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“Il daimyo, Kasigi Yabu, signore di Izu, vuole sapere chi sei, da dove vieni, come siete arrivati qui, quali azioni di pirateria avete commesso,” disse padre Sebastio.
“Continuo a ripeterti che non siamo pirati.” La mattina era limpida e calda e Blackthorne stava inginocchiato davanti alla piattaforma, nella piazza del villaggio, con la testa ancora dolorante per il colpo. Stai calmo e fa’ lavorare il cervello, si diceva. Siete sotto processo ed è in gioco la vita. Tu sei il portavoce e problemi non ne mancano. Il gesuita ostile è l’unico interprete possibile e tu non hai modo di sapere che cosa dica in realtà. Di sicuro sai solo che non ti aiuterà… “Tieni sempre la testa sul collo, ragazzo.” Gli sembrava quasi di udire la voce di Alban Caradoc. “Quando la tempesta è al massimo, e il mare infuria, allora è il momento di ricorrere a tutte le tue risorse. È questo che può salvare la vita tua e della nave, se sei tu il pilota. Testa sul collo, e trai esperienza da ogni giorno, per quanto cattivo sia…”
L’esperienza di oggi è bile, pensò tetro Blackthorne. Come mai sento così chiara la voce di Alban Caradoc?
“Prima di’ al daimyo che siamo in guerra, che siamo nemici,” rispose. “Digli che Inghilterra e Olanda sono in guerra contro la Spagna e il Portogallo.”
“Ti invito a parlare con sincerità e a non distorcere i fatti. I Paesi Bassi — o Olanda, o Zelanda, o Province Unite, comunque li chiamate voi, sporchi olandesi — sono una piccola provincia ribelle dell’impero spagnolo. Tu sei il capo di un pugno di traditori in rivolta contro il loro sovrano.”
“L’Inghilterra è in guerra e l’Olanda si è sepa…” Blackthorne si interruppe perché il prete stava traducendo, senza ascoltarlo.
Il daimyo stava sulla piattaforma, basso, tozzo, autorevole. Era comodamente inginocchiato, con i calcagni nascosti sotto la veste, fiancheggiato da quattro luogotenenti, uno dei quali era Kasigi Omi, suo nipote e vassallo. Tutti indossavano chimoni di seta, con sopravvesti molto ricche, alte cinture alla vita ed enormi spalline rigide. E avevano le inevitabili spade.
Mura era in ginocchio nella polvere della piazza. Era l’unico membro del villaggio presente. Gli altri spettatori erano i cinquanta samurai giunti con il daimyo: sedevano in file ordinate e silenziose. Il gruppo dei marinai olandesi si trovava alle spalle di Blackthorne, in ginocchio e sorvegliato dalle guardie. Quando erano stati chiamati, avevano dovuto portare con sé il capitano-generale, sebbene malato; a lui era stato permesso di rimanere sdraiato per terra, in uno stato ancora semicomatoso. Blackthorne si era inchinato insieme a tutti gli altri, davanti al daimyo, ma non era bastato. I samurai li avevano sbattuti in ginocchio e li avevano tenuti con la testa nella polvere, come i contadini. Blackthorne aveva cercato di resistere, gridando al prete di spiegare che loro non usavano così, che lui era il capo e un emissario del suo paese e in tale veste voleva essere considerato, ma il manico di una lancia l’aveva fatto vacillare. D’istinto i suoi uomini si erano mossi per attaccare, ma egli aveva gridato di fermarsi e obbedire. E per fortuna avevano obbedito. Il daimyo aveva emesso dei suoni gutturali, che secondo la traduzione del prete significavano che li ammoniva a dire la verità e in fretta. Blackthorne aveva chiesto una sedia, ma il sacerdote gli aveva risposto che i giapponesi non usavano sedie e che quindi in Giappone non esisteva niente di simile.
Blackthorne stava attentissimo al prete, mentre questi traduceva le sue parole al daimyo, in cerca di una chiave per capire.
Sul viso del daimyo si leggevano arroganza e crudeltà. Scommetto che è un autentico bastardo, pensò. Il giapponese del prete non è scorrevole. Ah, visto? Irritazione e impazienza. Forse il daimyo vuole una parola più precisa? Mi pare di sì. Perché il gesuita è vestito di arancione? Il daimyo è cattolico? Guarda un po’, il gesuita è molto deferente e suda a tutto spiano. Ci scommetto che il daimyo non è cattolico. No, sii preciso: forse non è cattolico. Di certo non ci sarà tregua con lui. Come si può trarre un vantaggio da quel malefico bastardo? Come parlare direttamente col daimyo? Come ti puoi lavorare il prete? Come puoi screditarlo? Con quale esca? Pensa, avanti! Dei gesuiti ne sai abbastanza…
“Il daimyo dice di sbrigarti a rispondere alle domande.”
