18

L’assassino scavalcò il muro del giardino nell’ora più cupa della notte. Era quasi invisibile. Indossava abiti neri aderentissimi, e neri erano i tabi un cappuccio e una maschera nera gli coprivano la testa. Era piccolo e corse senza il minimo rumore lungo la facciata di pietra della fortezza interna, fermandosi ai piedi delle pareti altissime. A cinquanta metri da lui, due Marroni sorvegliavano la porta principale. Egli lanciò abilmente un rampino, coperto da un panno e legato a una sottilissima corda di seta. Il rampino si agganciò alla sporgenza della strombatura di una feritoia. L’uomo si arrampicò lungo la corda, s’infilò nell’apertura e scomparve all’interno.

Il corridoio era tranquillo, illuminato da alcune candele. Lo percorse in fretta, silenzioso, aprì una porta che dava sull’esterno e uscì sui bastioni. Un secondo lancio abile, una breve arrampicata, e si trovò nel corridoio al piano di sopra.

Le sentinelle agli angoli del bastione non sentirono.

Mentre altri Marroni, di pattuglia, gli passavano vicino, egli si nascose in una specie di nicchia. Dopo che si furono allontanati scivolò lungo il corridoio. Si fermò sull’angolo e allungò cautamente il collo. Un samurai stava di guardia alla porta più lontana. Nella quiete si muovevano solo le luci delle candele. La guardia era seduta a gambe incrociate, sbadigliò, si appoggiò al muro e si stirò. Per un attimo chiuse gli occhi. Fulmineo, l’assassino si lanciò avanti. Senza un suono. Con la corda di seta che stringeva in mano, formò un laccio, lo passò sopra il capo della guardia e strinse. Il samurai alzò le mani per tentare di liberarsi, ma stava già morendo. Un breve colpo di coltello fra le vertebre, abile come la mossa di un chirurgo, ed egli non si mosse più.

L’uomo si introdusse silenziosamente nella sala delle udienze: era vuota e le entrate interne incustodite. Trascinò dentro il cadavere e richiuse la porta. Senza esitare attraversò la sala e si diresse alla porta interna di sinistra, che era di legno, e dotata di pesanti rinforzi. Il coltello ricurvo era stretto nella sua mano destra. Bussò piano.

“Ai tempi dell’imperatore Shirakawa…” disse. Era l’inizio della parola d’ordine.

Dall’altra parte si udì il fruscio di una lama che veniva sguainata e la risposta: “…viveva un saggio chiamato Enraku-ji…”

“…che scrisse i trentacinque sutra. Ho dei messaggi urgenti per il Nobile Toranaga.”

La porta si aprì e l’assassino piombò all’interno. Il coltello entrò nella gola del primo samurai proprio sotto il mento, uscì con altrettanta rapidità e si immerse nell’identico modo nella gola della seconda guardia. Una lieve torsione e uscì di nuovo. Ancora in piedi, i due uomini erano morti. L’assassino ne afferrò uno e lo lasciò scivolare dolcemente; l’altro cadde senza rumore. Il sangue cominciò a scorrere sul pavimento e i corpi si contorsero in un ultimo spasimo.

L’uomo si affrettò lungo il corridoio interno, male illuminato. A quel punto uno shoji si aprì ed egli si immobilizzo, guardandosi cautamente intorno. A dieci passi da lui, Kiri lo fissava a bocca aperta, tenendo un vassoio fra le mani.

L’uomo vide che le due ciotole sul vassoio erano pulite e il cibo non toccato. Dalla teiera saliva un filo di vapore. Poi il vassoio cadde, le mani della donna s’infilarono nella cintura e ne uscirono con un pugnale. La sua bocca si aprì, ma nessun suono ne venne fuori e già l’assassino correva verso l’angolo. In fondo si spalancò un’altra porta e apparve un samurai preoccupato e assonnato.

L’uomo si precipitò verso di lui e fracassò uno shoji alla sua destra. Kiri adesso stava urlando e l’allarme era stato dato, ma egli proseguì, sicuro nel buio, attraverso l’anticamera, sopra alle donne e alle serve che si erano appena svegliate, fino al corridoio più interno, all’altra estremità.

Qui regnava un’oscurità totale; l’assassino a tastoni cercò la porta giusta, in preda a una furia crescente. Aprì la porta e balzò sulla figura sdraiata sul giaciglio, ma il braccio gli fu bloccato da una stretta crudele ed egli fu trascinato per terra, in un corpo a corpo. Si batté con astuzia, si liberò e vibrò un colpo, ma mancò il bersaglio, impacciato dalla coperta. La gettò lontano e si tuffò sull’avversario col coltello pronto per il colpo mortale. Ma l’uomo si contorse con agilità insospettata e un piede lo colpì duramente all’inguine. Il dolore lo travolse e la sua vittima balzò lontano da lui, al sicuro.

Intanto i samurai si erano affollati sulla soglia, alcuni con delle lanterne e Naga, coperto solo dal perizoma, con i capelli arruffati, si mise in mezzo fra lui e Blackthorne, con la spada pronta.

“Ti arrendi?”

L’assassino fece una finta, urlò: “Namu Amida Butsu…” In nome del Budda Amida. Volse il coltello contro di sé e a due mani se lo infilò sotto il mento. Il sangue zampillò ed egli cadde in ginocchio. Naga lo colpì una volta sola, tracciando un arco con la spada, e la testa rotolò per terra.

