprensibili. Quella sera era troppo stanco per sforzarsi di conversare con Suwo. “E il bagno,” come Mariko gli aveva spiegato più volte, “non è solo per pulire la pelle. È un dono di Dio o degli dei, una gioia che ci viene elargita e che come tale deve essere gustata e apprezzata.”
“Non parliamo, Suwo,” disse. “Stasera volere riflettere.”
“Sì, padrone. Perdonate, ma dovete dire: ‘Stasera io voglio riflettere.’ ”
Blackthorne ripeté la frase esatta, cercando di ficcarsi in testa i suoni quasi incomprensibili, lieto di essere corretto, ma anche stanco.
“Dov’è il libro di grammatica-dizionario?” aveva chiesto quella mattina a Mariko, per prima cosa. “Yabu-sama lo ha mandato a chiedere di nuovo?”
“Sì. Abbiate pazienza, Anjin-san. Presto arriverà.”
“Mi era stato promesso con la galea e i soldati. E non è arrivato. Soldati e armi, sì, ma libri niente. Per fortuna ci siete voi, altrimenti sarebbe impossibile.”
“Difficile, ma non impossibile, Anjin-san.”
“Come devo dire: ‘No, sbagliate! Dovete correre tutti insieme in squadra, fermarvi in squadra, e sparare in squadra.’?”
“A chi vi rivolgete, Anjin-san?” aveva detto lei.
Di nuovo Blackthorne si era sentito frustrato. “È tutto molto difficile, Mariko-san.”
“Oh, no, Anjin-san. Il giapponese è molto semplice in confronto ad altre lingue. Non ci sono articoli, né ‘il, lo, la’, né ‘un, una’. Non ci sono coniugazioni di verbi né infiniti. Tutti i verbi sono regolari, e terminano in masti e se volete potete dire quasi tutto usando solo il presente. In una domanda dovete aggiungere solo ka dopo il verbo. In una frase negativa, aggiungete masen, invece di masu. Che c’è di più facile? Yukimasu significa ‘io vado’, ma anche ‘tu, egli, ella, noi, voi, essi vanno’, o ‘andranno’, e anche ‘potrebbero essere andati’. Perfino il plurale e il singolare dei sostantivi è uguale. Tsuma significa sia ‘moglie’ che ‘mogli’. È semplicissimo.”
“Bene, come indicate la differenza fra ‘io vado’ e ‘essi andarono’?”
“Con l’inflessione della voce, Anjin-san, e il tono. Ascoltate: yukimasu yukimasu.
“Ma suonano uguali!”
“Ah, Anjin-san, perché pensate nella vostra lingua. Per capire il giapponese, dovete pensare in giapponese. Non dimenticate che la nostra è la lingua dell’infinito. È tutto così semplice, Anjin-san. Cambiate la vostra concezione del mondo. Il giapponese significa imparare un’arte nuova, distaccata dal mondo… è tutto semplice.”
“È merda,” mormorò lui, in inglese, e si sentì meglio.
“Come? Cosa avete detto?”
“Niente. Ma quello che dite voi non ha senso.”
“Imparate i caratteri scritti,” consigliò Mariko.
“Non posso. Ci vuole troppo tempo. Sono senza significato.”
“Sentite, sono in realtà delle semplici immagini. I cinesi sono molto intelligenti. Un migliaio d’anni fa noi abbiamo preso da loro la scrittura. Guardate: questo carattere, o simbolo, è per il maiale.”
“Non assomiglia a un maiale.”
“Un tempo sì, Anjin-san. Lasciate che vi mostri. Ecco: aggiungete il simbolo del tetto sopra a quello del maiale, e cosa ottenete?”
“Un maiale e un tetto.”
“Ma cosa significa, questo nuovo carattere?”
“Non lo so.”
“‘Casa.’ Nel passato i cinesi ritenevano che un maiale sotto un tetto fosse la casa. Non sono buddisti, mangiano carne, quindi il maiale per loro, contadini, rappresentava la ricchezza e perciò una casa accogliente. Da qui è derivato il carattere.”
“Ma come lo pronunciate?”
“Dipende se si è cinesi o giapponesi.”
“Oh ko!”
“Oh ko davvero!” aveva riso lei. “Ecco un altro carattere: i simboli del tetto e del maiale e in più quello di una donna. Un tetto con due maiali significa ‘soddisfazione’. Un tetto con due donne significa ‘discordia’.”
“Indiscutibilmente!
“Naturalmente i cinesi sono molto sciocchi in molte cose e le loro donne non vengono istruite come da noi. Nella vostra casa non c’è discordia, vero?”
Quella sera, nel dodicesimo giorno della sua rinascita, Blackthorne ci stava riflettendo: non c’era discordia, no. Ma non era neppure come una casa. Fujiko era solo una fedele governante e quando egli si fosse recato a dormire, la sera, le trapunte sarebbero state preparate e Fujiko sarebbe stata lì in ginocchio, paziente e senza espressione, con il chimono da notte, simile a quello da giorno, solo con una cintura molle invece del rigido obi.
“Grazie, mia signora,” diceva lui. “Buonanotte.”
Lei si inchinava e in silenzio si ritirava nella stanza dall’altra parte del corridoio, vicina a quella di Mariko. Lui si infilava sotto la zanzariera di seta sottile. Non ne aveva mai viste prima. Poi, sdraiato beatamente, sentendo gli insetti ronzare, meditava sulla Nave Nera e su quanto fosse importante per il Giappone. Senza i portoghesi, niente commercio con la Cina. E niente seta per gli abiti e le zanzariere. Già al principio della stagione, con l’umidità che infittiva l’aria, egli ne capiva il valore.
Se durante la notte si agitava, una domestica quasi subito apriva la porta per chiedergli se gli occorresse qualcosa. La prima volta non aveva capito. Mandata via la cameriera, era andato a sedersi sui gradini, in giardino, a contemplare la luna. Dopo pochi minuti, assonnata, era giunta Fujiko, che gli si era seduta accanto, in silenzio.
“Posso portarvi qualcosa, signore?”
“No, grazie. Andate a letto, vi prego.”
La ragazza aveva risposto, ma lui non aveva capito. Le aveva fatto cenno di andarsene e lei si era rivolta con asprezza alla cameriera, che la seguiva come un’ombra. In pochi minuti era comparsa Mariko.
“State bene, Anjin-san?”
“Sì. Non capisco perché vi abbiano disturbata. Cristo Gesù, sto solo guardando la luna! Non potevo dormire e volevo prendere un po’ d’aria.”