“Sì, naturalmente. Mi chiamo John Blackthorne. Sono inglese, pilota-maggiore della flotta olandese. Il nostro porto d’origine è Amsterdam.
“Flotta? Quale flotta? Tu menti. Non esiste nessuna flotta. E perché un pilota inglese su una nave olandese?”
“Prima traduci quello che ho detto.”
“Perché sei pilota di una nave corsara olandese? Svelto, rispondi!”
Blackthorne decise di rischiare. Di colpo la sua voce si indurì e risuonò tagliente nell’aria calda. “Que va! Prima traduci, spagnolo! Subito!”
Il prete arrossì. “Sono portoghese, te l’ho detto. Rispondi alla domanda.”
“Sono qui per parlare col daimyo, non con te. Traduci, figlio di puttana!” Blackthorne vide che il sacerdote arrossiva ancor di più, e che anche il daimyo lo aveva notato. Sii prudente, si disse. Quel bastardo giallo ti sbrana meglio di un branco di pescecani, se esageri. “Dillo al signor daimyo!” e si inchinò deliberatamente verso la piattaforma, sentendo il sudore scorrergli per la schiena a rivoli.
Padre Sebastio sapeva di essere stato addestrato a sopportare senza reazioni gli insulti del pirata e il suo ovvio tentativo di screditarlo agli occhi del daimyo, ma per la prima volta non gli riusciva di farlo e si sentiva perduto. Allorché il messaggero di Mura aveva portato la notizia della nave alla sua missione, nella provincia limitrofa, si era sentito angosciato dalle possibili conseguenze. Non può essere olandese né inglese, aveva pensato. Non erano mai comparse navi di eretici nel Pacifico, salvo quelle dell’arcidiavolo corsaro Drake, e mai nessuna era arrivata laggiù in Asia. Le rotte erano conservate nel massimo segreto e sorvegliate. Subito si era preparato alla partenza e aveva spedito un piccione viaggiatore al suo superiore a Osaka, nella vana speranza di potersi consultare con lui prima di muoversi, perché era giovane, inesperto e nuovo in Giappone. Ci si trovava da nemmeno due anni, non aveva ancora ricevuto gli ordini e non era in grado di affrontare una simile situazione. Si era precipitato ad Anjiro, pregando che la notizia fosse sbagliata. E invece la nave era olandese e il pilota era un inglese, e tutto il suo odio per le diaboliche eresie di Lutero e Calvino e Enrico VIII e la sua bastarda, l’arcinemica Elisabetta, l’aveva travolto e offuscava ancora la sua capacità di giudizio.
“Prete, traduci quello che ha detto il pirata,” ordinò il daìmyo.
Santa Madre di Dio, aiutami a fare la tua volontà. Aiutami a essere forte davanti al daimyo e dammi il dono della parola, che io possa convertirlo alla Vera Fede. Padre Sebastio riprese animo e cominciò a parlare con maggior sicurezza.
Blackthorne ascoltò attentamente, cercando di cogliere le parole e il significato. Il padre pronunciò: “Inghilterra” e: “Blackthorne”, e indicò la nave, placidamente all’ancora nel porto.
“Come siete arrivati qui?” chiese il prete.
“Dallo Stretto di Magellano. Ci abbiamo messo centotrentasei giorni. Di’ al daimyo…’”
“Menti. Lo Stretto di Magellano è segreto. Sei venuto via Africa e India. Ma alla fine dovrai dirla, la verità. Qui si usa la tortura.”
“Il passaggio era segreto. Un portoghese ci ha venduto il rutter. Uno della vostra gente vi ha venduto per un po’ d’oro, come Giuda. Siete tutti spazzatura! Adesso le navi da guerra inglesi — e olandesi — conoscono la via attraverso il Pacifico. C’è una flotta — venti navi di linea inglesi, navi da guerra con sessanta cannoni — che sta attaccando Manila proprio adesso. Il vostro impero è finito.”
“Menti!”
