49

“Mi ero dimenticato di te!” esclamò in inglese. “Pensavo fossi morta.” “Dozo goziemashita, Anjin-san, nan desu ka?”

“Nani mo, Fujiko-san,” le rispose, vergognandosi di sé. “Gomen nasai. Hai. Gomen nasai. Ma-suware odoroita honto ni mata aete ureshi.” Scusatemi, prego, ma è stata una vera sorpresa. È un piacere vedervi. Prego, sedete.

“Domo arigato goziemashita,” rispose lei e con la sua voce alta e sottile gli disse quanto fosse contenta di vederlo e quanto fosse migliorato il suo giapponese, come stesse bene d’aspetto e quanto lei si sentisse felice di trovarsi lì. Blackthorne l’osservò mettersi faticosamente a sedere. “Gambe…” cercò nella mente la parola “ustione”, ma non la ricordò e chiese: “Gambe ferite fuoco. Male?”

“No. Scusate, ma ancora mi fanno un po’ male quando mi siedo,” spiegò Fujiko.

“Mostratemele, prego.”

“Scusate, prego, Anjin-san, non voglio disturbarvi. Avete altri problemi. Io…”

“Non capisco. Troppo svelto, scusate.”

“Oh, sì, spiacente. Le gambe vanno bene. Non disturbatevi,” protestò lei.

“Niente disturbo. Voi concubina, ne? Niente vergogna. Mostrate ora!” Fujiko si alzò, obbediente, chiaramente a disagio, e cominciò a sciogliere l’obi.

“Prego, chiamare cameriera,” ordinò Blackthorne. La ragazza obbedì e subito corse ad aiutarla una donna che lui non riconobbe.

Prima fu sciolto il rigido obi e la cameriera lo mise da parte insieme al pugnale inguainato.

“Come vi chiamate?” chiese lui, bruscamente come un samurai.

“Oh, scusatemi, signore. Mi chiamo Hana-ichi.”

Egli borbottò una parola di assenso. Primo Fiore, bel nome! Le cameriere, di solito, si chiamavano Spazzola o Gru o Pesce o Seconda Granata o Quarta Luna, Stella, Albero, Ramo e così via. Hana-ichi era di mezza età e molto scrupolosa. Scommetto che appartiene alla casata, pensò. Forse del marito defunto di Fujiko. Marito! Mi ero dimenticato anche di lui e del bambino assassinato… assassinati dal nemico Toranaga, che non è un nemico, ma un daimyo, e anche un capo buono e grande. Probabilmente il marito ha meritato il suo destino. Bisognerebbe conoscere la verità. Ma il bambino no. Per quello non ci sono scuse.

Fujiko scostò il chimono esterno, a disegni verdi. Le tremavano le dita nello sciogliere la cintura di seta dell’altro chimono, giallo, ma scostò anche quello. Aveva la pelle chiara e il poco seno che egli intravide fra le pieghe era piccolo e magro. Hana-ichi si inginocchiò e sciolse i nastri della sottogonna, che andava dalla vita a terra, in modo che la padrona potesse uscirne.

“Iyé,” ordinò lui e avvicinandosi la sollevò. Le bruciature cominciavano dalle caviglie. “Gomen nasai.” disse.

Fujiko era immobile. Una stilla di sudore le scese lungo la guancia, sciupando il trucco. Blackthorne sollevò maggiormente la sottana: sulla parte posteriore delle gambe la pelle era tutta ustionata, ma andava guarendo bene. Si erano già formate delle cicatrici e non c’era segno di infezione o di suppurazione, solo qualche goccia di sangue dove la pelle, appena formata, si era rotta quando lei si era inginocchiata.

Blackthorne scostò i chimoni e fece cadere la sottana. In cima alle gambe le bruciature finivano; giravano intorno alle natiche, dove la trave cadendo l’aveva protetta, e riprendevano nell’incavo della schiena. Una striscia bruciata di una decina di centimetri le cingeva la vita. La cicatrice andava assestandosi. Non bella, ma in via di perfetta guarigione.