Nel silenzio generale, Naga raccolse la testa e strappò la maschera. Il viso era un viso qualunque, con gli occhi ancora aperti. Naga la tenne alzata per i capelli, pettinati come quelli di un samurai.

“Qualcuno lo conosce?”

Nessuno rispose. Naga sputò su quella faccia, gettò irosamente la testa a uno dei suoi uomini, strappò i vestiti neri, sollevò il braccio destro all’uomo e scoprì ciò che cercava: il piccolo tatuaggio — i caratteri cinesi che dicevano Amida, il Budda particolare — era stato eseguito nell’ascella.

“Chi è l’ufficiale di guardia?”

“Io, signore.” L’ufficiale era pallido e scosso.

Naga balzò contro di lui e gli altri si allontanarono rapidi. L’ufficiale non tentò neppure di evitare il feroce colpo di spada che gli troncò la testa, parte della spalla e un braccio.

“Hayabusa-san, ordina a tutti i samurai di turno di riunirsi in cortile,” disse Naga a un ufficiale. “Raddoppiate la guardia del nuovo turno. Portate fuori il cadavere. Gli altri…” S’interruppe vedendo apparire sulla soglia Kiri, ancora con il pugnale in mano. La donna osservò il morto, poi Blackthorne.

“L’Anjin-san sta bene?” chiese.

Naga guardò l’inglese che torreggiava su di lui e respirava affannosamente. Non scorse ferite né sangue, solo un uomo ancora confuso per il sonno, che era stato sul punto di venir ucciso. Pallido, ma senza segni evidenti di paura. “Siete ferito, pilota?”

“Non capisco.”

Naga gli si avvicinò e scostò il chimono per controllare se avesse ferite sul corpo.

“Ah, adesso capisco. No, niente ferite,” mormorò il gigante, scuotendo il capo.

“Bene. Sembra illeso, Kiritsubo-san.”

Vide l’Anjin-san indicare il cadavere, dicendo qualcosa. “Non capisco,” rispose Naga. “State qui, Anjin-san. E voi,” ordinò ai suoi uomini, “dategli da bere e da mangiare, se ne vuole.”

“L’assassino aveva il tatuaggio di Amida, ne?” domandò Kiri.

“Sì, Nobile Kiritsubo.”

“Diavoli… diavoli!”

“Infatti.”

Naga si inchinò, poi si rivolse a uno degli spaventati samurai. “Seguimi. Porta la testa!” Uscì chiedendosi che cosa avrebbe potuto raccontare a suo padre. Oh, Budda, grazie d’aver protetto mio padre!

“Era un ronin,” osservò brevemente Toranaga. “Non ne ritroverai mai le tracce, Hiro-matsu.”

“Sì, ma il responsabile è Ishido. Non ha onore, se agisce così. Per niente. Usare simili assassini da strada! Vi prego, lasciatemi chiamare subito le vostre truppe. Sistemerò la questione una volta per tutte.”

“No.” Toranaga si rivolse a Naga. “Sei sicuro che l’Anjin-san non sia ferito?”

“Sì, signore.”

“Hiro-matsu-san, retrocederai di grado tutte le guardie di questo turno per aver mancato al loro dovere. Gli è vietato fare seppuku. Hanno l’ordine di vivere portando scritta in fronte la loro vergogna davanti a tutti i miei uomini, come soldati di ultima classe. Le guardie morte saranno trascinate per i piedi attraverso il castello e tutta la città fino al luogo delle esecuzioni. Se le mangeranno i cani.”

A quel punto osservò suo figlio. Quella stessa sera, più presto, era arrivato dal tempio Johji un messaggio urgente, che riferiva la minaccia di Ishido contro Naga. Toranaga aveva subito ordinato che il figlio rimanesse confinato nei suoi appartamenti, circondato dalle guardie, e che gli altri membri della famiglia che si trovavano a Osaka — Kiri e Sazuko-sama — fossero altrettanto ben sorvegliati. Il messaggio dell’abate diceva anche che egli riteneva saggio rilasciare subito la madre di Ishido, rimandandola in città con le sue cameriere. “Non oso mettere in pericolo scioccamente la vita di uno dei vostri illustri figli! Peggio, la salute della signora è cattiva. Ha il raffreddore ed è meglio che muoia in casa sua e non qui.”

“Naga-san, tu sei altrettanto responsabile del fatto che l’assassino abbia potuto entrare,” disse Toranaga con voce amara e fredda. “Tutti i samurai sono responsabili, di guardia o no, addormentati o svegli. Sarai punito con la privazione di metà delle tue entrate annue.”

“Sì, Toranaga-sama,” rispose il giovane, stupito che gli si permettesse di conservare qualcosa, compresa la testa. “Degradate anche me, vi prego. Non posso vivere con la vergogna. Non merito che disprezzo per il mio fallimento.”

“Se avessi voluto degradarti, lo avrei già fatto. L’ordine per te è di recarti immediatamente a Yedo. Partirai stanotte con venti uomini e ti presenterai a tuo fratello. Viaggerai a tempo di record! Vai!” Naga si inchinò e uscì, con la faccia bianca come un lenzuolo. Toranaga si rivolse altrettanto bruscamente a Hiro-matsu. “Quadruplica la guardia. Cancella la partita di caccia per oggi e per domani. Il giorno dopo la riunione dei reggenti lascerò Osaka. Occupati di tutti i preparativi. Fino ad allora, resterò qui. Non riceverò nessuno, se non invitato da me. Nessuno.”