Sì, pensò Blackthorne, ma non è possibile provarlo se non andando a Manila. “Quella flotta percorrerà le vostre rotte e vi strapperà le colonie. E c’è un’altra flotta olandese, che arriverà entro pochi giorni. Il porco spagnolo-portoghese deve rientrare nel porcile e il vostro Generale dei gesuiti glielo metterà nel didietro… dove deve stare!” Si voltò e s’inchinò al daimyo.
“Dio maledica te e la tua lurida bocca!”
“Ano mono wa nani o moshité oru?” esclamò il daimyo impaziente.
Il prete rispose più in fretta e più duramente, e disse: “Magellano” e: “Manila”, ma a Blackthorne parve che il daimyo e i suoi luogotenenti non capissero bene.
Yabu si stava stancando del processo. Guardò il porto, la nave che l’ossessionava da quando aveva ricevuto il messaggio segreto di Omi e si chiese se non fosse davvero il dono degli dei che aveva atteso.
“Hai già ispezionato il carico, Omi-san?” aveva chiesto quella mattina, appena giunto, stanchissimo e infangato.
“No, signore. Ho pensato fosse meglio sigillare la nave finché non foste arrivato di persona. Ma le stive sono piene di casse e balle. Spero di aver agito nel modo giusto. Ecco tutte le chiavi. Le ho confiscate.”
“Bene.” Yabu era venuto da Yedo, la capitale di Toranaga, a più di cento miglia di distanza, a tappe forzate, in segreto e con grandi rischi, ed era della massima importanza per lui tornare altrettanto rapidamente. Gli ci erano voluti quasi due giorni di viaggio, su pessime strade e con i fiumi in piena per il disgelo, parte a cavallo e parte in palanchino. “Andrò subito sulla nave.”
“Dovreste vedere gli stranieri, signore,” aveva riso Omi. “Sono incredibili. Molti hanno gli occhi celesti, come i gatti siamesi, e i capelli dorati. Ma la notizia migliore è che si tratta di pirati…”
Omi gli aveva riferito del prete e di quanto gli aveva raccontato dei corsari e delle parole del pirata e tutto quello che era successo, e l’eccitazione di Yabu era aumentata. Aveva dominato l’impazienza di salire sulla nave e rompere i sigilli, aveva fatto il bagno e cambiato gli abiti e ordinato che i barbari venissero portati al suo cospetto.
“Tu, prete,” fece con voce tagliente, comprendendo a stento il pessimo giapponese del gesuita, “perché si arrabbia tanto con te?”
“È malvagio. Pirata. Adora il diavolo.”
Yabu si chinò verso Omi, alla sua sinistra. “Tu, nipote, capisci quello. che dice? Mente? Che cosa ne pensi?”
“Non lo so, signore. Chi sa mai a che cosa credono veramente i barbari? Immagino che il prete sia convinto che il pirata è un adoratore del diavolo. Ma, naturalmente, sono tutte sciocchezze.”
Yabu si rivolse al sacerdote, verso cui provava una forte antipatia. Avrebbe voluto crocifiggerlo sui due piedi e cancellare il cristianesimo dai suoi domini una volta per tutte. Ma non poteva. Per quanto lui e tutti gli altri daimyo detenessero un potere assoluto nei rispettivi feudi, erano tuttora soggetti alla superiore autorità del Consiglio dei reggenti (la giunta militare al governo, a cui il Taikō aveva demandato il potere fino alla maggiore età del figlio) e anche agli editti emanati dal Taikō, ancora legalmente validi. Uno di essi, risalente a parecchi anni prima, riguardava i barbari portoghesi e stabiliva che tutte le loro persone erano protette e che, nei limiti del possibile, si doveva tollerare la loro religione e consentire ai loro preti di fare proseliti e convertire. “Tu, prete! Cos’altro ha detto il pirata? Cos’ha detto a te? Sbrigati! Hai perso la lingua?”
“Il pirata dice cose cattive. Brutte… altre navi da guerra. Molte.”
“Che intendi con ‘navi da guerra’?”
“Perdono, signore. Non capisco.”
“ ‘Navi da guerra’ non significa niente!”
“Il pirata dice che altre navi da guerra sono a Manila, nelle Filippine.” “Omi-san, tu comprendi di che cosa parla?”
“No, signore. Ha un accento terribile, quasi incomprensibile. Forse dice che vi sono altre navi pirata a est del Giappone.”
“Tu, prete! Queste navi pirata sono al largo delle nostre coste? A est, eh?”