Fujiko a disagio, colpita dal tono irritato della sua voce, aveva mormorato qualcosa. “Dice che le avete raccomandato di tornare a letto. Voleva solo farvi sapere che da noi è uso che la moglie o la concubina non dorma se il padrone sta sveglio, ecco tutto, Anjin-san.”
“Allora dovrà cambiare usi. Io spesso sto sveglio di notte. Per conto mio. È un’abitudine che si prende in mare… a terra ho il sonno molto leggero.”
“Sì, Anjin-san.” Mariko aveva spiegato la situazione e si erano ritirate entrambe. Ma Blackthorne sapeva che Fujiko non era tornata a dormire e non l’avrebbe fatto, finché lui fosse rimasto sveglio. A qualunque ora egli tornasse a casa, la trovava in piedi ad aspettarlo. In certe notti Blackthorne andava a passeggiare lungo il mare, ma per quanto insistesse che voleva restare solo, sapeva di essere seguito e sorvegliato. Non perché temessero una sua fuga, ma solo perché era d’uso che le persone importanti fossero sempre seguite. E ad Anjiro lui era importante.
Col tempo aveva imparato ad accettare la presenza di Fujiko. Come aveva detto Mariko in principio: “Pensate a lei come fosse una roccia o uno shop o una parete. È suo dovere servirvi.”
Con Mariko era diverso. Era contento che fosse rimasta. Senza la sua presenza non avrebbe mai potuto incominciare l’addestramento, e tanto meno spiegare le sottigliezze della strategia. Mandava continue benedizioni a lei e a frate Domingo, ad Alban Caradoc e a tutti gli altri maestri.
Non avrei mai immaginato che le battaglie sarebbero servite a qualcosa, pensò di nuovo. Una volta, mentre si trovava ad Anversa con la sua nave per un carico di lana, truppe spagnole erano piombate sulla città e tutti erano corsi alle barricate e alle dighe. L’attacco era stato sventato e gli spagnoli respinti. Era stata la prima volta che egli aveva visto Guglielmo d’Orange muovere i reggimenti come pezzi degli scacchi: attacchi, ritirate in falso disordine per raggrupparsi di nuovo, cariche, un fitto fuoco di artiglieria assordante e terribile, gli “invincibili” in agonia, un puzzo di polvere e sangue e urina e cavalli tutt’intorno, e l’ebbrezza di uccidere, che dava a ognuno la forza di venti uomini.
“Gesù, com’è grandioso vincere!” esclamò a voce alta.
“Padrone?” domandò Suwo.
“Niente,” rispose in giapponese. “Parlavo, cioè pensavo a voce alta.”
“Capisco, padrone. Scusate.”
Blackthorne si allontanò di nuovo col pensiero. Mariko era stata davvero preziosissima, impareggiabile. Dopo quella notte del suo quasi-suicidio, non era stato detto più nulla. Ma cosa ci sarebbe stato da dire? Sono contento di aver tanto da fare, pensò. Non c’è tempo per riflettere, se non questi pochi minuti dentro il bagno. Il tempo non basta per tutto. Con l’obbligo di concentrarsi sull’addestramento e l’insegnamento, ma con l’ansia di imparare, cercando a ogni costo di imparare per mantenere la promessa fatta a Yabu, le ore non bastavano mai. Si sentiva sempre sfinito, da quando andava a letto, addormentandosi all’istante, a quando si alzava all’alba e si affrettava a cavallo sull’altura. L’addestramento durava per tutta la mattina, poi un pasto frugale, sempre insoddisfacente e senza carne. E ogni pomeriggio passava — fino al tramonto, e a volte sino a notte inoltrata — con Yabu, Omi, Igurashi, Naga e Zukimoto e qualche altro ufficiale, a parlare della guerra e rispondere a domande sulla guerra, su come la facevano i barbari e come i giapponesi, per terra e per mare, sempre con degli scrivani che annotavano. Tantissime note.
A volte da solo con Yabu, ma sempre con Mariko — parte di lui — che parlava per lui e per Yabu. Mariko, che ora era diversa nei suoi confronti. Non era più un estraneo.
Ogni tanto gli scrivani rileggevano le note, per controllare, meticolosamente, ogni dettaglio, tanto che, dopo dodici giorni e un centinaio di ore di spiegazioni, si era quasi arrivati a un manuale sulla guerra, un manuale preciso e letale.
Letale per chi? Non per noi o gli olandesi, che verranno qua pacificamente, solo per commerciare, ma letale per i nemici di Yabu e di Toranaga, e per i nostri nemici spagnoli e portoghesi, quando cercheranno di conquistare il Giappone come hanno fatto in ogni altro luogo, in ogni nuovo territorio scoperto. Arrivano prima i preti, e poi i conquistadores. Ma qui no, pensò con profonda soddisfazione. Mai qui, adesso. Il manuale è solido e letale. In pochi anni sarà diffuso e conosciuto e qui non avverrà nessuna conquista.
“Anjin-san?”
“Hai, Mariko-san?”
Mariko si stava inchinando. “Yabu-ko wa kiden no goshusseki o kon-ya wa hitsuyo to senu to oseraru, Anjin-san.”
Le parole presero forma lentamente nella mente: il Nobile Yabu non desidera vedervi stasera.
“Ichi-ban” disse contento. “Domo.”
“Gomen nasai, Anjin-san. Anatawa…”
“Sì, Mariko-san,” la interruppe, svuotato di energia per il calore dell’acqua. “So che avrei dovuto dirlo in un altro modo, ma non voglio parlare giapponese adesso. Non stasera. Mi sento come un ragazzino che lascia la scuola per le vacanze di Natale. Vi rendete conto che sono le prime ore libere da quando sono arrivato?”
“Sì, è vero.” Sorrise maliziosa. “E voi vi rendete conto, senhor capitano-pilota, B’rack’fon, che sono le prime ore libere da quando sono arrivata?”
Egli rise. Mariko indossava un ampio chimono-accappatoio, e portava una salvietta in testa per riparare i capelli. Ogni sera, appena lui passava al massaggio, lei faceva il bagno, a volte sola, a volte con Fujiko.
“Vi lascio il posto,” disse, accingendosi a uscire.
“Oh, no, non voglio disturbarvi!”
“Allora venite anche voi. È splendido.”
“Grazie. Non vedo l’ora di togliermi di dosso polvere e sudore.” Si sfilò il chimono e sedette sullo stretto sedile. Una serva cominciò a insaponarla, mentre Suwo aspettava paziente, vicino al tavolo del massaggio.
