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“Naga-san, ti ho invitato a caccia e non ripetermi delle storie che ho già sentito,” disse Toranaga.

“Padre, vi prego, per l’ultima volta: interrompete l’addestramento, mettete fuori legge le armi da fuoco, distruggete il barbaro, dichiarate che l’esperimento è fallito e non parlate più di questa oscenità.”

“No. Per l’ultima volta.” Il falco incappucciato sulla mano guantata di Toranaga si agitò al tono minaccioso nella voce del padrone, un tono che gli era sconosciuto, e fischiò con irritazione. Si trovavano nella boscaglia, lontani dai battitori e dalle guardie. La giornata era afosa, umida e coperta.

Naga sporse il mento. “Benissimo. Ma è mio dovere rammentarvi che qui siete in pericolo e chiedervi, con il dovuto rispetto, per l’ultima volta, che lasciate Anjiro oggi stesso.”

“No. E anche questo per l’ultima volta.”

“Allora prendete la mia testa!”

“La possiedo già!”

“Prendetela dunque oggi, subito, o permettetemi di finire la mia vita, visto che non accettate nessun buon consiglio.”

“Impara la pazienza, cucciolo!”

“Come posso essere paziente, vedendovi distruggere voi stesso? È mio dovere indicarvelo. State qui a cacciare e perdere tempo, mentre i vostri nemici cercano di farvi cascare addosso il mondo. I reggenti si riuniranno domani, i quattro quinti dei daimyo giapponesi o sono già a Osaka o sono in viaggio per raggiungerla. Voi siete stato l’unico daimyo importante a rifiutarvi. Adesso vi incrimineranno e allora niente potrà più salvarvi. Dovreste almeno trovarvi al sicuro a Yedo, circondato dalle truppe. Qui siete senza difese. Noi non possiamo proteggervi. Siamo appena un migliaio e Yabu ha mobilitato tutto l’Izu. Ha più di ottomila uomini in un raggio di venti ri e altri seimila presso i confini. Sapete che, secondo le spie, ha una flotta a nord, in attesa di affondarvi se cercate di fuggire via mare? Adesso siete suo prigioniero, non lo capite? Un piccione che arrivi da Ishido e Yabu vi potrà distruggere quando vuole. Come potete essere certo che non stia tramando il tradimento d’accordo con Ishido?”

“Sono certo che ci sta pensando. Io al posto suo lo farei. E tu?”

“No, io no.”

“Allora moriresti presto, e te lo meriteresti, ma morirebbero anche tutta la tua famiglia, il tuo clan e i tuoi vassalli, e sarebbe assolutamente imperdonabile. Sei uno sciocco insensato e truculento! Non usi il cervello, non ascolti, non impari, non trattieni né la lingua né i cattivi umori! Ti lasci manovrare nel modo più infantile e credi che tutto si risolva con la spada. L’unica ragione per cui non ti taglio quella stupida testa e non ti permetto di farla finita con la tua vita attualmente spregevole, è che sei giovane e che ho sempre pensato tu abbia qualche buona possibilità, perché i tuoi sbagli non sono ispirati dalla malignità. Non hai astuzia, in compenso sei di una lealtà indubitabile. Se non impari alla svelta la pazienza e l’autodisciplina, ti toglierò dalla condizione di samurai e caccerò te e tutti i tuoi discendenti nella classe dei contadini!” Il pugno di Toranaga batté sulla sella e il falco emise uno strido acuto. “Hai capito?”

Naga ne fu sconvolto. Mai, in tutta la sua vita, aveva visto suo padre perdere la pazienza o gridare per la collera, e neppure aveva sentito parlare di simili scatti. Spesso Toranaga lo rimproverava, ma poi trovava ogni volta qualche giustificazione per lui. Naga sapeva di compiere molti errori; suo padre, però, finiva sempre per dare delle spiegazioni per cui gli apparivano meno stupidi che all’inizio. Per esempio, quando Toranaga gli aveva dimostrato come Omi — o Yabu — l’avessero intrappolato nella storia di Jozen. Naga si era precipitato per uccidere il responsabile e avevano dovuto fermarlo con la forza. Toranaga aveva ordinato alle sue guardie personali di rovesciargli dell’acqua gelata in testa, finché si era calmato, e poi aveva spiegato che comunque Naga aveva reso a lui, suo padre, un servizio impareggiabile eliminando la minaccia di Jozen. “Ma sarebbe stato meglio che tu fossi consapevole di essere manovrato. Devi essere paziente, figlio mio, tutto arriva con la pazienza,” gli aveva consigliato, “e presto sarai in grado di manovrare loro. La tua azione è stata ottima. Ma devi imparare a capire, ragionando, che cosa c’è nella mente di un altro, se vuoi essere di qualche utilità a te stesso… o al tuo signore. Io ho bisogno di capi. Di fanatici ne ho abbastanza.”