“Sì, signore. Ma io credo che dica bugie. Lui dice a Manila,” “Non ti capisco. Dov’è Manila?” “A est. A molti giorni di viaggio.”
“Se si presenteranno qui delle navi pirata, gli daremo un bellissimo benvenuto, dovunque sia Manila.” “Scusatemi, vi prego, non capisco.”
“Non importa.” La pazienza di Yabu si era esaurita. Aveva già deciso di uccidere gli stranieri e la prospettiva lo rallegrava. Quegli uomini non rientravano fra i “barbari portoghesi” specificati nell’editto del Taikō, e in ogni caso erano pirati. Lui odiava i barbari da sempre, ne detestava il puzzo e il sudiciume e l’alimentazione disgustosa, la stupida religione, l’arroganza e le pessime maniere. E per di più si vergognava, come ogni daimyo, della loro interferenza nel Paese degli Dei. Da secoli la Cina e il Giappone erano in stato di guerra: la Cina non permetteva il commercio della seta, mentre la seta cinese era indispensabile nelle lunghe, calde e umide estati giapponesi. Da generazioni solo minuscoli quantitativi di seta passavano di contrabbando attraverso i controlli ed erano disponibili in Giappone, a prezzi altissimi. Poi, una sessantina d’anni prima, erano arrivati i primi barbari. L’imperatore della Cina, a Pechino, aveva concesso loro una piccola base fissa a Macao, nella Cina meridionale e aveva acconsentito a scambiare la seta con argento. Il Giappone possedeva argento in abbondanza e presto il commercio fiorì. Entrambi i paesi prosperarono e i mediatori, i portoghesi, si arricchirono e i loro preti — soprattutto gesuiti — divennero un perno vitale del commercio perché solo loro erano riusciti a imparare il cinese e il giapponese e potevano quindi agire da negoziatori e da interpreti. Più il commercio si sviluppava, più indispensabili diventavano i preti. Ormai il movimento annuo di merci era molto forte e interessava da vicino ogni samurai; perciò bisognava sopportare i preti e il diffondersi della loro religione, altrimenti i barbari se ne sarebbero andati e il commercio si sarebbe interrotto.
Molti importanti daimyo erano intanto diventati cristiani e i convertiti erano centinaia di migliaia; la maggioranza si trovava nell’isola di Kyushu, a sud, che era la più prossima alla Cina e comprendeva il porto portoghese di Nagasaki. Sì, pensava Yabu, dobbiamo sopportare i preti e i portoghesi, ma non questi nuovi barbari, questi esseri assurdi con i capelli dorati e gli occhi azzurri. Fu invaso dall’eccitazione; finalmente avrebbe soddisfatto la grande curiosità di sapere come i barbari reagissero alla tortura. Aveva undici uomini, undici soggetti diversi, su cui condurre i propri esperimenti. Non si chiedeva mai perché l’agonia degli altri gli piacesse tanto; sapeva solo che gli piaceva, e che quindi doveva procurarsela per goderne.
“Questa nave straniera, non-portoghese e pirata,” dichiarò Yabu, “viene confiscata con tutto quanto contiene. Tutti i pirati sono condannati a immediata…” s’interruppe, a bocca spalancata, vedendo il capo pirata balzare sul prete, strappargli il crocifìsso dalla cintura e farlo a pezzi, gettandone i frammenti per terra, e poi urlare qualcosa a voce altissima. Mentre le guardie scattavano avanti, con le spade levate, il pirata si inginocchiò e s’inchinò profondamente davanti a lui.
“Fermi! Non uccidetelo!” Yabu era allibito all’idea che qualcuno osasse comportarsi così villanamente in sua presenza. “Questi barbari sono al di là di tutti i limiti!”
“Infatti,” confermò Omi, con la mente in tumulto, per il significato possibile di quel gesto.
Il prete era ancora inginocchiato, con lo sguardo fisso sui pezzi del crocifìsso. I giapponesi lo osservarono allungare la mano e raccogliere tremando il legno infranto. Egli disse qualche parola al pirata, con tono basso, quasi gentile. Gli occhi chiusi, strinse le dita e cominciò a muovere lentamente le labbra. Il capo pirata fissava i samurai immobile, senza nemmeno sbattere le palpebre, come un gatto, sempre con i suoi uomini alle spalle.