Agitò la mano in un gesto irritato di congedo. “Potete andarvene tutti. Tu, Hiro-matsu, rimani.”

La stanza si vuotò. Hiro-matsu era contento che la sua umiliazione avvenisse in privato perché, fra tutti, lui, quale comandante della guardia del corpo, era il più responsabile. “Non ho scuse, padrone. Nessuna.’;

Toranaga era sprofondato nei suoi pensieri, e adesso non mostrava nessuna ira. “Se tu volessi assoldare ai tuoi servizi uno dei Tong Amida segreti, come li rintracceresti? come li avvicineresti?”

“Non lo so, padrone.”

“Chi lo saprebbe?”

“Kasigi Yabu.”

Toranaga guardava fuori dalla finestra. I primi segni dell’alba apparivano a oriente, nell’oscurità. “Portalo qui non appena sarà chiaro.”

“Lo ritenete responsabile?”

Toranaga non rispose e tornò alle sue meditazioni. Ma il vecchio soldato non sopportò più il silenzio. “Vi prego, signore, lasciate che mi allontani.”

“Sì, ma avremmo dovuto prenderlo all’esterno, non così vicino a voi.”

“È vero. Ma non ti ritengo responsabile.”

“Io mi sento responsabile. Devo dirvi una cosa, perché io sono responsabile della vostra sicurezza fino a quando non sarete tornato a Yedo. Vi saranno altri attentati contro di voi e tutte le nostre spie riportano notizie di crescenti movimenti di truppe. Ishido sta mobilitando.”

“Certo,” rispose distrattamente Toranaga. “Dopo Yabu, voglio vedere Tsukku-san, poi Mariko-san. Raddoppia la guardia all’Anjin-san.”

“Stanotte sono giunti dispacci secondo cui il Nobile Onoshi ha messo centomila uomini a rafforzare le sue fortificazioni di Kyushu,” insisté Hiro-matsu, in preda all’ansia per la sicurezza di Toranaga.

“Gliene domanderò notizie quando ci incontreremo.”

Hiro-matsu perse la pazienza. “Non vi capisco proprio. Devo dirvi che state rischiando tutto in modo sciocco. Sì, sciocco. Non mi importa se mi taglierete la testa perché parlo, ma questa è la verità. Se Kiyama e Onoshi votano come Ishido sarete incriminato! Siete un uomo morto… avete giocato tutto venendo qui, e avete perduto! Fuggite finché potete. Almeno conserverete la testa!”

“Non sono ancora in pericolo.”

“L’aggressione di stanotte non vi dice niente? Se non aveste cambiato stanza, adesso sareste morto.”

“Forse, ma probabilmente no,” rispose Toranaga. “C’erano molte guardie fuori dalla mia porta stanotte, come ieri. E tu stesso eri di guardia. Nessun assassino mi può raggiungere. Neppure questo, che era così ben addestrato. Sapeva la strada e anche la parola d’ordine, ne? Kiri-san dice che lo ha sentito lei, mentre la dava. Quindi secondo me sapeva in quale stanza mi trovavo. Non ero io il suo bersaglio: era l’Anjin-san.”

“Il barbaro?”

“Sì.”

Toranaga si era aspettato qualche nuovo pericolo per il barbaro, dopo le straordinarie rivelazioni di quella mattina. Per qualcuno evidentemente l’Anjin-san era troppo pericoloso per lasciarlo vivo. Però Toranaga non aveva mai supposto che si sarebbe tentata un’aggressione così presto, nei suoi stessi alloggi privati. Chi mi tradisce? Scartò subito l’ipotesi che Kiri o Mariko avessero parlato. Ma i castelli e i giardini possiedono sempre luoghi segreti, da cui si può spiare, pensò. Son proprio nel cuore della fortezza nemica, e dove io ho una spia, Ishido — e altri — ne avranno venti. Forse si trattava proprio di una spia.

“Raddoppia la guardia all’Anjin-san. Per me vale diecimila uomini.”

Dopo che la Nobile Yodoko se n’era andata, quella mattina, Toranaga era tornato nel giardino della Casa da Tè e aveva notato subito la debolezza dell’Anjin-san, gli occhi troppo accesi e la stanchezza che lo opprimeva. Perciò aveva dominato la propria eccitazione e l’impulso quasi invincibile di approfondire il discorso, e lo aveva congedato, dicendo che avrebbero continuato il giorno seguente. L’Anjin-san era stato affidato alle cure di Kiri, con l’ordine di chiamare un medico, di rimetterlo in forze, di dargli anche il cibo dei barbari, se lo desiderava, e perfino di concedergli la stanza da letto in cui spesso dormiva lo stesso Toranaga. “Dagli tutto quello che ritieni necessario, Kiri-san,” le aveva detto in privato. “Ho bisogno di averlo in perfetta forma, fisica e mentale, molto rapidamente.”

Poi l’Anjin-san aveva chiesto che fosse liberato dalla prigione il frate, quel giorno stesso, perché era vecchio e malato. Toranaga aveva risposto che ci avrebbe riflettuto e aveva mandato via il barbaro con molti ringraziamenti, senza rivelargli di aver già ordinato ai samurai di andare subito alla prigione a prendere il frate, che probabilmente era altrettanto prezioso del barbaro, sia per lui che per Ishido.