Suo padre si era sempre mostrato calmo e indulgente, e invece oggi… Naga smontò da cavallo con un salto e si prosternò al suolo. “Vi prego, perdonatemi, padre. Non volevo farvi andare in collera… è solo perché impazzisco di ansia per la vostra insicurezza. Vi prego, scusatemi se ho disturbato l’armonia…”

“Stai zitto!” urlò Toranaga, con tanta energia che il cavallo fece uno scarto. Egli strinse le ginocchia e tirò le redini che teneva nella destra. Il falco, non più in equilibrio, cominciò a sbattere le ali selvaggiamente, con strida acutissime, inferocito da quella confusione insolita ed esasperante. “Buona, bellezza, buona…” Toranaga cercò in ogni modo di calmarlo e contemporaneamente di dominare il cavallo, mentre Naga afferrava quest’ultimo per il muso. Riuscì a tenerlo per la briglia e a frenarlo. Il falco continuava a stridere con ferocia, poi finalmente si assestò, riluttante, sulla mano esperta di Toranaga, ma le ali continuavano a palpitare nervose, e i campanelli delle zampe tintinnavano.

“Hek-ek-ek-ek-eeekk!” stridette un’ultima volta.

“Buona, buona, bellezza. Ecco, è tutto a posto,” le disse Toranaga in tono rassicurante, il viso ancora pieno d’ira. Quindi si rivolse a Naga, cercando di parlare senza animosità per non turbare di nuovo il falco. “Se le hai rovinato l’umore per oggi, io… io…”

In quel momento un battitore gettò il suo grido d’avvertimento. Toranaga sfilò subito il cappuccio dalla testa del falco, lasciò che per un attimo si ambientasse, poi lo lanciò.

Era una femmina di falco pellegrino, chiamata Tetsu-ko — Signora d’acciaio — e s’innalzò nel cielo come una saetta, poi cominciò a roteare, duecento metri sopra Toranaga, in attesa della preda, senza più nessun nervosismo. Scorse i cani in battuta e poi la covata di fagiani che si disperdeva in un frenetico sbatter d’ali. Scelse la preda, la seguì dall’alto e piombò, con le ali chiuse nel tuffo e con gli artigli pronti ad affondare. Ma la preda, un vecchio fagiano grosso due volte lei, si gettò di lato e, nel panico, corse verso un boschetto vicino. Tetsu-ko si rialzò, spalancando le ali, e caricò a capofitto, dopo essere risalita in alto. Di nuovo piombò sul fagiano e di nuovo mancò il colpo. Toranaga, pieno d’eccitazione la incoraggiava, ammonendola del pericolo che poteva incontrare. Naga era dimenticato.

Il fagiano correva verso il suo rifugio sbattendo le ali disperatamente. Il falco, dopo aver girato in alto, si gettò di nuovo. Troppo tardi. Il fagiano era scomparso. Il falco, incurante della propria incolumità, si fece strada tra i rami e le foglie, cercando con ferocia la vittima, poi si riprese e saettò all’aperto, stridendo di rabbia, per roteare sopra la macchia verde.

In quel momento una covata di pernici venne stanata e si sparse in tutte le direzioni in cerca di salvezza, seguendo ogni anfrattuosità del terreno. Tetsu-ko ne scelse una, chiuse le ali e cadde come una pietra. Questa volta non la mancò. Un colpo di artigli spezzò il collo della pernice e l’animale cadde a terra in una nuvola di piume. Ma il falco, invece di fermarsi su di lui, s’innalzò nel cielo, sempre più in alto, sempre più in alto.