“Dottore molto bravo! Meglio mai visto. Cicatrici, cosa importano? Niente, ne? Visto molte ferite da fuoco, capito? Volere vedere e essere sicuro tutto bene. Dottore molto bravo, Budda guarda Fujiko-san.” Le mise le mani sulle spalle e la fissò negli occhi. “Non preoccupare adesso. Shigata ganai, ne? Capito?”

Le lacrime presero a scorrerle dagli occhi. “Scusatemi, Anjin-san, ma sono molto imbarazzata. Scusate la mia stupidità per essere stata là a lasciarmi prendere come una stupida eta. Avrei dovuto essere con voi, a vegliare su di voi… non rinchiusa in casa con i servi. Non c’è niente per me in casa, niente, nessuna ragione di essere in casa…”

Per quanto non comprendesse quasi niente di quanto gli diceva, la lasciò parlare, abbracciandola con pena affettuosa. Devo scoprire che cosa ha usato il medico, pensava eccitato. Sono le cicatrici migliori e più rapide che abbia mai visto! I capitani di tutte le navi di sua maestà dovrebbero conoscere questo segreto… e anche quelli di tutte le navi d’Europa. Ma un momento: non sarebbero pronti a pagare oro per un tale segreto? Ci faresti una fortuna! No, non così, si disse, mai in questo modo, mai sulla pelle di un marinaio.

È stata fortunata che si sia trattato solo delle gambe e della schiena, sul dietro, e non della faccia. La guardò quella faccia: era piatta e quadrata come sempre, con i denti sempre da coniglio, ma il calore dello sguardo compensava ogni bruttezza. La strinse di nuovo. “Ora non piangere. Ordino!”

Mandò la cameriera a prendere del cha e del sakè e molti cuscini e aiutò Fujiko a sdraiarcisi sopra, sebbene lei sembrasse imbarazzata. “Come potrò mai ringraziarvi?” mormorò la ragazza.

“Niente grazie. Rendere…” Blackthorne non riuscì a ricordare le parole, allora tirò fuori il dizionario e le cercò. Favore: o-negai… ricordare: omoi dasu.Hai. mondoso o-negai! Omi desu ka?” Rendere favore. Ricordare? Intimò con le mani una scena di pistole impugnate. “Omi-san, ricordare?”

“Oh, certo!” esclamò lei. Poi, sbalordita, volle guardare il libro. Non aveva mai visto degli scritti nell’alfabeto latino e le colonne di parole giapponesi in portoghese e in latino non le dicevano niente, ma ne afferrò lo scopo. “È un libro di tutte le nostre… Scusate, un libro di parole, ne?”

Hai.”

Hombun?” domandò.

Lui le insegnò a cercare la parola in latino e in portoghese. “Hombun: dovere.” Poi aggiunse in giapponese: “Io capire dovere. Dovere di samurai, ne?”

Hai.” Fujiko batté le mani come davanti a giocattolo magico… Ed è proprio una magia, si disse lui, un dono di Dio. Così si aprirà il suo animo e quello di Toranaga, e presto io parlerò perfettamente. Fujiko gli chiese altre parole e lui gliele disse in inglese o in latino o in portoghese, sempre in grado di capire e di trovare le parole scelte. Il dizionario non falliva mai.

Cercò un termine. “Majutsu desu. ne?” È una magia, non è vero?

“Sì, Anjin-san, il libro è magico.” Fujiko bevve un sorso di cha. “Adesso posso parlare con voi, parlare davvero.”

“Poco. Solo piano, capito?”

“Sì. Vi prego, abbiate pazienza con me, scusatemi.” La grande campana del torrione suonò l’ora della Capra e tutti i templi di Yedo le risposero.

“Andare adesso. Andare Nobile Toranaga.” Infilò il libro dentro la manica.

“Aspetterò qui. se è possibile.” “Dove abitare?”

Fujiko alzò la mano per indicare, “Là, la mia stanza è quella vicina. Prego, scusate la mia improvvisa intrusione…”

“Piano, ripetete piano, con parole semplici.” Lei ripetè e Blackthorne la salutò. “Bene. Vi rivedrò più tardi.”