“È davvero come una vacanza da scuola,” osservò Mariko, lieta.
La prima volta che l’aveva vista nuda, nel giorno dei tuffi, Blackthorne ne era stato molto turbato, ma adesso la sua nudità, di per sé, non lo toccava in senso fisico. Vivendo così vicini, secondo lo stile giapponese, in una casa giapponese dalle pareti di carta, con ogni stanza adibita a più usi, l’aveva vista spesso svestita o vestita parzialmente. L’aveva persino vista soddisfare le sue necessità intime.
“Cosa c’è di più normale, Anjin-san? Il corpo è una cosa normale, e le differenze fra uomo e donna sono normali, ne?”
“Sì, ma il fatto è che… insomma, noi siamo abituati in maniera diversa.”
“Però adesso siete qui e i nostri usi sono i vostri e il normale è normale. Ne?”
Era normale orinare o defecare all’aperto, se non c’erano a disposizione latrine o secchi; bastava sollevare il chimono, o scostarlo, e accovacciarsi, o orinare in piedi, mentre gli altri aspettavano cortesemente, senza guardare. Di rado esistevano dei ripari. Che bisogno c’era? Subito un contadino raccoglieva le feci e le mescolava con acqua, per concimare i campi. Feci e urina umane erano l’unico fertilizzante dell’impero, in realtà. Si trovavano alcuni cavalli e tori e nessun altro animale, perciò tutto veniva conservato e venduto ai contadini, in tutto il paese. E dopo aver visto ogni genere di persone, di alto e basso rango, sollevare o scostare il chimono e accovacciarsi, restava poco che generasse imbarazzo.
“C’è da sentirsi imbarazzati, Anjin-san?”
“No.”
“Bene,” aveva detto lei, soddisfatta. “Presto vi piacerà il pesce crudo e vi piaceranno le alghe fresche e allora sarete davvero hatamoto.”
La domestica le rovesciò addosso l’acqua fredda, poi Mariko entrò nella vasca e si sdraiò davanti a lui, con un lungo sospiro di piacere, il piccolo crocifisso che le pendeva sul petto.
“Come fate?” le chiese lui.
“Che cosa?”
“A entrare così in fretta. È bollente.”
“Non so, Anjin-san, ma ho chiesto che riscaldino l’acqua anche di più. Per voi se ne occupa sempre Fujiko… sta attenta che sia tiepida.”
“Se questa è tiepida, io sono un turco!”
“Come?”
“Niente.”
Il calore provocava sonnolenza e rimasero zitti, cullandosi nell’acqua. Poi lei domandò: “Che cosa vi piacerebbe fare stasera, Anjin-san?”
“Se fossimo a Londra, noi…” Blackthorne s’interruppe. Non voglio pensarci, si disse. E non voglio pensare a Londra. È tutto passato, non esiste. Esiste solo il presente.
“Se?” Mariko lo scrutava, avvertendo il suo cambiamento.
“Andremmo a teatro a vedere una commedia,” rispose Blackthorne, dominandosi. “Qui fate teatro?”
“Oh, sì. Ci piace molto. Il Taikō amava recitare lui stesso per intrattenere i suoi ospiti, e anche a Toranaga-sama piace. Naturalmente ci sono molte compagnie che girano, per il pubblico comune. Ma credo che le nostre commedie siano molto diverse dalle vostre. Attori e attrici qui portano la maschera. I drammi si chiamano no e sono con musiche e danze e quasi sempre di carattere storico e molto tristi, tragici. A volte invece sono commedie. Andremmo a una commedia o forse a un dramma religioso?”
“No, andremmo al Globe a vedere il lavoro di un autore che si chiama Shakespeare. A me piace più di Ben Jonson e di Marlowe. Forse vedremmo La bisbetica domata o Il sogno di una notte di mezza estate o Romeo e Giulietta. Quest’ultimo a mia moglie è piaciuto molto.” Gliene raccontò la trama.
Mariko la trovò quasi incomprensibile. “Qui sarebbe inconcepibile per una ragazza disobbedire in quel modo al padre. Ma è triste ne? Triste per una ragazza così giovane e anche per il ragazzo. Aveva solo tredici anni? Le vostre signore si sposano tanto giovani?”
“No. Di solito a quindici, sedici anni. Mia moglie ne aveva diciassette, quando ci siamo sposati. Voi quanti ne avevate?”
“Soltanto quindici, Anjin-san.” Sul viso le passò un’ombra, che egli non scorse. “E dopo la commedia, cosa faremmo?”
“Vi porterei a pranzo. Andremmo alla Stone’s Chop House, in Fetter Lane, o al Cheshire Cheese, in Fleet Street. Sono posti dove si mangia benissimo.”
“Che cosa mangereste?”
“Preferisco non ricordarmelo,” rispose lui, con un sorriso pigro, riportando la mente al presente. “Non lo voglio ricordare. Siamo qui e qui mangeremo, e mi piace il pesce crudo e il karma è il karma.” Affondò maggiormente nell’acqua. “Una grande parola karma. E un grande concetto. Il vostro aiuto è immenso, Mariko-san.”
“È un piacere per me esservi utile, un poco.” Mariko si abbandonò rilassata. “Fujiko vi ha preparato qualcosa di speciale per stasera.”
“Davvero?”
“Ha comprato… credo che voi lo chiamiate fagiano. Un uccello grosso. Gliel’ha procurato un falconiere.”
“Un fagiano? Dite sul serio? Proprio honto!”
“Honto,” rispose lei. “Fujiko ha chiesto che lo prendessero per voi e mi ha pregato di dirvelo.”
“Come lo cucinano?”
“Uno dei soldati lo ha visto preparare dai portoghesi e lo ha spiegato a Fujiko-san. Vi prega di avere pazienza se non sarà perfetto.”
“Ma come lo fa… cioè, come fanno i cuochi?” Si corresse, perché solo i domestici cucinavano e pulivano.
“Le hanno detto che prima bisogna togliere le penne, poi… le interiora.” Mariko vinse il ribrezzo. “Poi bisogna tagliare l’uccello a pezzi e friggerlo nell’olio, oppure lessarlo con sale e spezie.” Arricciò il naso. “A volte lo coprono di fango e lo cuociono fra le braci. Noi non abbiamo forni, Anjin-san, perciò sarà fritto. Spero che vada tutto bene.”
“Sono sicuro che sarà perfetto,” rispose lui, certo che sarebbe stato immangiabile.
Mariko rise. “Siete così trasparente, a volte, Anjin-san!”