“Omi-san,“ disse Yabu, ”prima voglio andare sulla nave. Poi cominceremo.“ La voce suonò profonda nel pregustare il piacere che si riprometteva. ”E comincerò con quello piccolo dai capelli rossi, in fondo alla fila.
Omi si chinò verso di lui e con voce eccitata disse: “Scusatemi, ma niente di simile è mai accaduto finora, signore. Mai, da quando sono arrivati i barbari portoghesi. Il crocifìsso non è il loro simbolo sacro? Non mostrano sempre rispetto per i loro preti? Non gli s’inginocchiano sempre davanti? Proprio come i nostri cristiani? Non hanno forse i preti un dominio assoluto su di loro?”
“Vieni al punto.”
“Noi tutti odiamo i portoghesi, signore, salvo quelli di noi che sono cristiani, ne? Forse questi barbari sono più utili da vivi che da morti.” “Come?”
“Perché sono unici. Sono anticristiani! Forse un uomo saggio potrebbe sfruttare il loro odio, o la loro mancanza di religione, a proprio vantaggio. Sono una vostra proprietà, per farne ciò che volete.”
Infatti, e li voglio vedere sotto la tortura, pensò Yabu. Però quella è una cosa che si può fare in qualunque momento. Dai ascolto a Omi, che è un buon consigliere. Ma puoi fidartene in questo momento? Non avrà un motivo segreto per parlare così? Rifletti.
“Ikawa Jikkyu è cristiano,” continuò il nipote, nominandogli il suo odiato nemico — parente e alleato di Ishido — che lo disturbava sul confine occidentale. “Forse che quello sporco prete non abita là? Forse questi barbari potrebbero darvi la chiave capace di aprirvi tutta la provincia di Ikawa. Forse anche quella di Ishido. E forse addirittura quella del Signore Toranaga,” concluse Omi con delicatezza.
Yabu studiò l’espressione di Omi, cercando di penetrare dietro alla superficie, poi il suo sguardo si volse alla nave. Adesso non dubitava più che gliel’avessero mandata gli dei. Sì, ma come dono o come rovina?
Accantonò il suo piacere per la sicurezza del clan. “Sono d’accordo. Ma prima bisogna piegare questi pirati. Insegnategli le buone maniere. Specialmente a lui. ”
“Per Gesù Cristo in croce!” borbottò Vinck.
“Dovremmo recitare una preghiera,” esortò van Nekk. “L’abbiamo appena recitata.”
“Forse dovremmo dirne un’altra. O Signore Dio del cielo, come vorrei una pinta di brandy…”
Stavano ammassati in una specie di pozzo, uno dei tanti in cui i pescatori immagazzinavano il pesce essiccato al sole. I samurai li avevano spinti in gruppo attraverso la piazza, poi giù per una scala. Adesso si trovavano rinchiusi sottoterra. Il pozzo era lungo cinque passi, largo cinque e alto quattro; pavimento e pareti di terra; il soffitto era di assi, coperte da trenta centimetri di terriccio, con una botola.
“Levati dal mio piede, maledetta scimmia!”
“E tu levami da davanti la tua faccia, sacco di merda!” ribatté Pieterzoon. “Ehi, Vinck, spostati un po’, sdentato della malora! Prendi più posto di tutti! Perdio, come mi andrebbe una birra! Muoviti, su!”
“Non posso, Pieterzoon. Stiamo stretti come nel culo di una vergine.”
“È il capitano-generale. Prende tutto il posto lui. Dagli una spinta, sveglialo!” intervenne Maetsukker.
“Eh? Che succede? Lasciatemi stare! Che fate? Sto male, devo rimanere sdraiato. Dove siamo?”
“Lasciatelo stare. È malato. Su, muoviti, Maetsukker, per l’amor del cielo!” Vinck, rabbioso, sollevò Maetsukker e lo spinse contro il muro. Non avevano spazio per sdraiarsi tutti insieme né per stare seduti còmodamente. Paulus Spillbergen, capitano-generale, giaceva disteso sotto la botola, dove c’era più aria, con la testa sul mantello arrotolato. Blackthorne stava appoggiato in un angolo, osservando la botola. Gli altri lo lasciavano solo, conoscendone per lunga esperienza gli umori e la violenza esplosiva che si nascondeva sotto l’apparente calma.
Maetsukker perse la pazienza e sferrò un pugno nelle reni a Vinck. “Lasciami in pace o ti ammazzo, bastardo.”