Fujiko accennò ad alzarsi, ma lui le disse di no e uscì in cortile. La giornata era soffocante. Le guardie lo aspettavano e rapidamente raggiunsero tutti il cortile del torrione. Mariko si trovava già lì, più sottile ed eterea che mai, con il viso di alabastro sotto l’ombrellino color oro. Indossava un chimono scuro, marrone, con il bordo verde.

Ohayo, Anjin-san. Ikaga desu ka?” chiese, inchinandosi.

Le rispose che stava bene, rispettando la consuetudine che avevano stabilito di parlare il più possibile in giapponese, passando al portoghese solo quando lui era stanco o aveva bisogno di riservatezza.

“Tu…” mormorò con prudenza, in latino, mentre salivano le scale.

Ma Mariko gli disse in portoghese, con la stessa aria solenne della sera prima: “Spiacente, Anjin-san, niente latino oggi, prego, oggi il latino… non può servire allo scopo, ne?”

“Quando potrò parlarvi?”

“È molto difficile, mi spiace. Ho dei doveri…”

“Qualcosa che non va?”

“Oh, no!” replicò lei. “Che cosa potrebbe non andare, scusate? Niente.”

Salirono in silenzio un’altra rampa. Poi i lasciapassare vennero ricontrollati e ripresero a camminare, preceduti e seguiti dalle guardie. Cominciò a piovere e l’umidità dell’aria diminuì.

“Pioverà per ore,” osservò lui.

“Sì. Ma senza pioggia non c’è riso. Presto, in due o tre settimane, le piogge finiranno del tutto, e ci sarà caldo e umido fino all’autunno. Vi piacerà l’autunno, Anjin-san.”

“Sì.” Lui stava guardando dalla finestra l’Erasmus lontano, presso la banchina. Poi riprese a salire. “Dopo il colloquio con Toranaga-sama dovremo aspettare che finisca la pioggia. Ci sarà un posto in cui possiamo parlare?”

“Sarà difficile.” rispose lei in tono vago e a lui parve strano. In genere Mariko era molto decisa e i suoi “suggerimenti” erano degli ordini a cui gli altri obbedivano. “Scusatemi, Anjin-san. ma in questo momento le cose per me sono difficili, e ne ho molte da fare.” Si fermò, passando l’ombrellino nell’altra mano, per sollevare l’orlo della gonna. “Com’è stata la vostra serata? Come avete trovato i vostri amici, il vostro equipaggio?”

“Bene. Tutto bene.” rispose lui.

“Non proprio, ne?” insistè Mariko.

“Era tutto… molto strano.” La fissò in volto. “Non vi sfugge niente, vero?”

“No, Anjin-san, ma voi non ne avete fatto cenno, mentre da una settimana continuavate a pensarci. Io non sono uno stregone, purtroppo.”

“Siete sicura di stare bene? Non ci sono problemi con Buntaro-san?”

Da Yokosé in poi non avevano mai parlato di Buntaro, neppure per nominarlo. Il suo spettro non veniva mai evocato, di comune accordo. “Questa è la sola richiesta che ti rivolgo, Anjin-san,” aveva mormorato lei la prima volta. “Qualunque cosa avvenga durante il nostro viaggio a Mishima e poi, piacendo alla Madonna, a Yedo, non ha niente a che fare con nessuno se non noi, ne? Non parleremo mai di quello che è in realtà. Niente, ti prego.”

“Va bene. Lo giuro.”

“E io anche. Il nostro viaggio finirà, definitivamente, al Primo Ponte di Yedo.”

“No.”

“Deve esserci una fine, amore mio. Al Primo Ponte il nostro viaggio finirà. Ti prego, o morirò di terrore per te e per il pericolo in cui ti metto…”

La mattina precedente egli si era fermato all’inizio del Primo Ponte, col cuore pesante, nonostante la gioia per l’Erasmus.

“Dobbiamo attraversare il ponte, Anjin-san,” aveva detto Mariko.

“Sì. Ma è solo un ponte. Uno dei tanti. Suvvia, Mariko-san, camminate accanto a me su questo ponte. Accanto a me, vi prego. Camminiamo insieme.” E in latino aveva aggiunto: “E pensa di essere trasportata e di entrare con me, mano nella mano, in un nuovo principio.”