“Non capite quanto sia importante il mangiare!” Sorrise, nonostante tutto. “Avete ragione. Non dovrebbe interessarmi. Ma non riesco a dominare la fame.”
“Presto ne sarete capace. Dovete ancora imparare a bere il cha da una tazza vuota.”
“Come?”
“Non è il luogo né il momento di spiegarvelo, Anjin-san. Dovete essere ben desto e lucido. È necessario farlo in un tramonto quieto, o all’alba. Un giorno ve lo mostrerò, perché avete compiuto il gesto che avete compiuto. Oh, si sta bene qui, vero? Un bagno è davvero un dono divino.”
Blackthorne udì le domestiche trafficare con il fuoco, al di là della parete. Sopportò il più possibile il calore crescente, poi uscì dall’acqua aiutato da Suwo e si sdraiò ansante sull’asciugamano spesso. Le dita del vecchio lo toccarono qua e là. L’inglese avrebbe gridato per il piacere. “È splendido.”
“Siete tanto cambiato negli ultimi giorni, Anjin-san. ”
“Davvero?”
“Oh, sì, dopo la vostra rinascita… molto, sì.”
Blackthorne tentò di ricordare la prima notte, ma non ci riuscì. In qualche modo era tornato a casa e Fujiko e le domestiche lo avevano aiutato ad andare a letto. Si era svegliato all’alba, dopo un sonno senza sogni, ed era andato a nuotare, poi, asciugandosi nel sole, aveva ringraziato Dio per la forza e l’aiuto offertigli da Mariko. Tornando a casa aveva salutato i paesani, segretamente felice che fossero liberi, come lui, dalla maledizione di Yabu.
Quando più tardi era giunta Mariko, aveva mandato a chiamare Mura.
“Mariko-san, prego, dite a Mura: ‘Voi e io abbiamo un problema. Lo risolveremo insieme. Voglio andare alla scuola del villaggio. Imparerò a parlare con i bambini.’ ”
“Ma non esiste una scuola, Anjin-san.”
“Nessuna scuola?”
“No. C’è un monastero a qualche ri di distanza, e i monaci potrebbero insegnarvi a leggere e scrivere, se volete. Ma questo è un villaggio, Anjin-san. Qui i bambini devono imparare quanto riguarda il mare, il pesce, le reti, la semina e la coltura e il raccolto del riso. Resta poco tempo per altro. E genitori e nonni, come sempre, fanno da maestri.”
“Allora come potrò imparare, quando voi ve ne sarete andata?”
“Toranaga-sama manderà i libri.”
“Ho bisogno di qualcosa di più che i libri.”
“Tutto andrà bene, Anjin-san.”
“Sì, forse. Ma dite al capo che ogni volta che sbaglio, chiunque — chiunque, anche un bambino — deve correggermi, subito. Lo ordino.”
“Vi ringrazia, Anjin-san.”
“C’è nessuno qui che parli portoghese?”
“Dice di no.”
“E nelle vicinanze?”
“Iyé, Anjin-san.”
“Mariko-san, ho bisogno di qualcuno per quando sarete partita.”
“Riferirò a Yabu le vostre parole.”
“Mura-san, voi…”
“Dice che non dovete usare ‘san’ con lui e con nessuno dei paesani. Sono inferiori a voi e non si dice ‘san’ a chi è inferiore.”
Anche Fujiko si era inchinata fino a terra quel giorno. “Fujiko-san vi dà il benvenuto a casa, Anjin-san. Dice che le avete reso un grande onore e vi chiede perdono di essere stata sgarbata sulla nave. È onorata di esservi concubina e capo della casa. Vi prega di conservare le spade, perché le fareste un grande piacere. Appartenevano a suo padre, che è morto, e non le aveva donate a suo marito, perché egli già le possedeva.”
“Ringraziatela e ditele che sono onorato di averla come concubina.”
Anche Mariko si era inchinata, con gesto ufficiale. “Vivete una nuova vita ora, Anjin-san. Noi vi guardiamo con occhi nuovi. È nostro uso mostrarci a volte molto formali, con la massima serietà. Voi mi avete aperto gli occhi. Grandemente. Una volta eravate per me soltanto un barbaro. Vi prego, perdonate la mia stupidità. Il vostro gesto ha provato che siete un samurai. Adesso siamo samurai. Scusate, vi prego, la mia precedente scortesia.”
Blackthorne si era sentito altissimo, quel giorno. La quasi-morte che si era inflitto lo aveva cambiato in verità più di quanto comprendesse lui stesso, segnandolo per sempre, più di quanto lo avessero segnato tutti i precedenti rischi mortali che aveva corso.
Avevi contato su Omi? si era chiesto. Che avrebbe fermato il colpo? Non lo avevi messo sull’avviso?
Non lo so. So solo che sono contento che sia stato pronto, si era risposto con sincerità. E un’altra vita se n’è andata!
“Questa è la mia nona vita. L’ultima!” disse a voce alta, e Suwo s’interruppe.
“Come? Cosa avete detto, Anjin-san?”
“Niente, niente di importante,” rispose, a disagio.
“Vi ho fatto male, padrone?” chiese Suwo.
“No.” Suwo mormorò qualcos’altro che lui non capi.
“Dozo?”
“Vuole massaggiarvi la schiena,” tradusse Mariko distrattamente.
Blackthorne si voltò bocconi e ripeté la frase in giapponese, dimenticandola subito. Attraverso il vapore guardava Mariko: respirava profondamente, con la testa appoggiata all’indietro, la pelle rosata. Come sopporterà quel calore? si chiese. Abitudine, immagino, fin da bambina. Le dita di Suwo gli davano tanto piacere che per un attimo si assopì.
A che cosa stavo pensando? Pensavi alla tua nona vita, l’ultima, e avevi paura, ricordandoti della superstizione. Ma è stupido, in questo Paese degli Dei, essere superstiziosi. Qui tutto è diverso, e per sempre sarà così. Oggi è per sempre. Domani possono accadere tante cose. Oggi seguirò le loro regole.
La cameriera fece il suo ingresso con il vassoio coperto reggendolo alto sopra il capo, perché il suo fiato non sfiorasse il cibo. Si inginocchiò ansiosa e depose il piatto con cura sul tavolino davanti a Blackthorne. Su ogni tavolino c’erano ciotole e bastoncini, coppe di sakè, tovaglioli e una decorazione di fiori. Fujiko e Mariko gli sedevano di fronte. Avevano fiori e pettini d’argento fra i capelli. Il chimono di Fujiko era bianco con un motivo di pesci verde chiaro, e con l’obi dorato. Mariko era vestita in nero e rosso, con un lievissimo ricamo di crisantemi in argento e l’obi a quadretti rossi e argento. Come sempre erano entrambe profumate. L’incenso bruciava lentamente, per tenere lontani gli insetti notturni.