Da molto tempo Toranaga sapeva del francescano, e sapeva che era spagnolo e ostile ai portoghesi. Ma l’uomo era stato incarcerato dal Taikō, quindi era prigioniero del Taikō e lui, Toranaga, non aveva autorità su nessuno a Osaka. Aveva deliberatamente mandato l’Anjin-san in quella prigione non solo per fingere con Ishido che lo straniero non avesse nessun valore, ma anche nella speranza che quel pilota così degno di nota fosse capace di ottenere informazioni dal frate.

Il primo goffo attentato contro l’Anjin-san dentro la cella della prigione era stato sventato e subito lo si era circondato di uno schermo protettivo Toranaga aveva compensatoci vassallo sua spia, Minikui, un kaga, tirandolo fuori sano e salvo dalla galera e dandogli quattro portatori tutti suoi e il diritto ereditario di percorrere il rettilineo della via del Tokaidō — la grande strada fa Yedo e Osaka — fra la seconda e la terza tappa, rettilineo che si allungava entro i suoi domini, presso Yedo, e lo aveva spedito segretamente fuori da Osaka fin dal primo giorno. Nei giorni seguenti le sue spie avevano riferito che i due uomini erano diventati amici e che il frate parlava e l’Anjin-san faceva domande e ascoltava. Il fatto che anche Ishido probabilmente avesse delle spie nella cella non lo disturbava. L’Anjin-san era protetto e sicuro. Poi Ishido inaspettatamente aveva tentato di portarselo via, nella sua sfera d’influenza.

Toranaga ripensò a come si erano divertiti lui e Hiro-matsu a progettare “l’imboscata” fulminea — i banditi ronin erano uno dei piccoli gruppi isolati di suoi samurai scelti, che si tenevano nascosti dentro e intorno a Osaka — e a predisporre la tempestiva comparsa di Yabu che, senza sospetti, aveva compiuto il “salvataggio”. Avevano sogghignato insieme, consci di usare una volta di più Yabu come burattino per mandare Ishido col sedere per terra.

Tutto si era svolto magnificamente. Fino a oggi.

Oggi il samurai mandato a prendere il frate era tornato a mani vuote. “Il frate è morto,” aveva riferito. “Quando è stato pronunciato il suo nome, Toranaga-sama, lui non si è presentato. Sono entrato a prenderlo, ma era morto. I criminali intorno a lui hanno affermato che, non appena i custodi l’hanno chiamato, ha avuto un collasso. L’ho girato, ma era morto. Perdonatemi, mi avete mandato a prenderlo e io non ho potuto obbedire agli ordini. Non sapevo se volevate la sua testa, o se gliela volevate lasciare sul corpo, perché è un barbaro, così l’ho portato con la testa attaccata. Alcuni criminali che gli stavano vicini, hanno detto di essere stati convertiti da lui. Volevano tenere il corpo per seppellirlo, perciò ne ho ammazzato qualcuno e ho portato via il cadavere. Puzza ed è in putrefazione, ma si trova nel cortile, mio signore.”

Perché il frate è morto? si chiese Toranaga un’altra volta. Poi si accorse che Hiro-matsu lo guardava con espressione interrogativa. “Sì?”

“Vi ho domandato chi può volere il pilota morto?”

“I cristiani.”

Kasigi Yabu seguì Hiro-matsu lungo il corridoio, sentendosi benissimo nella luce dell’alba. La brezza aveva un piacevole odore di salsedine, che gli ricordava Mishima, la sua città. Era contento di poter finalmente incontrare Toranaga e non dover aspettare oltre. Dopo il bagno, si era vestito con cura. Aveva scritto le ultime lettere alla moglie e alla madre e il testamento era già sigillato, nel caso il colloquio finisse male per lui. Portava la lama di Murasama, nel suo fodero consunto dalle battaglie.

Voltarono un altro angolo, poi all’improvviso Hiro-matsu aprì una porta foderata di ferro e lo guidò per una scala di pietra nella parte più interna di quella fortificazione. C’erano numerose guardie in servizio e Yabu avvertì un senso di pericolo.

La scala in alto girava e terminava con un ridotto facile da difendere. Altre guardie aprirono la porta di ferro, ed egli uscì sul bastione. Hiro-matsu deve gettarmi giù o mi ordinerà di saltare? si chiese senza paura.

Con sua sorpresa vide invece Toranaga e, incredibile, questi si alzò per salutarlo con una cordialità e deferenza che Yabu non aveva nessun diritto di aspettarsi. Dopo tutto, Toranaga era il signore delle Otto Province, e lui soltanto il signore di Izu. C’erano dei cuscini già accuratamente sistemati, e una teiera aspettava, sotto un copriteiera di seta. Una ragazza riccamente vestita, con la faccia quadrata e poca avvenenza, si stava inchinando profondamente. Si chiamava Sazuko ed era la settima concubina ufficiale di Toranaga, la più giovane, in stato di gravidanza avanzata.

“Che piacere vedervi, Kasigi Yabu-san! Mi spiace di avervi fatto aspettare.”

Adesso Yabu era sicuro che Toranaga aveva deciso di ucciderlo, in un modo o nell’altro, perché il tuo nemico, secondo l’uso universale, non è mai tanto gentile come quando ha preparato la tua fine. Si sfilò entrambe le spade e le depose con cura sul pavimento di pietra, poi si lasciò condurre lontano da loro e si sedette al posto d’onore.