Lei era scesa dal palanchino e gli aveva camminato al fianco sino all’altra estremità, dove era risalita nel palanchino. Alla porta del castello avevano trovato Buntaro.

Adesso Blackthorne ricordava come avesse implorato che dal cielo piombasse un fulmine. “Non ci sono problemi con lui, vero?” le chiese di nuovo, mentre raggiungevano l’ultimo piano. E lei scosse la testa.

 

“La nave è a posto, Anjin-san? Niente errori?” s’informò Toranaga. “Nessun errore, signore. Nave perfetta.”

“Quanti uomini extra… quanti in più…” Toranaga gettò un’occhiata a Mariko. “Chiedetegli, per favore, quanti uomini gli occorrono per manovrare la nave. Voglio essere sicuro che capisca bene la domanda.”

“Dice l’Anjin-san: ‘Minimo trenta marinai e venti cannonieri. L’equipaggio originale era di centosette uomini, compresi i cuochi e i mercanti. Per navigare e insieme combattere in queste acque, basterebbero i duecento samurai in più.’ ”

“E secondo lui gli altri uomini può assoldarli a Nagasaki?”

“Sì, signore.”

“Io non mi fiderei certo di mercenari,” osservò Toranaga con disgusto. “Scusate, signore, volete che traduca questa frase?”

“Come? Oh, no, non importa.” Toranaga si alzò, sempre fingendo la stessa aria scorata, e contemplò la pioggia, fuori dalla finestra. Che piova per mesi, pensò, che piova, o dei, fino all’anno nuovo! Quando arriverà Buntaro da mio fratello? “Dite all’Anjin-san che gli darò domani i suoi vassalli: oggi pioverà tutto il giorno e non c’è senso a inzupparsi fino all’osso.”

“Sì, Toranaga-sama,” la sentì rispondere e sorrise, ironico, fra sé. Mai in vita sua il cattivo tempo gli aveva impedito la minima cosa. Questo dovrebbe convincere lei e chiunque altro fosse in dubbio che sono cambiato definitivamente in peggio. Sapeva di non poter ancora abbandonare la strada che aveva scelto. “Domani o dopo, che importa? Riferitegli che quando sarò pronto lo manderò a chiamare. Fino a quel momento, deve aspettare al castello.”

La udì riferire gli ordini all’Anjin-san.

“Sì, signore, capisco,” rispose Blackthorne. “Ma potete rispettosamente chiedere: possibile andare Nagasaki presto? Credo importante, scusate.”

“Lo deciderò in seguito,” ribatté Toranaga, senza facilitargli le cose. Gli fece cenno di andarsene. “Arrivederci, Anjin-san. Deciderò presto sul vostro avvenire.” Vide che l’altro avrebbe voluto insistere, ma per educazione si tratteneva. Bene, pensò, se non altro sta imparando le buone maniere! “Mariko-san, ditegli che non è necessario che vi aspetti. Arrivederci, Anjin-san.”

Mariko obbedì e Toranaga tornò a contemplare la città e il temporale, ascoltando il suono della pioggia. La porta si chiuse dietro all’Anjin-san. “Perché è scoppiata la lite?” chiese, senza guardarla.

“Signore?”

L’orecchio di lui, molto affinato, avvertì un tremito nella voce. “Quella fra voi e Buntaro. O avete partecipato ad altre liti che mi riguardino?” domandò in tono sarcastico, perché voleva che le cose precipitassero in fretta. “Con l’Anjin-san o con i cristiani miei nemici o con Tsukku-san?”

“No, signore. Scusatemi. È cominciata come sempre, come quasi tutte le liti fra marito e moglie. In realtà per un niente. Poi, a un tratto, come sempre, il passato è risorto e quando capita in un momento cattivo ne restano coinvolti sia l’uomo che la donna.”

“E voi eravate in un momento cattivo?”

“Sì. Perdonatemi. Ho provocato io mio marito, senza pietà. È stata tutta colpa mia. Ne provo rimorso, signore. In quei momenti si dicono cose crudeli, dettate dall’ira.”

“Avanti, svelta, quali cose crudeli?” Mariko sembrava una preda ridotta agli estremi, con il viso color gesso. Capiva che già le spie dovevano avergli riferito quanto era stato gridato a gran voce nella quiete della sua casa.