Blackthorne si era preparato, sapendo che qualunque gesto di poco gradimento da parte sua avrebbe rovinato la loro serata. Se si potevano prendere dei fagiani, ci sarebbe stata anche altra cacciagione, aveva pensato, e lui aveva un cavallo e con un moschetto avrebbe potuto andare a caccia, trovandone il tempo.
Fujiko si chinò e tolse il coperchio. I pezzetti di carne erano scuri e all’apparenza perfetti. Gli venne l’acquolina in bocca all’odore che ne saliva. Prese piano un pezzetto con i suoi bastoncini, perché non cadesse, e masticò la carne. Era asciutta e dura, ma la lunga mancanza di carne gliela fece sembrare deliziosa. Un altro pezzo. Sospirò di piacere. “Ichi-ban, ichi-ban, perdio!”
Fujiko arrossì e gli versò il sakè, per nascondere il viso. Mariko si sventolò con il ventaglio cremisi, Blackthorne inghiottì il vino in un sorso, mangiò un altro boccone, versò dell’altro vino e secondo il rito lo offrì a Fujiko. Lei rifiutò, come d’uso, ma quella sera egli insisté finché bevve il sakè anche lei, tossendo un poco. Anche Mariko, nonostante il suo rifiuto, venne obbligata a bere. Poi l’inglese si dedicò al fagiano, cercando di nascondere il più possibile la voracità con cui lo mangiava. Le due donne avevano appena toccato le loro porzioni di verdura e pesce, ma lui non se ne preoccupò perché era tradizione che le donne mangiassero prima o dopo, per poter dedicare tutta l’attenzione al padrone.
Mangiò tutto il fagiano e tre ciotole di riso, innaffiandole di sakè. Per la prima volta, dopo mesi, si sentì sazio. Nel corso del pasto aveva vuotato sei bottiglie di sakè e Mariko e Fujiko, fra tutt’e due, ne avevano bevute due. Adesso erano leggermente arrossate in volto e scoppiavano in una serie di risatine, al primo stadio di una leggera ebbrezza.
Mariko rise e si portò una mano alla bocca. “Vorrei poter bere il sakè come voi, Anjin-san. Lo bevete meglio di ogni altro uomo che io conosca. Scommetto che siete il migliore dell’lzu! Potrei vincere un monte di soldi puntando su di voi! ”
“Credevo che i samurai non approvassero il gioco!”
“Oh, sì, certo, non sono mercanti e contadini. Ma non tutti i samurai sono ugualmente forti e molti… come si dice?… molti scommettono come i barb… come i portoghesi.”
“Anche le donne scommettono?”
“Sì, certo, molto. Ma solo con altre signore e con cifre basse, e sempre in modo che i loro mariti non lo scoprano!” Allegramente tradusse per Fujiko, che era più arrossata di lei.
“La vostra concubina chiede se gli inglesi scommettono. A voi piace scommettere?”
“È il nostro divertimento nazionale.” E raccontò loro delle corse di cavalli e delle gare di tiro e dei dadi e delle lotterie, delle carte e degli incontri di lotta e delle partite di scacchi e domino e di quando alle fiere si puntava sulle ruote con i numeri.
“‘Ma dove trovate il tempo di vivere, e guerreggiare, e riposarvi sul guanciale?’ domanda Fujiko.”
“Per quelle cose c’è sempre tempo.” I loro sguardi si incontrarono per un attimo, ma Blackthorne non riuscì a leggere niente in quello di lei, solo felicità, e forse un po’ troppo vino.
Mariko lo pregò di cantare la sua ballata da marinaio per Fujiko. Egli obbedì ed entrambe si complimentarono con lui e dissero che era la cosa più bella che avessero mai sentito.
“Bevete ancora un po’ di sakè!”
“No, non dovete versarlo voi, Anjin-san. È un compito delle donne. Non ve lo avevo detto?”
“Sì. Ancora un po’, dozo.”
“Meglio di no. Credo che cascherei per terra.” Mariko agitava freneticamente il ventaglio e l’aria le smosse qualche capello sfuggito all’impeccabile acconciatura.
“Avete delle belle orecchie,” osservò Blackthorne.
“Anche voi. Noi, Fujiko-san e io, troviamo perfetto anche il vostro naso, degno di un daimyo.”
Lui sorrise e si inchinò cerimoniosamente. Loro risposero e le pieghe del chimono di Mariko si scostarono dal collo, rivelando l’orlo del sottabito scarlatto e la linea dei seni. Blackthorne ne fu turbato.
“Sakè, Anjin-san?” Egli tese la coppa, con dita ferme. Mariko versò attenta, mostrando la punta della lingua fra le labbra per lo sforzo di concentrarsi.
Anche Fujiko lo accettò, riluttante, pur avendo già dichiarato di non sentirsi più le gambe. Quella sera la sua quieta malinconia era scomparsa; sembrava di nuovo giovane. Blackthorne notò che non era affatto brutta come gli era parsa in principio.
La testa di Jozen ronzava. Non per il sakè, ma per l’incredibile strategia bellica che Yabu, Omi e Igurashi gli avevano descritto tanto apertamente. Soltanto Naga, il comandante in seconda, figlio dell’acerrimo nemico, non aveva parlato e per tutta la sera si era mostrato freddo, arrogante e rigido, con la faccia altera in cui spiccava il grosso naso caratteristico di Toranaga.
“Strabiliante, Yabu-sama!” esclamò Jozen. “Adesso capisco il motivo della segretezza. Anche il mio padrone lo capirà. Saggio, molto saggio. E voi, Naga-san, avete taciuto per tutta la sera… Vorrei sentire la vostra opinione. Vi piace questa mobilità, questa nuova strategia?”
“Mio padre ritiene che tutte le possibilità di guerra debbano essere studiate, Jozen-san,” rispose il giovane.
“Ma la vostra opinione qual e?”
“Sono stato inviato qui soltanto per obbedire, osservare, ascoltare, imparare e provare. Non per dare opinioni.”
“Naturale. Ma come comandante in seconda — un illustre comandante in seconda, vorrei dire — giudicate questo esperimento un successo?”
“A questo possono rispondere Yabu-sama o Omi-san. O mio padre.”