Vinck gli si gettò contro, ma Blackthorne li afferrò entrambi e sbatté le loro teste contro il muro. “Zitti, tutti quanti!” ordinò a voce bassa e calma. Tutti obbedirono. “Ci divideremo in turni: uno a sedere, uno a dormire e uno in piedi. Spillbergen resterà sdraiato finché non starà bene. In quell’angolo, la latrina.” Li divise. Dopo che si furono sistemati la situazione migliorò.
Dobbiamo uscire di qui entro un giorno, pensava Blackthorne, o saremo troppo indeboliti. Quando porteranno la scala per darci da bere o da mangiare. Stanotte o domani notte. Perché ci hanno messo qua dentro? Non rappresentiamo una minaccia e potremmo aiutare il daimyo. Capirà? Era l’unico modo che avevo per dimostrargli che il nostro vero nemico è il prete. Avrà capito? Il prete ha capito.
“Dio forse ti perdonerà il sacrilegio, ma io no,” aveva detto, con molta calma, padre Sebastio. “Non avrò pace finché tu e il tuo male non sarete stati eliminati.”
Il sudore gli scorreva sulle guance e sul mento; se l’asciugò distrattamente, con l’orecchio teso ai rumori del pozzo, come quando dormiva a bordo o era di guardia: abbastanza teso da intuire il pericolo prima che arrivasse.
Dovremo scappare e riprenderci la nave. Chissà che cosa sta facendo Felicity. E i bambini. Tudor adesso ha sette anni e Lisbeth… Ci troviamo a un anno, undici mesi e sei giorni da Amsterdam, più trentasette giorni di preparativi e di viaggio da Chatham a là… questa è esattamente la sua età, se tutto va bene. Deve andare tutto bene. Felicity cucinerà, sorveglierà, pulirà e starà a chiacchierare mentre i bambini crescono, forti e coraggiosi come lei. Sarà bello ritrovarsi a casa, passeggiare insieme in riva al mare e nei boschi e nelle foreste e nella bellezza dell’Inghilterra.
Nel corso degli anni aveva imparato a pensarli come personaggi di una commedia, gente che si ama e per cui si soffre senza fine. Altrimenti il dolore della lontananza sarebbe stato troppo duro. Poteva quasi contarli, i giorni passati a casa in undici anni di matrimonio. Pochi, pensò, troppo pochi. “È una vita dura per una donna, Felicity,” le aveva detto prima di sposarla. E lei aveva risposto: “Qualunque vita è dura per una donna.” Allora aveva diciassette anni e i capelli lunghi e…
Le orecchie gli diedero l’allarme.
Gli uomini stavano seduti o appoggiati, tentando di dormire. Vinck e Pieterzoon, che erano buoni amici, chiacchieravano sottovoce. Van Nekk fissava lo sguardo nel vuoto, come gli altri. Spillbergen era semisveglio e Blackthorne pensò che era più robusto di quanto avesse creduto.
Nell’udire i passi sopra le loro teste, tutti tacquero. I passi si fermarono e risuonarono voci soffocate, negli strani suoni di quella lingua. A Blackthorne parve di riconoscere la voce del samurai… Omi-san? Sì, così si chiamava… ma non ne era certo. Poi le voci si interruppero e i passi si allontanarono.
“Credi che ci daranno da mangiare, pilota?” chiese Sonk. “Sì.”
“Ho bisogno di bere. Birra fresca, perdio!” inveì Pieterzoon.
“Sta’ zitto,” ribatté Vinck. “Basti tu a far sudare.”
Blackthorne si sentiva la camicia fradicia. E che tanfo! Dio Cristo, come vorrei farmi un bagno, pensò, e a un tratto sorrise, ricordando l’episodio precedente.