Gli ripeté ogni frase, come meglio la ricordava, quindi aggiunse: “Credo che le parole di mio marito siano state pronunciate per la collera provocata da me. È fedele… io so che è fedele. Se qualcuno deve essere punito, sono io, signore, io che ho causato la sua follia.”

Toranaga tornò a sedersi, con la schiena rigida, la faccia impietrita. “Che cosa ha detto la Nobile Genjiko?”

“Non le ho parlato, signore.”

“Ma intendete, o intendevate, farlo, ne?”

“No, Toranaga-sama. Con il vostro permesso, intendo partire immediatamente per Osaka.”

“Partirete quando lo dirò io e non prima. E il tradimento è una bestia immonda dovunque si annidi!”

Mariko si inginocchiò sotto quella sferzata. “Sì, signore, perdonatemi. La colpa è mia.”

Toranaga suonò un campanellino e subito si presentò Naga. “Padre?”

“Ordinate a Sudara-sama di venire immediatamente qui con sua moglie.”

“Sì, signore.” Naga si voltò per andarsene.

“Aspetta! Poi convoca il mio Consiglio, Yabu e gli altri generali anziani. Devono trovarsi qui a mezzanotte. E via tutti da questo piano, via tutte le guardie! Tu tornerai con Sudara.”

“Sì, signore,” rispose Naga, impallidendo.

Toranaga sentì gli uomini scendere le scale rumorosamente. Andò a guardare: il pianerottolo era vuoto. Sbatté la porta e la chiuse col chiavistello, poi suonò un altro campanello e in fondo alla sala si aprì una porta, così ben nascosta fra i pannelli di legno, da essere quasi invisibile. Comparve una robusta donna di mezza età, vestita da monaca buddista.

“Del cha, per favore, Chano-chan,” ordinò lui. La donna uscì. Lo sguardo di Toranaga tornò a Mariko. “Voi dunque siete convinta che lui sia fedele?”

“Sì, signore. Perdonatemi, vi prego, è stata colpa mia, non sua.” Cercava disperatamente di compiacerlo. “Io l’ho provocato.”

“Questo è vero. Disgustoso. Terribile e imperdonabile!” Toranaga si asciugò il sudore con un fazzoletto. “Ma una fortuna.”

“Signore?”

“Se non lo aveste provocato, forse non avrei mai supposto un tradimento. E se lo avesse detto senza essere provocato non ci sarebbe che una soluzione. Stando così le cose, invece, mi date un’alternativa.”

“Signore?”

Toranaga non rispose. Pensava: vorrei che fosse qui Hiro-matsu, ci sarebbe almeno uno di cui posso fidarmi completamente. “Che mi dite di voi? Della vostra fedeltà e lealtà?”

“Vi prego, Toranaga-sama, dovete sapere che è assoluta.”

Egli tacque, ma il suo sguardo non la lasciò. Rientrò intanto Chano, senza nemmeno bussare, con un vassoio in mano. “Ecco, mio signore, era già pronto per voi.” Si inginocchiò come una contadina e aveva anche le mani da contadina, ma la sua sicurezza era incrollabile e appariva evidente la sua gioia interiore. “Possa Budda benedirvi con la sua pace.” Poi si rivolse a Mariko e, dopo un atiro inchino, si mise a sedere comodamente. “Forse mi fareste l’onore di versare voi, signora. Voi riuscirete a versarlo con eleganza, senza spargerne una goccia, ne?” Le brillarono gli occhi.

“Con piacere, Oku-san,” rispose Mariko, dandole l’appellativo religioso “madre” e nascondendo la sorpresa. Era la prima volta che vedeva la madre di Naga. Conosceva quasi tutte le altre concubine ufficiali di Toranaga, incontrate durante ricevimenti e cerimonie, ma era in amicizia solo con Kiritsubo e Sazuko.

“Chano-chan,” disse Toranaga, “questa è la Nobile Toda Mariko-noh-Buntaro.”

“Ah so desu, credevo che foste una delle onorate concubine del mio padrone. Scusatemi, Mariko-sama, possa Budda benedirvi sempre.”