“Ho pensato che sarebbe stato interessante contemplare il sorgere dell’alba, Yabu-san. La vista da qui mi sembra meravigliosa… meglio ancora che dal torrione dell’erede, ne?

“Sì, è splendida,” ammise senza riserve Yabu, che non era mai salito così in alto nel castello, e sicuro che l’osservazione di Toranaga su “l’erede” sottintendesse che le sue trattative segrete con Ishido gli erano note. “Sono onorato che mi sia consentito di dividerne la vista con voi.”

Sotto di loro si stendevano la città addormentata, il porto e le isole, a ovest Awaji, a est la linea della costa che si perdeva lontano, mentre la prima luce nel cielo a oriente accendeva le nubi di fulgori cremisi.

“Questa è la Nobile Sazuko. Sazuko, questo è il mio alleato, il famoso Signore Kasigi Yabu di Izu, il daimyo che ci ha portato il barbaro e la nave del tesoro!”

La dama si inchinò e si complimentò con lui, Yabu si inchinò a sua volta e lei di nuovo rispose con un inchino. Sazuko gli offrì la prima tazza di tè, ma egli educatamente rifiutò quell’onore, secondo il cerimoniale e la pregò di darla a Toranaga, che rifiutò, insistendo perché lui invece l’accettasse. E alla fine, sempre secondo il cerimoniale, Yabu, da ospite d’onore, si lasciò convincere. La seconda tazza fu accettata da Hiro-matsu, che la teneva a fatica fra le dita nodose, con l’altra mano aggrappata all’elsa della spada, che gli giaceva in grembo. Toranaga accettò la terza tazza e sorseggiò il cha, poi tutti si dedicarono alla contemplazione della natura e del levare del sole. Al silenzio del cielo.

I gabbiani stridevano. I rumori della città cominciarono a diffondersi. Il giorno era spuntato.

Sazuko-sama sospirò con gli occhi pieni di lacrime. “Trovarmi quassù, a contemplare tanta bellezza, mi fa sentire come una dea. È così triste che sia già finito, mio signore, così triste, ne?

“Infatti,” rispose Toranaga.

Quando il sole fu a metà sopra l’orizzonte, Sazuko si levò, si inchinò e andò via. Con meraviglia di Yabu, anche le guardie si ritirarono. Adesso erano soli. Loro tre.

“Sono stato molto compiaciuto di ricevere il vostro dono, Yabu-san. È stato generosissimo dare la nave e tutto il suo contenuto,” cominciò Toranaga.

“Tutto ciò che possiedo è vostro,” disse Yabu, ancora profondamente commosso dall’alba. Vorrei avere più tempo, pensava. Com’è elegante da parte di Toranaga comportarsi così! Darmi una fine di tale immensità. “Grazie per quest’alba.”

“Sì,” rispose Toranaga. “Era mia possibilità darvela. Sono lieto che abbiate apprezzato il mio dono, quanto io il vostro.”

Seguì un silenzio.

“Yabu-san, che cosa sapete del Tong Amida?”

“Soltanto quello che sanno tutti: che è una setta segreta di gruppi di dieci… un capo e mai più di nove accoliti, uomini e donne, in qualunque zona. Sono legati dai più sacri e più segreti giuramenti del Budda Amida, il Dispensatore dell’Amore Eterno, all’obbedienza, la castità e la morte; a dedicare la vita a prepararsi per diventare lo strumento perfetto di un’unica morte; a uccidere solo su ordine del capo e, se non riescono a uccidere la persona designata, sia essa uomo, donna o bambino, a togliersi la vita all’istante. Sono dei fanatici religiosi convinti di passare immediatamente da questa vita al regno di Budda. Nessuno di loro è mai stato preso vivo.” Yabu sapeva dell’attentato contro Toranaga, come, a quell’ora, lo sapeva tutta Osaka, e sapeva anche che il signore del Kwanto, delle Otto Province, si era rinchiuso al sicuro in una torre d’acciaio. “Uccidono raramente, e la loro segretezza è assoluta. Non c’è modo di vendicarsi, perché nessuno li conosce, né sa dove vivano o dove si addestrino.”

“Volendo impiegarli, come procedereste?”

“Passerei parola in tre luoghi: nel monastero Heinan, alle porte del tempio di Amida e nel tempio Johji. Se siete considerato un ‘cliente’ accettabile, nel giro di dieci giorni, vi si avvicinerà tramite intermediari. Tutto è così segreto e tortuoso che, anche se voleste tradirli o prenderli, non vi sarebbe mai possibile. Non si può contrattare, si paga in anticipo quello che chiedono. Loro garantiscono solamente che entro dieci giorni uno dei loro membri tenterà di compiere l’impresa. Si dice che, se l’impresa riesce, l’assassino torna al loro tempio e poi, con una cerimonia grandiosa, si uccide, secondo il rito.”

“Allora voi ritenete che non scopriremo mai chi ha pagato per l’attentato di stanotte?”

‘‘No.”

“Pensate che ve ne sarà un altro?”

“Forse, e forse no. Il contratto è per un attentato per volta. Ma sarà saggio che rinforziate la sorveglianza… tra i vostri samurai e anche fra le vostre donne. Le seguaci di Amida sono abili col veleno quanto col coltello e la garrotta, si dice.”

“Voi ne avete mai fatto uso?”

“No.”

“Ma vostro padre sì?”

“Non lo so, almeno non con certezza. Mi si è raccontato che una volta il Taikō gli chiese di prendere contatto con loro.”

“L’attentato ebbe successo?”