Mura e gli altri l’avevano portato nella stanza riscaldata e l’avevano depositato su una panca di pietra. Si sentiva le membra ancora intorpidite e molli. Le tre donne, guidate dalla vecchia, avevano cominciato a spogliarlo e lui aveva tentato di ribellarsi, ma a ogni sua mossa uno degli uomini gli toccava qualche punto nevralgico e lo rendeva inoffensivo. Per quanto imprecasse e protestasse, l’avevano denudato. Non che si vergognasse di trovarsi nudo davanti a delle donne, ma spogliarsi era una faccenda da fare in privato, secondo gli usi. E a lui non piaceva lasciarsi spogliare da nessuno, tanto meno da quegli indigeni incivili. E poi, essere spogliato in pubblico come un bimbetto incapace e lavato dappertutto come un neonato, con acqua calda, saponosa e profumata, mentre tutti commentavano e lui doveva starsene disteso sul dorso, quello era veramente troppo. Poi il membro gli si era drizzato, e più cercava di impedirglielo peggio era. Almeno così aveva pensato lui; le donne invece sembravano di parere diverso. Avevano spalancato gli occhi e lui aveva cominciato ad arrossire. Gesù Signore Dio Unico e Solo, è impossibile che arrossisca, e invece sì, e le dimensioni del membro sembravano essere ancora aumentate e la vecchia aveva battuto le mani per la meraviglia, aveva esclamato qualcosa e tutti avevano annuito; poi aveva espresso un altro commento, scuotendo il capo, e di nuovo tutti avevano annuito con maggiore energia.
Con assurda gravità Mura aveva detto: “Capitano-san, Madre-san ringrazia, il meglio della sua vita, adesso muore felice!” e tutti si erano inchinati come un sol uomo e lui, Blackthorne, a un tratto, si era reso conto della comicità della cosa ed era scoppiato a ridere. Gli altri prima avevano sussultato, poi anche loro si erano messi a ridere, la risata gli aveva fatto abbassare il membro e la vecchia si era dispiaciuta e lo aveva confessato, e questo aveva mosso ancora di più al riso sia lui sia gli altri. Poi l’avevano deposto delicatamente nel calore dell’acqua più fonda e presto lui non aveva retto più, allora l’avevano ridisteso sulla panca, ansimante. Le donne l’avevano asciugato ed era arrivato un vecchio cieco. Blackthorne non aveva mai provato il massaggio: in principio aveva cercato di resistere alle dita indiscrete, ma poi la loro magia l’aveva convinto e dopo poco quasi faceva le fusa come un gatto, via via che quelle dita trovavano i punti nevralgici e ravvivavano il sangue e la linfa che scorrono sotto la pelle e i muscoli e i nervi. Quindi era stato portato a letto, stranamente debole, mezzo perduto in un sogno, e ci aveva trovato la ragazza. Si era mostrata paziente e, dopo aver dormito e recuperate le forze, l’aveva posseduta con dolcezza, pur essendo passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva avuto una donna. Non le aveva chiesto neppure come si chiamasse e quando la mattina Mura, teso e spaventatissimo, era venuto a svegliarlo, lei non c’era più.
Blackthorne sospirò. La vita è piena di meraviglie, pensò.
Spillbergen intanto aveva ricominciato a lamentarsi, Maetsukker si stringeva la testa fra le mani e gemeva, non di dolore ma di paura; il giovane Croocq era al limite del crollo e Jan Roper chiese: “Che cosa c’è da sorridere, pilota?”
“Va’ all’inferno.”
“Con tutto il rispetto, pilota,” s’intromise cauto van Nekk, esprimendo a parole quello che tutti pensavano dentro di sé, “sei stato ben poco prudente a prendertela col prete davanti a quei maledetti bastardi gialli.”
Tutti acconsentirono, sia pure misurando le parole.
“Se non avessi fatto così, credo che non ci troveremmo in questo guaio schifoso.”
Van Nekk non si avvicinò a Blackthorne. “Basta gettarsi con la faccia nella polvere quando compare il Nobile Bastardo e sono buoni come agnellini.” Aspettò la risposta, ma Blackthorne tacque. Si limitò a voltarsi verso la botola come se niente fosse stato detto. Il disagio degli uomini aumentò.
Paulus Spillbergen si sollevò a fatica, appoggiandosi a un gomito. “Di che cosa state parlando, Baccus?”
Van Nekk si accostò a lui e gli raccontò del prete e della croce e di quanto era avvenuto poi e perché si trovavano là dentro, e di come oggi gli occhi gli facessero più male del solito.
“Sì, è stato pericoloso, pilota-maggiore,” assentì Spillbergen. “Anzi, direi proprio sbagliato… datemi un po’ d’acqua. Adesso i gesuiti non ci lasceranno più in pace.”
“Avresti dovuto rompergli il collo, pilota. I gesuiti non ci daranno pace comunque,” intervenne Jan Roper. “Sono dei sudici pidocchi e noi ci troviamo in questo buco puzzolente perché Dio ci vuole punire.”