Toranaga, ansioso, cercò di attirarla con il richiamo, un uccellino morto legato a una cordicella, che egli faceva roteare nell’aria. Ma Tetsu-ko non si lasciò attirare. Ormai non era che una macchiolina nello spazio e Toranaga si sentì sicuro di averla persa. Tetsu-ko aveva deciso di lasciarlo, di tornare alla vita selvatica, di uccidere a piacere suo e non del padrone, di mangiare quando voleva lei e non quando voleva il padrone, di volare secondo il vento o secondo la fantasia, libera per sempre.

Osservandola, Toranaga provò non tristezza, ma una sorta di solitudine. Come tutti i falconieri, Toranaga sapeva di non essere padrone che temporaneamente di una creatura così selvaggia. Da solo si era arrampicato sui Monti Hakoné e l’aveva raccolta piccolissima in un nido, l’aveva addestrata, coccolata e le aveva insegnato a uccidere per la prima volta. Adesso riusciva appena a scorgerla e sentì il desiderio lancinante di poter raggiungere come lei l’empireo, abbandonando le iniquità della terra.

Ma ecco che il vecchio fagiano sbucò dagli alberi, in cerca di cibo. E Tetsu-ko piombò dai cieli, sottile linea di morte nel vuoto, con gli artigli pronti al colpo di grazia. Il fagiano morì all’istante, in uno svolazzare di penne, ma Tetsu-ko non lo abbandonò, frenando con violenza all’ultimo istante. Poi abbassò le ali e rimase ferma sopra la preda, cominciando a beccarla, prima di mangiarla. Quando Toranaga la raggiunse lei non aveva ancora iniziato il pasto. Disturbata, lo guardò scendere da cavallo, con i suoi bruni occhi spietati. Poi, cullata dalle sue parole di lode e perché aveva fame e lui era sempre stato colui che le dava il cibo, ed era paziente e non faceva mosse brusche, lo lasciò avvicinare.

Sempre complimentandola dolcemente, Toranaga, con il coltello da caccia, tagliò la testa del fagiano, lasciando che Tetsu-ko ne mangiasse il cervello e, mentre lei banchettava, staccò del tutto quella testa e il falco andò ad appollaiarsi sul suo pugno, dove era abituato a mangiare perché il padrone l’aveva sempre nutrito personalmente. Toranaga continuò a parlarle teneramente, e lei sibilava di contentezza, lieta di ritrovarsi in luogo sicuro. Poi cominciò a lisciarsi le penne, pronta per una nuova spedizione.

Ma visto che era stata così brava, Toranaga decise di lasciarla festeggiare per quel giorno e non farla volare più. Le diede un uccellino, già spennato e aperto per lei, e, a metà pasto, le rimise il cappuccio. Lei continuò a mangiare, soddisfatta. Quando ebbe finito e fu di nuovo intenta a lisciarsi le penne, Toranaga raccolse il fagiano, lo mise nel carniere e chiamò il falconiere. Esaminarono pieni d’allegria l’andamento della caccia e contarono i capi: una lepre, un paio di quaglie, e il fagiano. Toranaga rimandò al campo il falconiere e i battitori, con tutti i falchi. Rimasero solo le sue guardie.

A questo punto si rivolse a Naga. “Allora?”

Naga, inginocchiato accanto al cavallo, si inchinò. “Avete ragione, signore… per quello che avete detto di me. Chiedo perdono di avervi offeso.”

“E non di avermi dato dei cattivi consigli?”

“Io… io vi prego di mettermi accanto a qualcuno che possa insegnarmi a non farlo mai. Non voglio mai darvi cattivi consigli, mai.”

“Bene. Ogni giorno passerai qualche tempo a parlare con l’Anjin-san, imparando quello che sa lui. Potrà essere uno dei tuoi maestri.”

“Lui?”

“Sì. E questo forse ti insegnerà un po’ di disciplina. E se riesci a toglierti il sasso che ti tappa le orecchie, e ad ascoltare, imparerai senza dubbio cose che ti saranno molto utili. E forse saranno utili anche a me.”

Naga fissò il suolo, cupamente.

“Voglio che tu sappia tutto quanto sa lui sui moschetti, i cannoni e la guerra. Diventerai il mio esperto. E voglio che tu sia molto esperto.” Naga non rispose. “E voglio che tu gli diventi amico.”

“Come posso farlo, signore?”