“Tutto quanto faceva il Taikō aveva successo. In un modo o nell’altro.” Yabu avvertì una presenza alle spalle e immaginò che le guardie fossero tornate senza farsi sentire. Misurò con gli occhi la distanza che lo separava dalle sue spade. Devo cercare di uccidere Toranaga? si chiese di nuovo. Avevo deciso di sì, ma adesso non so. Ho cambiato idea. Perché?

“Quanto dovreste pagare per la mia testa?” gli domandò Toranaga.

“In tutta l’Asia non c’è denaro sufficiente a indurmi a usarli per tale scopo.”

“Quanto dovrebbe pagare un altro?”

“Ventimila koku, cinquantamila, centomila… forse più, non so.”

“Voi paghereste centomila koku per divenire Shōgun? La vostra ascendenza risale ai Takashima, ne?

Yabu rispose con orgoglio: “Non pagherei nulla. Il denaro è sudiciume… un gioco per le donne o per i mercanti pieni di sterco. Ma se fosse una meta possibile, e non lo è, darei la vita mia e di mia moglie e di mia madre e di tutta la mia famiglia, tranne il mio unico figlio, e tutti i miei samurai nell’Izu e le loro mogli e figli, per essere un giorno lo Shōgun.”

“E che cosa dareste per le Otto Province?”

“Tutto, come nel caso precedente, salvo la vita di mia moglie, mia madre e mio figlio.”

“E per la provincia di Suruga?”

“Niente.” Yabu mostrò il massimo disprezzo. “Ikawa Jikkyu non vale niente. Se non riuscirò ad avere la testa sua e di tutta la sua schiatta in questa vita, la otterrò in un’altra. Piscio su di lui e il suo seme per diecimila vite.”

“E se io ve lo consegnassi? Insieme a tutta la provincia… e forse anche a quella vicina, di Totomi?”

Yabu si sentì a un tratto stanco di quel gioco e del discorso sugli Amida. “Avete deciso che volete la mia testa, Nobile Toranaga… sta bene. Sono pronto. Vi ringrazio dell’alba, ma non intendo sciupare tanta eleganza con altri discorsi. Perciò sia ciò che deve essere.”

“Ma io non ho deciso di volere la vostra testa, Yabu-san,” rispose Toranaga. “Come vi è venuta questa idea? Forse un nemico vi ha avvelenato l’animo? Forse Ishido? Non siete il mio alleato preferito? Credete che vi intratterrei qui, senza guardie, se vi giudicassi a me ostile?”

Yabu si voltò lentamente. Si era aspettato di scorgere i samurai con la spada levata, invece non c’era nessuno. Tornò a fissare Toranaga. “Non capisco.”

“Vi ho condotto qui per parlare in privato, e per contemplare l’alba. Vi piacerebbe governare le province di Izu, Suruga e Totomi… se io non perderò questa guerra?”

“Sì, molto,” rispose Yabu, sentendo le sue speranze salire in alto. “Diventereste mio vassallo? Mi accettereste come vostro feudatario?” Yabu non esitò. “Mai,” affermò. “Come alleato, sì. Come mio capo, sì. Sempre inferiore a voi, sì. Mettendovi a disposizione la mia vita e tutto ciò che possiedo, sì. Ma l’Izu è mio. Io sono daimyo dell’Izu e non darò mai a nessuno potere sull’Izu. Lo giurai a mio padre e al Taikō, che riconfermò il feudo ereditario prima a mio padre e poi a me e ai miei successori per sempre. Lui era il nostro feudatario e io ho giurato che non ne avrei mai avuto un altro fino a quando il suo erede non fosse stato maggiorenne.”

Hiro-matsu curvò leggermente la spada fra le mani. Perché Toranaga non mi lascia concludere la faccenda una volta per tutte? È già stabilito. Perché questo noioso discorso? Sento dolore e voglio orinare e ho bisogno di sdraiarmi.

Toranaga si grattò l’inguine. “Che cosa vi ha offerto Ishido?”

“La testa di Jikkyu… nel momento in cui fosse caduta la vostra. E la sua provincia.”

“In cambio di cosa?”

“Aiuto allo scoppio della guerra, per attaccare il vostro schieramento a sud.”

“Avete accettato?”

“Mi conoscete troppo per pensarlo.”

Le spie di Toranaga presso Ishido avevano sussurrato che l’affare era stato concluso e che vi era compreso anche l’obbligo di assassinare i tre figli di Toranaga: Noboru, Sudara e Naga. “Nient’altro? Solo aiuto?”

“Usando ogni mezzo a mia disposizione,” rispose Yabu, con una certa delicatezza.

“Compreso l’assassinio?”

“Io intendo fare la guerra, quando comincerà, con tutte le mie forze. A fianco del mio alleato. In qualunque modo possa favorirne il successo. Abbiamo bisogno di un reggente unico fino alla maggiore età di Yaemon. La guerra tra voi e Ishido è inevitabile. È l’unica soluzione.”

Yabu cercava di leggere il pensiero del suo interlocutore. Disprezzava l’indecisione di Toranaga, conscio di essere il migliore alleato, e del fatto che Toranaga aveva bisogno del suo aiuto e che alla fine lui lo avrebbe sconfitto. Ma nel frattempo come regolarsi? si chiedeva, rimpiangendo di non avere il consiglio della moglie Yuriko. Lei avrebbe capito qual era la strada migliore. “Posso essere di grande utilità per voi, posso aiutarvi, a diventare reggente unico,” affermò, decidendosi a rischiare.