“Sciocchezze, Roper,” replicò Spillbergen. “Siamo qui perché…”
“È la punizione di Dio! Dovevamo bruciare tutte le chiese di Santa Magdellana, non due soltanto. Dovevamo farlo. Figli di Satana!”
Spillbergen scacciò debolmente una mosca. “Le truppe spagnole si stavano riorganizzando ed eravamo in una proporzione di quindici a uno. Datemi un po’ d’acqua! Abbiamo saccheggiato la città e preso il bottino e gli abbiamo sbattuto il muso nella polvere. Se fossimo rimasti ancora, ci avrebbero ammazzato. Per amor di Dio, qualcuno mi dia un po’ d’acqua. Saremmo morti tutti se non ci fossimo riti…”
“Che importa, se si fa l’opera di Dio? Noi abbiamo mancato.”
“Forse siamo qui in obbedienza a Dio,” osservò van Nekk, cercando di calmare le acque, perché Roper, per quanto fanatico, era un brav’uomo, un buon commerciante, e inoltre era socio in affari del figlio. “Forse potremmo insegnare agli indigeni che sbagliano a obbedire ai papisti. Forse li potremmo convertire alla Vera Fede.”
“Giusto,” fece eco Spillbergen. Si sentiva ancora debole, ma in complesso gli stavano tornando le forze. “Penso che avresti dovuto consultarti con Baccus, pilota-maggiore. In fondo è il capomercante ed è bravissimo a trattare con tutti gli indigeni. Passatemi l’acqua, vi dico!”
“Non ce n’è, Paulus!” La tetraggine di van Nekk si accentuò. “Non ci hanno dato né da mangiare né da bere. Non abbiamo neppure un vaso per pisciarci dentro.”
“E allora chiedetelo! E un po’ d’acqua. Cristo muoio di sete! Chiedete dell’acqua… Tu!” “Io?” fece Vinck. “Sì, tu.”
Vinck guardò Blackthorne, ma questi fissava con aria assente la botola, allora Vinck si mise sotto l’apertura e gridò: “Ehi, voi lassù! Dateci un po’ di stramaledetta acqua! Vogliamo da mangiare e da bere!”
Nessuna risposta. Gridò di nuovo. Di nuovo nessuna risposta. A poco a poco anche gli altri si misero a urlare, tutti tranne Blackthorne. Presto dalle voci trapelarono il panico e la nausea di sentirsi rinchiusi e le grida diventarono simili a ululati.
La botola si aprì e Omi li osservò dall’alto. Accanto a lui c’erano Mura e il prete.
“Acqua! Da mangiare, perdio! Fateci uscire!” Di nuovo tutti gridavano insieme.
Omi fece un segno a Mura, che annuì e si allontanò. Tornò dopo un momento, con un altro pescatore, trasportando un grosso barile. Ne rovesciarono sulla testa dei prigionieri il contenuto: acqua di mare e avanzi di pesce fradicio.
Gli uomini si allontanarono di corsa, cercando di sfuggire a quella pioggia, ma non tutti ci riuscirono. Spillbergen restò quasi soffocato. Qualcuno scivolò in terra e gli altri lo calpestarono. Blackthorne non lasciò il proprio angolo, limitandosi a guardare Omi, pieno di odio.
Poi Omi parlò, in un silenzio di sconfitta, interrotto solo dalla tosse e dai conati di vomito di Spillbergen. Quando Omi ebbe finito, il prete si accostò all’apertura, con un certo nervosismo: “Questi sono gli ordini di Kasigi Omi: dovete cominciare a comportarvi da esseri umani. Non farete più rumore, sennò la prossima volta saranno rovesciati nella cantina cinque barili come questo. Poi dieci, poi venti. Avrete cibo e acqua due volte al giorno. Quando avrete imparato come ci si comporta, vi sarà permesso di tornare nel mondo degli uomini. Il Nobile Yabu vi ha graziosamente risparmiato la vita, a patto che lo serviate fedelmente. Ciò vale per tutti meno uno. Uno di voi deve morire. Al tramonto. Sceglierete voi stessi a chi toccherà. Ma tu,” e indicò Blackthorne, “tu non devi essere scelto.” Il prete, a disagio, tirò un sospiro, fece un mezzo inchino al samurai e indietreggiò.
Omi sbirciò nella cantina: riuscì a vedere gli occhi di Blackthorne e ne avvertì l’odio. Ci vorrà molto per spezzare lo spirito di quell’uomo, pensò. Non importa. Il tempo c’è.
La botola sbatté e si richiuse.