“Ma Yabu-sama ha detto che stasera tutti potevano parlare liberamente. Che c’è da nascondere? Siamo tutti amici, ne? Il figlio così celebre di un uomo così celebre deve avere per forza un’opinione.”
Naga strinse gli occhi, sentendosi provocato, ma non rispose.
“Tutti possono parlare liberamente, Naga-san,” disse Yabu.
“Penso che, con la sorpresa, questo sistema potrà vincere uno scontro, forse una battaglia. Di sorpresa. Ma poi?” La voce di Naga risuonava gelida. “Poi tutti i contendenti adotteranno la stessa tattica e un gran numero di uomini morirà inutilmente, uccisi senza onore da un aggressore che non saprà nemmeno chi ha ucciso. Dubito che mio padre in realtà ne autorizzi l’adozione in una battaglia vera.”
“Lo ha detto lui?” chiese Yabu, secco, senza badare a Jozen.
“No Yabu-sama. Ho dato naturalmente la mia opinione.”
“Ma il reggimento moschettieri… non lo approvate? Vi disgusta?” insisté cupo Yabu.
Naga lo guardò con occhi freddi, da rettile. “Con la massima deferenza, poiché mi chiedete il mio parere, sì, mi disgusta. I nostri avi hanno sempre saputo chi uccidevano o chi li sconfiggeva. Questo è il bushido, il breviario del guerriero, del vero samurai. Vinca il migliore, ne? E invece così? Come mostrerete il vostro valore al vostro signore? Come potrà egli ricompensarvi? Sparare pallottole è coraggioso, ma anche stupido. Che valore c’è? L’artiglieria è contraria al nostro codice di samurai. Così combattono i barbari. Vi rendete conto che in questo modo potrebbero battersi degli sporchi mercanti e contadini, e perfino gli eta?” Jozen rise e Naga continuò in tono anche più minaccioso: “Pochi contadini fanatici con moschetti a sufficienza potrebbero sterminare qualunque numero di samurai! Sì, potrebbero uccidere chiunque di noi, perfino Ishido-sama, che vuole sedere al posto di mio padre.”
Jozen si inalberò. “Ishido-sama non mira alle terre di vostro padre. Cerca solo di salvare l’impero per il suo legittimo erede.”
“Mio padre non rappresenta affatto una minaccia per il Nobile Yaemon, né per il regno.”
“Certo. Ma stavate parlando dei contadini. Il Nobile Taikō era un contadino un tempo. Il mio Signore Ishido era un contadino un tempo. Io ero un contadino. E un ronin!”
Naga non intendeva litigare. Sapeva di non poter tenere testa a Jozen, la cui abilità con la spada e la scure era celebre. “Non intendevo insultare il vostro padrone né voi né nessuno, Jozen-san. Dicevo soltanto che noi samurai dobbiamo accertarci che i contadini non possiedano mai armi da fuoco o nessuno di noi sarà più al sicuro.”
“Mercanti e contadini non ci preoccuperanno mai,” ribatté Jozen.
“Sono d’accordo,” aggiunse Yabu, “e, Naga-san, sono d’accordo anche in parte su quanto avete detto. Ma le armi da fuoco sono moderne e presto tutte le battaglie si combatteranno così. Sono disgustose, è vero, ma questa è la guerra moderna. E poi sarà come sempre: il samurai migliore vincerà sempre.”
“No, mi dispiace, ma sbagliate, Yabu-sama! Che cosa ci ha spiegato quel maledetto barbaro… qual è l’essenza della loro strategia? Lui ammette chiaramente che tutti i loro eserciti sono composti da coscritti e mercenari. Ne? Mercenari! Senza nessun senso del dovere verso i loro signori, soldati che si battono soltanto per la paga o per il bottino, per violentare e rubare. Non ha detto che i loro sono eserciti di contadini? Questo è il frutto portato nel loro mondo dalle armi da fuoco e questo porteranno a noi. Se avessi io il potere, taglierei la testa del barbaro stanotte stessa e metterei per sempre fuori legge le armi da fuoco.”
“È questo che pensa vostro padre?” chiese Jozen, con troppa precipitazione.
“Mio padre non rivela né a me né a nessuno quello che pensa, come certo sapete. Io non parlo per lui e nessuno parla per lui,” ribatté Naga, in collera per essersi lasciato trascinare a discutere. “Sono stato mandato qui per obbedire e ascoltare, non per esporre le mie opinioni. Me ne scuso. Non avrei parlato, se non me lo aveste chiesto. Se ho offeso voi, o voi, Yabu-sama, o voi, Omi-san me ne scuso.”
“Non dovete scusarvi,” disse Yabu, “vi ho chiesto io il vostro parere. Perché dovrebbe offendersi qualcuno? Questa è una discussione fra capi, ne? Voi mettereste fuori legge le armi da fuoco?”
“Sì. Credo che sarebbe saggio tenere sotto stretto controllo qualunque arma da fuoco nel vostro dominio.”
“A tutti i contadini è vietato possedere armi di qualunque tipo. I miei contadini e la mia gente sono molto ben controllati.”
Jozen sogghignò osservando il giovane magro, verso cui provava una forte antipatia. “Avete delle idee interessanti, Naga-san. Ma vi sbagliate sui contadini. Per i samurai non sono che dei fornitori. Non rappresentano una minaccia più di quanto sia una minaccia un mucchio di immondizia.”
“Per il momento,” replicò Naga, trascinato dall’orgoglio. “Per questo metterei subito fuori legge le armi da fuoco. Avete ragione, Yabu-san, nel dire che un’era nuova esige metodi nuovi. A causa di quanto ha raccontato questo Anjin-san, questo solo barbaro, io andrei molto più in là delle nostre leggi attuali. Ordinerei che chiunque, a parte i samurai, fosse trovato con armi da fuoco o dedito a commerciarle, venisse immediatamente ucciso, lui e tutta la sua famiglia, di ogni generazione. Proibirei la fabbricazione e l’importazione di armi da fuoco. Proibirei ai barbari di portarne addosso e di farle arrivare alle nostre rive. E, se ne avessi il potere — che non cerco e non cercherò — escluderei dal nostro paese i barbari completamente, salvo qualche prete e salvo un porto per il commercio, che chiuderei con una robusta staccionata e dei guerrieri fidati. E infine ammazzerei all’istante questo barbaro corrotto, l’Anjin-san, perché non si diffondesse il suo sporco sapere. È come una malattia.”