“Perché dovrei aspirare a essere reggente unico?”

“Quando Ishido attaccherà, potrei aiutarvi a batterlo. Quando romperà gli accordi di pace,” continuò Yabu.

“Come?”

Egli spiegò i suoi piani fondati sull’impiego dei cannoni.

“Un reggimento di cinquecento samurai addetti ai cannoni?” esplose Hiro-matsu.

“Sì. Pensate quale potenza di fuoco! Tutti uomini scelti, addestrati come fossero un uomo solo. E i venti cannoni tutti insieme.”

“È un pessimo piano. Disgustoso!” commentò Hiro-matsu. “Non potreste mai tenerlo segreto. Quando cominciassimo noi anche il nemico farebbe altrettanto. E non ci sarebbe fine a un simile orrore. Non vi è onore né avvenire.”

“Non dobbiamo forse preoccuparci soltanto della prossima guerra, Nobile Hiro-matsu?” replicò Yabu. “Non dobbiamo pensare soltanto alla sicurezza del Nobile Toranaga? Non è questo il dovere dei suoi alleati e vassalli?”

“Certo.”

“Toranaga-sama deve vincere un’unica grande battaglia. Questo gli darà la testa di tutti i suoi nemici… e il potere. Io affermo che questa strategia gli darebbe la vittoria.”

“Io affermo di no. È un piano repellente, privo di ogni senso dell’onore.”

Yabu si rivolse a Toranaga. “Un’era nuova esige idee chiare sul significato della parola ‘onore’.”

Un gabbiano sfrecciò nel cielo, con uno strido.

“Che cosa ha detto Ishido del vostro piano?” chiese Toranaga.

“Non gliel’ho illustrato.”

“Perché? Se lo ritenete valido per me, lo sarebbe anche per lui. Forse anche di più.”

“Voi mi avete donato un’alba. Non siete un contadino come Ishido. Siete il capo più saggio e più esperto dell’impero.”

Quale sarà la ragione vera? si domandò Toranaga. O invece lo hai spiegato anche a Ishido? “Se adottassimo questo piano, gli uomini dovrebbero essere metà miei e metà vostri?”

“D’accordo. Li comanderei io.”

“Il vicecomandante sarebbe uno dei miei?”

“D’accordo. Avrei bisogno dell’Anjin-san per addestrare gli uomini con i cannoni.”

“Ma resterebbe per sempre mia proprietà? E voi ne avreste cura come dell’erede? Sareste completamente responsabile di lui e lo trattereste esattamente come io dico?”

“D’accordo.”

Toranaga per un momento osservò le nubi color cremisi. Tutto questo progetto è una follia, pensò. Dovrò dichiarare il Cielo rosso e dirigermi su Kyoto alla testa dei miei eserciti. Centomila uomini contro dieci volte tanti. “Chi sarà l’interprete? Non posso trattenere Toda Mariko-san per sempre.” “Per poche settimane, signore. Provvederò a che il barbaro impari la nostra lingua.”

“Ci vorrebbero anni. Gli unici barbari che se ne siano impadroniti davvero sono i preti cristiani. E ci mettono molto tempo. Tsukku-san si trova qui da quasi trent'anni, ne? Non imparerebbe abbastanza in fretta, il barbaro, così come noi non riusciamo a imparare le loro brutte lingue.”

“È vero, ma vi assicuro che questo Anjin-san imparerà molto in fretta.” Yabu spiegò il progetto suggerito da Omi come se fosse suo.

“Potrebbe essere troppo pericoloso.”

“Gli farebbe imparare alla svelta, ne? E poi sarà domato.”

Dopo una pausa, Toranaga riprese: “Come manterreste il segreto durante l’addestramento?”

“L’Izu è una penisola, perfettamente sicura. Metterò la base vicino ad Anjiro, molto a sud e lontano da Mishima e dal confine, per maggiore tranquillità.”

“Bene. Istituiremo un servizio di piccioni viaggiatori fra Anjiro e Osaka e Yedo, al più presto.”

“Ottimo. Mi basteranno cinque o sei mesi…”

“Ci andrà bene se avremo sei giorni!” ringhiò Hiro-matsu. “Volete dire che la vostra celebre rete di spionaggio è stata spazzata via, Yabu-san? Avrete pur ricevuto rapporti, no? Forse che Ishido non sta mobilitando? E altrettanto Onoshi? Non siamo forse rinchiusi qui dentro?”

Yabu non rispose.

“Ebbene?” chiese Toranaga.

“I rapporti rivelano tutto questo e anche di più,” rispose Yabu. “Se si tratterà dì sei giorni, saranno sei giorni e dipende dal karma. Ma io vi ritengo troppo abile per lasciarvi intrappolare qui, o per lasciarvi provocare a combattere troppo presto.”

“Se io accettassi il vostro piano, mi accettereste come vostro capo?”

“Sì. E quando avrete vinto, sarò onorato di ricevere Suruga e Totomi come parte del mio feudo per sempre.”

“Il Totomi dipende dal successo del vostro piano.”

“D’accordo.”

“Mi obbedirete? Sul vostro onore?”

“Sì, sul bushido, su Budda, sulla vita di mia madre, di mia moglie e la mia futura discendenza.”

“Bene,” concluse Toranaga. “Oriniamo sull’accordo.”