“Perché non pensi tu al modo? Perché non usi la tua testa?”

“Proverò. Giuro che proverò.”

“Voglio qualcosa di meglio. Hai l’ordine di riuscirci. Usa un po’ di ‘carità cristiana’. Dovresti saperne abbastanza per farlo. Ne?”

Naga sbuffò. “È impossibile impararla, per quanto ci abbia provato. È la verità! Tutto quello che dice Tsukku-san è una fila di sciocchezze che farebbero vomitare chiunque. Il cristianesimo va bene per i contadini, non per i samurai. Non uccidere, non prendere più di una donna, e altre cento stupidaggini! Io vi ho obbedito allora e vi obbedirò adesso… obbedisco sempre! Ma perché non lasciarmi fare quello che posso fare, signore? Se voi lo volete, diventerò cristiano, ma non ci posso credere… è tutta spazzatura e… chiedo scusa d’aver parlato. Diventerò amico dell’Anjin-san. Sì.”

“Bene. E ricorda che vale ventimila volte il suo peso in seta greggia e che possiede più sapere di quanto ne possiederai tu in venti vite.”

Naga si contenne e acconsentì doverosamente.

“Bene. Sarai comandante di due battaglioni. Omi-san di altri due e uno resterà di riserva, sotto Buntaro.”

“E gli altri quattro, signore?”

“Non abbiamo armi per loro. Non è stata che una mossa per distrarre Yabu,” rispose Toranaga.

“Signore?”

“È stata solo una scusa per portare qui altri mille uomini. Non arrivano forse domani? Con duemila uomini posso tenere Anjiro, e anche fuggire, se necessario. Ne?”

“Ma Yabu-san può ancora…” Naga si rimangiò l’osservazione, sapendo che avrebbe certo sbagliato un’altra volta. “Perché sono così stupido?” esclamò con amarezza. “Perché non capisco le cose, come le capite voi? O come Sudara-san? Voglio aiutare, essere utile. Non voglio provocarvi di continuo.”

“Allora impara la pazienza, figlio mio, e domina il tuo carattere. Il tuo momento verrà presto.”

“Signore?”

A un tratto Toranaga si sentì stanco di esercitare la pazienza. Guardò il cielo. “Credo che dormirò un po’.”

Subito Naga tolse la sella e la coperta dal dorso del cavallo e le dispose in terra. Toranaga lo ringraziò e lo osservò disporre le sentinelle. Quando fu sicuro che tutto era in ordine, si sdraiò e chiuse gli occhi.

Ma non voleva dormire, bensì riflettere. Sapeva che l’aver perso la pazienza era un pessimo segno in lui. Per fortuna non c’era che Naga, si disse, che ancora non capisce. Se fosse capitato con Omi, o con Yabu, avrebbero intuito immediatamente che sto impazzendo di ansia. E ciò li spingerebbe subito al tradimento. Per questa volta sei stato fortunato. Tetsu-ko ha riportato tutto nelle giuste proporzioni. Senza di lei avresti mostrato agli altri la tua ira e sarebbe stata una vera follia. Che splendido volo! Impara da lei: Naga va trattato come un falcone. Non grida e si agita come loro? Il suo unico problema è che viene lanciato su una cacciagione sbagliata. La sua caccia è il combattimento e la morte rapida, e presto ne avrà quanto vuole.

L’ansietà tornava a invaderlo. Che succede a Osaka? Ho sbagliato nei miei calcoli sui daimyo, su chi avrebbe accettato la chiamata e chi no. Come mai non l’ho saputo? Sono già stato tradito? Ci sono tanti pericoli intorno a me…

E l’Anjin-san? Anche lui è un falco, ma ancora non si è adattato al pugno, come sostengono Mariko e Yabu. Quali sono le sue prede? La Nave Nera, Rodrigues e quel brutto, piccolo capitano-generale pieno di arroganza, che non resterà vivo a lungo, e tutti i preti Abiti Neri, tutti i portoghesi, gli spagnoli, i turchi e i maomettani. E non vanno dimenticati Omi e Yabu e Buntaro e Ishido e io stesso.