“Grazie,” rispose Mariko, offrendo la tazza a Toranaga, che l’accettò e cominciò a sorseggiare il cha.

“Versatelo per Chano-chan e per voi,” le ordinò.

“Scusate, ma non per me, signore, con il vostro permesso. I denti mi ballano per il troppo cha e il secchio è troppo lontano per le mie vecchie ossa.”

“Un po’ di movimento ti farebbe bene,” commentò Toranaga, contento di averla chiamata presso di sé, appena tornato a Yedo.

“Sì, signore. Avete ragione, come sempre,” ammise Chano e poi si rivolse con simpatia a Mariko. “Dunque, siete la figlia del Nobile Akechi Jinsai.”

La tazza di Mariko si fermò a mezz’aria. “Sì. Scusate…”

“Oh, non c’è niente da scusarsi, bambina mia.” Chano rise con gentilezza. “Senza quel nome non sapevo bene dove collocarvi. Scusatemi, ma l’ultima volta che vi ho incontrato è stato alle vostre nozze.”

“Davvero?”

“Oh, sì. Ma voi non mi avete visto: vi guardavo da dietro un paravento. Già, voi e tutti i grandi, il dittatore e Nakamura, il futuro Taikō, e tutti i nobili. Ero troppo timida per unirmi a loro, ma erano tempi così felici per me. I migliori della mia vita. Era il secondo anno che godevo i favori del mio signore e aspettavo mio figlio… pur essendo sempre la contadina che ero e sono.” Strizzò gli occhi e aggiunse: “Siete cambiata pochissimo da quel tempo, siete ancora una prescelta di Budda.”

“Come vorrei che fosse vero, Oku-san!”

“È vero. Sapevate di esserlo?”

“Non lo sono, Oku-san, per quanto lo desideri.”

Toranaga intervenne. “È cristiana.”

“Ah, cristiana! Ma che importa la religione a una donna, buddista o cristiana, mio signore? In genere molto poco, anche se un dio le è necessario.” Chano ridacchiò allegra. “Noi donne abbiamo bisogno di un dio, mio signore, per aiutarci con gli uomini, ne?”

“E noi uomini abbiamo bisogno di pazienza, di una pazienza da dei, che ci aiuti con le donne, ne?”

Chano rise e con la sua risata riscaldò tutta la stanza, allentando per un momento la tensione di Mariko. “Sì, mio signore, e tutto per via di un Padiglione Celeste che non ha nessun futuro, ha poco calore e può contenere l’interno.”

Toranaga borbottò. “Voi che ne dite, Mariko-san?”

“La Nobile Chano è saggia oltre misura per la sua gioventù.”

“Ah, signora, dite cose molto gentili a una vecchia sciocca,” le rispose Chano. “Vi ricordo così bene. Avevate un chimono azzurro con il più bel ricamo di gru che mai abbia visto, tutto d’argento.” Si rivolse a Toranaga. “Ebbene, mio signore, volevo solo stare un pochino a sedere. Ora scusatemi, vi prego.”

“C’è ancora tempo. Resta dove sei.”

“Obbedirei, ma la natura comanda,” rispose Chano, alzandosi con movimenti pesanti. “Perciò siate buono con una vecchia contadina. È ora di andarmene. Tutto è già pronto, la cena e il sakè, per quando lo vorrete, mio signore.”

“Grazie.”

La porta si richiuse silenziosa alle sue spalle. Mariko riempì di nuovo la tazza di Toranaga, appena fu vuota. “A cosa pensate?”

“Sto aspettando.”

“Che cosa, Mariko-san?”

“Signore, io sono hatamoto. Non vi ho mai chiesto finora un favore. Vorrei chiedervelo, nella mia qualità di ha…”

“Non voglio che mi chiediate favori come hatamoto,” ribatté Toranaga.

“Allora concedetemi un desiderio da tutta la vita.”

“Non sono un marito per concedervelo. ”

“A volte un vassallo può pregare il feudat…”

“A volte, sì, ma non adesso! Adesso vi terrete per voi ogni richiesta o desiderio o favore o ogni altra cosa.”