“Ah, Naga-san, dev’essere bello essere tanto giovane!” osservò Jozen. “Il mio padrone, sapete, concorda con voi su molto di quanto avete affermato a proposito dei barbari. Gliel’ho sentito dire spesso: ‘Teneteli fuori… cacciateli fuori… rinchiudeteli a Nagasaki e teneteceli imbottigliati!’ Voi ammazzereste l’Anjin-san, eh? Interessante. Anche al mio padrone non piace l’Anjin-san. Per niente. Ma…” s’interruppe. “Sì, avete una buona idea per le armi da fuoco. Lo capisco chiaramente. Posso riferirla al mio padrone? L’idea di nuove leggi?”
“Certamente,” disse Naga, raddolcito e più calmo dopo aver dichiarato apertamente quanto gli ribolliva dentro dal primo giorno.
“Avete espresso queste opinioni al Nobile Toranaga?” chiese Yabu.
“Toranaga-sama non mi ha chiesto la mia opinione. Spero che un giorno mi conceda l’onore di chiedermela, come avete fatto voi,” rispose Naga, domandandosi se qualcuno avrebbe scoperto la bugia.
“Dato che discutiamo liberamente,” intervenne Omi, “io dico, signore, che questo barbaro è un tesoro. Io sono convinto che dobbiamo imparare dal barbaro. Dobbiamo conoscere le armi da fuoco e le navi da guerra, perché loro le possiedono. Dobbiamo sapere tutto quello che sanno loro e già adesso qualcuno di noi dovrebbe incominciare a imparare a pensare come loro, per poterli superare.”
Con tono sicuro Naga ribatté: “Che cosa possono sapere, Omi-san? Armi da fuoco e navi, va bene, ma che altro? Come potrebbero distruggerci? Non esiste un samurai fra di loro. Questo Anjin non ha riconosciuto apertamente che anche i loro sovrani sono assassini e fanatici religiosi? Noi siamo milioni, loro sono un pugno di uomini. Possiamo spazzarli via.”
“Questo Anjin-san mi ha aperto gli occhi, Naga-san. Ho scoperto che il nostro paese, e la Cina, non sono il mondo intero, ma solo una piccola parte del mondo. In principio giudicavo il barbaro soltanto una curiosità, adesso no. Ringrazio gli dei che sia arrivato. Ci ha salvato e possiamo imparare da lui. Già ci ha dato potere sui barbari meridionali… e sulla Cina.”
“Come?”
“Il Taikō ha fallito perché sono troppo numerosi per noi, scontrandoci fra uomo e uomo, freccia contro freccia, ne? Ma con le armi da fuoco e l’abilità dei barbari potremmo conquistare Pechino.”
“Con la slealtà dei barbari, Omi-san!”
“Con il sapere dei barbari, Naga-san, potremmo prendere Pechino. Chi prende Pechino, domina la Cina. E chi domina la Cina, può dominare il mondo. Dobbiamo imparare a non vergognarci di apprendere da chiunque ci insegni.”
“Io sostengo che non ci serve niente di quanto arriva dall’esterno.”
“Senza offesa, Naga-san, io sostengo che dobbiamo proteggere questo Paese degli Dei con ogni mezzo. Il nostro primo dovere in assoluto è di proteggere la posizione unica e divina che possediamo sulla terra. Solo questo è il Paese degli Dei, ne? Sono d’accordo sulla necessità di imbavagliare questo barbaro. Ma non con la morte. Isolandolo per sempre qui ad Anjiro, finché non avremo imparato tutto quello che sa.”
Jozen si grattò pensoso. “Riferirò al mio padrone la vostra opinione. Concordo sull’isolamento del barbaro. E penso che l’addestramento dovrebbe venire immediatamente interrotto.”
Yabu estrasse una pergamena arrotolata dalla manica. “Questo è un rapporto completo sull’esperimento, per Ishido-sama. Se egli vorrà interrompere l’addestramento, naturalmente l’interromperemo.”
Jozen prese la pergamena. “E Toranaga-sama?” Il suo sguardo andò a Naga, che non aprì bocca, fissando la pergamena.
“Potrete chiedergli personalmente il suo pensiero,” rispose Yabu. “Un rapporto simile a questo è nelle sue mani. Suppongo che partirete per Yedo domani… o volete assistere all’addestramento? Non ho bisogno di dirvi che ancora gli uomini non sono pronti del tutto.”
“Mi piacerebbe vedere un ‘attacco’.”
“Omi-san, date le disposizioni necessarie. Lo comanderete voi.”
“Sì, signore.”
Jozen consegnò il rotolo al suo vice. “Masumoto, porta questo al Nobile Ishido. Partirai immediatamente.”
“Sì, Jozen-san.”
“Mandagli delle guide sino al confine,” ordinò Yabu a Igurashi, “e fornisci dei cavalli freschi.”
Igurashi uscì subito con il samurai.
Jozen si stiracchiò e sbadigliò. “Scusatemi, ma ho cavalcato per ore e ore in questi giorni. Devo ringraziarvi di questa serata straordinaria. Yabu-sama. Le vostre idee sono lungimiranti, e anche le vostre, Omi-san. E le vostre, Naga-san. Mi complimenterò per voi con Toranaga-sama e con il mio padrone. Ora, se mi volete scusare, sono molto stanco e Osaka è molto lontana.”
“Certo,” rispose Yabu. “Come andavano le cose a Osaka?”
“Benissimo. Ricordate quei banditi che vi hanno attaccato per terra e per mare? Abbiamo tagliato quattrocentocinquanta teste quella notte. E molti portavano la divisa di Toranaga.”
“I ronin non hanno onore.”
“Qualche ronin ce l’ha,” replicò Jozen, infiammato d’ira all’insulto. Sentiva sempre acutamente la vergogna di essere stato un ronin. “E altri vestivano l’uniforme dei Grigi. Non è sfuggito nessuno. Sono morti tutti.”
“E Buntaro-san?”
“No. Lui…” Jozen si fermò. Il ‘no’ gli era sfuggito, ma ormai non gliene importava più. “No. Non ne siamo certi… nessuno ha raccolto la sua testa. Voi non ne avete saputo niente?”
“No,” rispose Naga.
“Forse è stato catturato. Forse l’hanno tagliato in pezzi e li hanno sparpagliati. Quando ne avrete notizie, il mio padrone sarà lieto di conoscerle. Adesso a Osaka tutto è tranquillo. Si procede con i preparativi per la riunione. Ci saranno grandi festeggiamenti per celebrare la nuova era e, naturalmente, per rendere onore a tutti i daimyo.”