Toranaga si girò per stare più comodo, e sorrise. Ma l’Anjin-san non’è un falco ad ali lunghe, da lasciar volare libero, perché piombi dall’alto sulla preda. È più simile a un falco dalle ali corte, che ti sta sul pugno e che lanci a uccidere qualunque cosa in movimento: una lepre grossa tre volte lui. topi, gatti, cani, beccacce, storni, cornacchie; capace di raggiungerli con scatti di fantastica velocità per ucciderli con un solo colpo di artiglio. Un falco che odia il cappuccio e non lo accetta, ma ti sta seduto sul pugno, superbo, autosufficiente, spietato, con gli occhi gialli. Ottimo amico o difficilissimo da trattare, secondo l’umore.

Sì, l’Anjin-san è un falco ad ali corte. Contro chi lo devo lanciare? Omi? Non ancora. Yabu? Non ancora. Buntaro?

Perché l’Anjin-san ha seguito Buntaro con le pistole? Per Mariko, naturalmente. Ma sono stati sul guanciale? Occasioni ne hanno avute tante. Io credo di sì. “Abbondante,” ha detto lei, il primo giorno. Bene. Niente di male sul fatto — Buntaro lo si credeva morto — purché resti segreto per sempre. Ma l’Anjin-san è stato sciocco a rischiare tanto con la donna di un altro. Non ce ne sono sempre mille, libere e sole, altrettanto graziose, altrettanto piccole o grandi o belle o altolocate, eccetera, senza correre rischi? Si è comportato da stupido barbaro geloso. Ti ricordi Rodrigues? Non ha forse ammazzato in duello un altro barbaro, secondo il loro uso, per prendersi quella figlia di un modestissimo mercante, che ha sposato a Nagasaki? Il Taikō non lasciò forse passare invendicata quella morte — contro il mio parere — perché era stato ucciso solo un barbaro, e non uno dei nostri? È sciocco avere due leggi, una per noi e una per loro. Dovrebbe essercene una soltanto.

No, non lancerò l’Anjin-san contro Buntaro. Ho bisogno di quello sciocco. Ma, che abbiano o no riposato insieme sul guanciale, spero che Buntaro non lo sospetti mai. Se no, dovrei ammazzarlo alla svelta, perché nessuna forza al mondo gli impedirebbe di uccidere l’Anjin-san e Mariko-san, e io ho bisogno di loro più che di lui. Dovrei forse eliminarlo subito?

Appena Buntaro si era rimesso dall’ubriacatura. Toranaga lo aveva mandato a chiamare. “Come osi anteporre i tuoi interessi ai miei? Per quanto tempo Mariko-san non sarà in grado di farmi da interprete?”

“Il dottore ha detto pochi giorni, signore. Chiedo scusa di tanto disturbo.”

“Avevo spiegato molto chiaramente che ho bisogno di lei per un’altra ventina di giorni. Non lo ricordi?”

“Sì. Mi spiace.”

“Se ti ha irritato, bastavano quattro colpi sul sedere. A tutte le donne fanno bene, di tanto in tanto, ma più di così è da villani. Per il tuo egoismo danneggi l’addestramento e ti comporti come un contadino. Come posso parlare con l’Anjin-san, senza di lei?”

“Lo so, signore, mi dispiace. È la prima volta che la batto. È che… a volte mi fa diventare pazzo, e non ci vedo più.”

“Allora perché non divorzi? O la mandi via? O la uccidi, o le ordini di tagliarsi la gola, quando non avrò più bisogno di lei?”