Si recò sull’orlo del bastione, avanzò sulla sporgenza della strombatura e poi sul parapetto stesso. Il giardino si stendeva sotto di lui a più di venti metri. Hiro-matsu trattenne il fiato, sconvolto dalla bravata del suo signore. Lo vide voltarsi e accennare a Yabu di raggiungerlo. Yabu obbedì. Il più lieve tocco lo avrebbe mandato a sfracellarsi.

Toranaga scostò il chimono e il perizoma, e altrettanto fece Yabu. Insieme orinarono e guardarono le loro orine mescolarsi e finire sul giardino sottostante.

“L’ultimo accordo che conclusi in questo modo fu col Taikō in persona,” osservò Toranaga, molto sollevato per essersi svuotato la vescica. “Accadde quando egli decise di darmi le Otto Province, il mio feudo. A quel tempo ne era possessore ancora Hojo, il nemico, perciò ho dovuto prima conquistarle. Erano l’ultimo nucleo di opposizione contro di noi. E naturalmente dovetti rinunciare ai miei feudi ereditari di Imagawa, Owari e Ise, per avere quell’onore. Ma io accettai e orinammo sull’accordo.” Si mise agilmente a cavalcioni del parapetto, sistemandosi il perizoma come se si fosse trovato in mezzo al giardino e non appollaiato a quell’altezza, come un’aquila. “L’affare fu buono per tutti e due. Abbattemmo Hojo ed eliminammo in un anno cinquemila uomini. Cancellammo lui e la sua intera tribù. Forse avete ragione, Kasigi Yabu-san. Forse potete aiutarmi come io ho aiutato il Taikō. Senza di me, non sarebbe mai diventato il Taikō.”

“Posso contribuire a farvi unico reggente, Toranaga-sama. Ma non Shōgun.

“Naturale. Ma è un onore che io non cerco, qualunque cosa vadano dicendo i miei nemici.” Toranaga saltò di nuovo sul pavimento di pietra, al sicuro. Guardò Yabu che ancora stava sul parapetto stretto, aggiustandosi la cintura. Provò la forte tentazione di dargli una spinta, per punirlo della sua insolenza, invece si mise a sedere e ruttò rumorosamente. “Così va meglio. Come sta la tua vescica, Pugno di ferro?”

“È stanca, mio signore, molto stanca.” Il vecchio se ne andò in disparte e si liberò anch’egli con grande soddisfazione sopra al parapetto, ma senza mettersi nella posizione in cui si erano messi Toranaga e Yabu. Era molto lieto di non dover suggellare l’accordo con Yabu. È un accordo che io non rispetterò mai. Mai.

“Yabu-san, tutto questo deve restare segreto. Credo che dovresti partire entro i prossimi due o tre giorni,” disse Toranaga.

“Certo. Con i cannoni e il barbaro, Toranaga-sama?”

“Sì. Viaggerete per mare.” Toranaga si rivolse a Hiro-matsu. “Prepara la galea.”

“La nave è già pronta. I cannoni e la polvere sono ancora nelle stive,” rispose Hiro-matsu, con un’espressione che rivelava tutta la sua disapprovazione.

“Bene.”

Ce l’hai fatta! avrebbe voluto gridare Yabu. Hai i cannoni, l’Anjin-san, tutto. Hai avuto i tuoi sei mesi. Toranaga non entrò in guerra immediatamente. Anche se Ishido lo facesse uccidere nei prossimi giorni, tu hai ottenuto tutto. Oh, Budda, proteggi Toranaga fino a quando sarò in mare! “Grazie!” esclamò, con assoluta sincerità. “Non avrete mai alleato più fedele.”

Dopo che Yabu se ne fu andato, Hiro-matsu si girò a fronteggiare Toranaga. “È stata una pessima azione. Mi vergogno di questo accordo e mi vergogno che il mio consiglio abbia così poco valore. Evidentemente sono troppo vecchio per esservi ancora utile e sono molto stanco. Quel piccolo daimyo moccioso capisce di avervi manovrato come un burattino. Ha avuto perfino la sfacciataggine di portare in vostra presenza la spada di Murasama!”

“L’ho notato,” rispose Toranaga.

“Io temo che gli dei vi abbiano stregato, mio signore. Voi sopportate palesemente un simile insulto e gli permettete di vantarsi in vostra presenza. Permettete apertamente a Ishido di svergognarvi davanti a noi tutti. Impedite a me e a tutti noi di proteggervi, rifiutate a mia nipote, una samurai, l’onore e la pace della morte. Avete perduto il controllo del Consiglio, il vostro nemico vi mette alle corde e in minoranza, e ora orinate su un patto che è il piano più disgustoso che io abbia mai sentito, e lo fate con un uomo che nuota fra il sudiciume, il veleno e il tradimento come suo padre prima di lui.” Tremava di rabbia. Toranaga non rispose, si limitò a fissarlo come se non avesse parlato. “Per tutti i kami, vivi e morti, siete stregato!” esplose Hiro-matsu. “Io vi faccio delle domande… e grido e vi ingiurio, e voi vi limitate a guardarmi! O siete impazzito voi, o lo sono io. Vi chiedo permesso di fare seppuku oppure, se non mi consentite questa pace, mi raserò il capo e mi farò monaco… qualunque cosa, qualunque, purché mi lasciate andare!”

“Non farai nessuna delle due cose. Invece manderai a chiamare il prete barbaro, Tsukku-san.”

Poi Toranaga rise.