“E il Nobile Toda Hiro-matsu?” chiese gentilmente Naga.
“Il vecchio Pugno di ferro è forte e burbero come sempre.”
“Si trova ancora là?”
“No. È partito con tutti gli uomini di vostro padre pochi giorni prima di me.”
“E le concubine di mio padre?”
“Ho sentito che le Nobili Kiritsubo e Sazuko hanno chiesto di restare con il mio padrone. Un medico ha consigliato alla signora di stare ferma per un mese… per ragioni di salute, capite. Ha ritenuto poco opportuno il viaggio per il nascituro.” Rivolgendosi a Yabu, domandò: “È caduta la notte in cui siete partito, vero?”
“Infatti.”
“Niente di grave, spero,” disse Naga, preoccupato.
“No, Naga-san, niente di serio,” rispose Jozen. Poi, di nuovo a Yabu: “Avete informato Toranaga-sama del mio arrivo?”
“Certo.”
“Bene.”
“Le notizie che ci avete portato lo interesseranno molto.”
“Sì. Ho visto un piccione viaggiatore partire verso il nord.”
“Dispongo infatti di questo servizio, adesso,” rispose Yabu, senza aggiungere che anche il piccione di Jozen era stato scorto, che i falconi lo avevano preso e il suo messaggio era stato decifrato: Ad Anjiro. Tutto vero come riferito. Yabu, Naga, Omi e il barbaro sono qui.
“Col vostro permesso, partirò domani, dopo ‘l’attacco’. Mi darete dei cavalli freschi? Non voglio far aspettare Toranaga-sama e sono ansioso di vederlo. Come il mio padrone. A Osaka. Spero che voi lo accompagnerete, Naga-san.”
“Se mi sarà ordinato, verrò.” Naga teneva gli occhi bassi, per nascondere l’ira che lo invadeva.
Jozen si allontanò con le sue guardie verso il suo accampamento. Cambiò le sentinelle, ordinò agli uomini di andare a dormire e si ritirò nel piccolo riparo che avevano eretto contro la pioggia, che minacciava di cadere. Sotto una zanzariera, a lume di candela, scrisse di nuovo il messaggio precedente su un sottile foglio di carta di riso, aggiungendo: I cinquecento moschetti sono letali. Progettati attacchi in massa — rapporto completo già inviato con Masumoto. Aggiunse la data e spense la candela. Nell’oscurità scivolò fuori dalla zanzariera, prese un piccione dalla cesta e infilò il messaggio nel minuscolo contenitore della zampina. Poi si avvicinò a uno degli uomini e gli affidò l’uccello.
“Vai nel sottobosco,” gli mormorò. “Nascondilo dove possa aspettare l’alba al sicuro. Più lontano che puoi. Ma stai attento, ci sono occhi dappertutto. Se ti fermano, dirai che sei di pattuglia, ma nascondi il piccione.”
L’uomo scivolò via silenzioso. Contento di sé, Jozen osservò il villaggio, in basso. C’erano luci nella fortezza e sulla collina di fronte, nella casa che sapeva essere di Omi. E anche in quella del barbaro.
“Quel cucciolo maleducato di Naga ha ragione,” pensò, allontanando una zanzara. “Il barbaro è come una sporca malattia.”
“Buonanotte, Fujiko-san.”
“Buonanotte, Anjin-san.”
Lo shoji si chiuse alle spalle di lei. Blackthorne si tolse il chimono e il perizoma, infilò il chimono più leggero, entrò sotto la zanzariera e si sdraiò. Con un soffio spense la candela e il buio fitto lo avvolse. La casa era quieta. Le piccole imposte erano chiuse, ma egli udiva il rumore del mare. Le nuvole coprivano la luna.
Il vino e le risa lo avevano reso assonnato ed euforico, con la mente leggermente offuscata. Di tanto in tanto sentiva un cane abbaiare nel villaggio. Dovrei procurarmi un cane, pensò, ricordando il bull terrier che aveva in casa. Chissà se era ancora vivo. Si chiamava Grog, ma suo figlio Tudor lo chiamava sempre “Og-og”. Mio piccolo Tudor, quanto tempo è passato! Vorrei vedervi tutti… o almeno scrivere una lettera e mandarvela. Vediamo… come comincerei?
Miei carissimi, è la prima lettera che posso spedirvi da quando siamo sbarcati in Giappone. Adesso che sono capace di vivere a modo loro le cose vanno bene. Il mangiare è terribile, ma stasera ho avuto un fagiano e presto riavrò la mia nave. Da dove cominciare a raccontarvi? Oggi sono come un feudatario in questo strano paese. Ho casa, cavallo, otto servi, una governante, il mio barbiere e il mio interprete. Ogni giorno sono ben rasato e i loro rasoi d’acciaio sono certo i migliori del mondo. Il mio stipendio è enorme, basterebbe per nutrire duecentocinquanta famiglie giapponesi per un anno. In Inghilterra equivarrebbe a quasi mille ghinee d’oro l’anno! Dieci volte quello che prendevo dalla società olandese…
Lo shoji cominciò ad aprirsi e la sua mano cercò la pistola sotto il cuscino. Si preparò a scattare, poi avvertì un frusciare di seta e un’onda di profumo.
“Anjin-san?” Un sussurro, pieno di promesse.
“Hai?” rispose altrettanto piano, scrutando nel buio, senza riuscire a distinguerla chiaramente.
I passi si avvicinarono, poi la udì inginocchiarsi. La rete venne sollevata e la donna si accostò a lui, richiudendola intorno a entrambi. Gli prese la mano e se la portò al seno, poi alle labbra.
“Mariko-san?”
Subito le dita di lei gli toccarono le labbra nel buio, ammonendolo a tacere. Egli annuì, rendendosi conto del pericolo che correvano. Le prese i polsi sottili e li accarezzò con le labbra, mentre l’altra mano le accarezzava il viso. Lei gli baciò le dita, una per una. Aveva i capelli sciolti, che le toccavano la vita. Le mani di Blackthorne la percorsero tutta, sentendo la deliziosa morbidezza della seta, sotto cui non portava altro.
Aveva un sapore dolce. Le sfiorò con la lingua i denti, poi le orecchie, scoprendola a poco a poco. Lei lasciò cadere la veste, con il respiro più breve. Gli si avvicinò ancora di più, rannicchiandosi contro di lui e tirò la coperta sopra entrambi. Poi cominciò ad amarlo, con le mani e con le labbra. Con più tenerezza, abbandono ed esperienza di quanto egli avesse mai conosciuto.