“Non posso. Non posso, mio signore. Lei… l’ho voluta da quando l’ho vista la prima volta. Appena sposati, era quanto di meglio un uomo possa desiderare. Mi credevo benedetto… ricordate quanti daimyo l’avrebbero voluta? Poi… poi la mandai via, per proteggerla, dopo lo sporco assassinio, fingendo di essere disgustato di lei, e allorché, tanti anni dopo, il Taikō mi ordinò di richiamarla, l’ho desiderata di nuovo, più che mai. La verità è che io me l’aspettavo riconoscente, e l’ho presa come ogni uomo, senza badare alle piccole cose da donne, come le poesie e i fiori. Ma lei era cambiata. Era fedele come sempre, ma gelida, non chiedeva che di morire, voleva che la uccidessi.” Buntaro era fuori di sé. “Non posso ucciderla, né permetterle di uccidersi. Ha macchiato mio figlio e mi induce a odiare le altre donne, ma non posso liberarmi di lei. Ho cercato… ho cercato di essere gentile, ma è sempre come il ghiaccio e mi fa impazzire. Quando, al ritorno dalla Corea ho saputo che si era convertita a questa assurda religione cristiana, mi sono divertito, perché cosa può mai contare una religione? Volevo stuzzicarla un po’ e invece mi sono trovato che le tenevo il coltello alla gola e giuravo di tagliargliela se non abiurava. Naturalmente lei ha detto di no… e quale samurai l’avrebbe fatto sotto una minaccia? Mi ha fissato con quei suoi occhi e mi ha esortato a continuare. ‘Tagliate, mio signore, vi prego,’ ha detto. ‘Terrò indietro la testa. E prego Dio di morire dissanguata.’ Non ho tagliato. L’ho presa. Ma ho tagliato i capelli e le orecchie ad alcune sue dame che l’avevano incoraggiata a farsi cristiana e le ho scacciate dal castello. Ho fatto lo stesso alla sua tutrice e le ho tagliato anche il naso, a quella vecchia strega! Allora Mariko ha dichiarato che, poiché avevo punito le sue dame, la prima volta che mi fossi presentato a lei non invitato avrebbe fatto seppuku, in qualunque modo, subito… nonostante il suo dovere verso di voi, e quello verso la famiglia, nonostante perfino i comandamenti del suo dio cristiano!” Lacrime di collera gli scorrevano lungo le guance. “Non posso ucciderla, per quanto lo desideri. Non posso uccidere la figlia di Akechi Jinsai, per quanto lei lo meriti…”

Toranaga lo aveva lasciato sfogare poi lo aveva mandato via, ordinandogli di tenersi assolutamente lontano da Mariko, finché egli non avesse deciso il da farsi e aveva mandato da lei il proprio medico. Il responso era stato buono: ammaccature, ma nessuna lesione interna.

Per la propria sicurezza, dato che si aspettava un tradimento e il tempo stava scorrendo veloce, aveva deciso di aumentare la pressione su tutti. Aveva mandato Mariko da Omi, con ordini precisi di riposare e di restare in casa, lontano dall’Anjin-san. Quindi aveva chiamato l’Anjin-san e si era finto irritato, licenziandolo bruscamente, quando era stato chiaro che non potevano conversare. L’addestramento era stato intensificato, le truppe mandate a compiere marce forzate. Naga aveva ricevuto l’ordine di portare con sé l’Anjin-san e ridurlo a pezzi per la fatica. Ma Naga non ci era riuscito.

Allora Toranaga ci si era provato lui stesso. Aveva guidato un battaglione per undici ore su per le colline, e l’Anjin-san lo aveva seguito, non in prima fila, ma senza cedere. Di ritorno ad Anjiro, gli aveva detto, nel suo linguaggio quasi incomprensibile, e vacillando per la fatica: “Toranaga-sama, io camminare posso. Io moschetti addestrare posso. Mi dispiace, non possibili i due nelle stesse volte.”

Ora, sotto il cielo plumbeo, che si preparava alla pioggia, Toranaga sorrise fra sé, eccitato all’idea di abituare Blackthorne al pugno del falconiere. È un falco ad ali corte. E Mariko è altrettanto resistente, altrettanto intelligente, ma più brillante, e capace di una spietatezza che lui non possiede. Lei è come un falco pellegrino, come Tetsu-ko. La migliore. Perché la femmina del falco è sempre più grande e più veloce e più forte del maschio, sempre migliore di lui?

Sono tutti falchi… Mariko, Buntaro, Yabu, Omi, Fujiko, Ochiba, Naga e tutti i miei figli e figlie e donne e vassalli, e tutti i miei nemici… falchi, o prede dei falchi.

Devo portare Naga in posizione, in alto, e lasciarlo piombare. Su chi? Omi o Yabu? Quello che Naga aveva detto di Yabu, era vero.

“Dunque, Yabu-san, che cosa avete deciso?” gli aveva chiesto, il secondo giorno.

“Non andrò a Osaka, se non andate voi, signore. Ho ordinato la mobilitazione di tutto l’Izu.”

“Ishido vi incriminerà.”

“Prima incriminerà voi, e se cade il Kwanto, cade anche l’Izu. Io ho stretto con voi un patto solenne. Sono dalla vostra parte. I Kasigi rispettano i patti.”

“Sono onorato di avervi per alleato,” aveva mentito lui, soddisfatto che un’altra volta Yabu avesse agito come egli aveva previsto. Il giorno dopo Yabu aveva radunato le truppe e gli aveva chiesto di passarle in rivista, poi, davanti a tutti i suoi uomini, si era inginocchiato e ufficialmente gli si era offerto come vassallo.

“Mi riconoscete come vostro feudatario?” aveva domandato Toranaga.

“Sì. E con me tutti gli uomini dell’Izu. E, mio nobile signore, accettate, vi prego, questo dono come pegno di dovere filiale.” Sempre in ginocchio, gli aveva offerto la spada di Murasama. “Questa è la spada che uccise vostro nonno.”

“Non è possibile!”

Yabu gli aveva narrato la storia della spada, come fosse giunta fino a lui e come, solo di recente, egli ne avesse appreso le vicende. Aveva chiamato Suwo e il vecchio aveva raccontato i fatti di cui era stato testimone da ragazzo.

“È vero, Toranaga-sama,” aveva affermato Suwo, con orgoglio. “Nessuno vide il padre di Obata spezzare la spada o gettarla in mare. E io giuro sulla mia speranza di rinascere samurai di aver servito vostro nonno, il Nobile Chikitada. L’ho servito fedelmente fino al giorno della sua morte. Io c’ero, lo giuro.”

Toranaga aveva accettato la spada, che sembrò vibrare, carica di odio, nelle sue mani. Aveva sempre irriso le leggende secondo cui certe spade possiedono in sé la smania di uccidere, ma ora ci credette.

Rabbrividì, al ricordo di quel giorno. Perché le lame di Murasama ci odiano? Una uccise mio nonno. Un’altra quasi mi tagliò un braccio, quando avevo sei anni. Un incidente inspiegabile, perché non c’era nessuno nelle vicinanze, eppure io quasi morii dissanguato. Un’altra ancora ha decapitato il mio primogenito.

“Signore,” aveva dichiarato Yabu, “una spada così insozzata non dovrebbe restare in vita, ne? Lasciate che la porti in mare e ve la lasci affondare, così che almeno lei non possa mai minacciare né voi né i vostri discendenti.”

“Sì, sì,” aveva mormorato, grato del suggerimento. “Fatelo subito!” E solo quando la spada era scomparsa nelle profondità del mare, sotto gli occhi dei suoi uomini, il suo cuore aveva ripreso a battere regolarmente. Aveva ringraziato Yabu, aveva ordinato che le tasse venissero pagate per il sessanta per cento dai contadini e per il quaranta per cento dai loro signori, e gli aveva assegnato come feudo l’Izu. Tutto era come prima, salvo che adesso tutto il potere nell’Izu apparteneva a Toranaga, se avesse voluto prenderselo.

Toranaga si girò di nuovo, per trovare una posizione più comoda, godendo il contatto con la terra, come sempre, e traendone forza. Quella lama è scomparsa, per non riapparire mai più. Però, ricordati la profezia del vecchio indovino cinese: morirai di spada. Ma la spada di chi? E per mano mia o di altri?

Lo saprò quando lo saprò, si disse senza timori.

Adesso dormi. Il karma è il karma. Ricorda, con animo quieto, che l’Assoluto, il Tao, è dentro di te, che nessun prete o culto o dogma o libro o parola del maestro si erge fra te e Lui. Riconosci che il bene e il male sono irrilevanti, l’io e il tu sono irrilevanti, come la vita e la morte. Entra nella sfera in cui non esiste paura della morte né speranza dell’aldilà, dove sei libero dagli impedimenti della vita o dal bisogno di salvezza. Tu stesso sei il Tao. Sii tu, ora, una roccia contro cui inutilmente si avventano le onde della vita…

Il breve grido strappò Toranaga alla meditazione ed egli balzò in piedi. Naga, eccitato, puntava il dito verso ovest e tutti gli occhi seguivano quell’indicazione.

Un piccione viaggiatore giungeva in linea retta dall’ovest diretto ad Anjiro. Si posò un momento a riposare su un albero, poi riprese il volo, mentre la pioggia cominciava a cadere.

Lontano, a ovest, c’era Osaka.