Un “desiderio da tutta la vita” era un favore che, per antica tradizione, una moglie poteva chiedere al marito, o un figlio al padre — e raramente un marito alla moglie — senza perdere la faccia, a condizione che, se fosse stato accordato, la persona che lo chiedeva non ne avrebbe mai più domandati per tutta la vita. Per consuetudine non si ponevano domande sul favore né lo si nominava mai più.

Si udì battere delicatamente alla porta.

“Aprite,” le ordinò Toranaga e lei obbedì. Entrarono Sudara, la moglie Genjiko e Naga.

“Naga-san, scendi al piano di sotto e impedisci a chiunque dì salire senza mio ordine.” Naga uscì subito.

“Mariko-san, chiudete la porta e sedetevi qui.” Toranaga indicò un punto in cui lei si sarebbe trovata di fronte agli altri.

“Vi ho chiamato entrambi perché dobbiamo trattare questioni urgenti di famiglia.”

Gli occhi di Sudara involontariamente si rivolse a Mariko, poi di nuovo al padre. La moglie non batté ciglio.

Brusco, Toranaga disse: “Lei è qui, figlio mio, per due ragioni: prima, che io la voglio qui; e seconda,, che io la voglio qui!”

“Sì, signore,” rispose Sudara, vergognandosi della scortesia del padre verso tutti loro. “Posso chiedervi in che cosa vi ho offeso?”

“C’è un motivo per cui dovrei sentirmi offeso?”

“No, padre, a meno che il mio zelo per la vostra sicurezza e la mia riluttanza a permettervi di lasciare questa terra siano motivo di offesa.”

“E il tradimento? Ho saputo che oseresti prendere il mio posto a capo del nostro clan!”

Il viso di Sudara si sbiancò, e così quello della moglie. “Non l’ho mai detto né pensato! Né l’ha osato dire nessun membro della famiglia o nessun altro in mia presenza.”

“Questa è la verità, signore!” ribadì Genjiko, con altrettanta energia.

Sudara era un giovane di ventiquattro anni, snello, orgoglioso, con labbra sottili che non sorridevano mai. Era il secondogenito di Toranaga, e un buon generale. Adorava i suoi figli, non aveva concubine ed era molto devoto alla moglie.

Genjiko era bassa, un poco ingrossata per i quattro figli che già aveva dato al marito. Aveva tre anni più di lui, ma era vigorosa e possedeva tutto il superbo e spietato senso di protezione per i propri figli che distingueva anche Ochiba. E ne possedeva anche la latente ferocia, ereditata dal nonno Goroda.

“Chiunque accusi mio marito è un mentitore,” aggiunse.

“Mariko-san,” disse Toranaga, “chiedete alla Nobile Genjiko quello che vostro marito vi ha ordinato di chiedere.”

“Il mio Signore Buntaro mi ha chiesto, anzi ordinato, di convincervi che è venuto il momento che Sudara-sama prenda il potere, che altri nel Consiglio condividono la sua opinione, che se il nostro signore, Toranaga, non volesse cedere il potere… si dovrebbe strapparglielo con la forza.”

“Nessuno di noi ha mai concepito un simile pensiero, padre!” esclamò Sudara. “Vi siamo fedeli e io non cons…”

“Se ti dessi il potere che cosa faresti?”

Genjiko rispose subito: “Come può saperlo, mio marito, se non ha mai neppure concepito una tale infausta possibilità? Perdonate, signore, ma gli è impossibile rispondere, perché non ci ha mai riflettuto fino a oggi. E come avrebbe potuto? Quanto a Buntaro-san, è evidente che il kami lo ha invaso.”

“Buntaro ha dichiarato che altri la pensano come lui.”

“Chi?” chiese con tono invelenito Sudara. “Ditemelo e moriranno in pochi istanti.”

“Dimmelo tu chi sono!”

“Io non conosco nessuno che lo affermi, o vi avrei fatto rapporto.”

“Non li avresti prima di tutto uccisi?”

“La vostra prima legge è essere pazienti, e la seconda è ancora essere pazienti. Io ho sempre seguito i vostri ordini. Avrei aspettato e avrei riferito a voi. Se vi ho offeso, ordinatemi di fare seppuku. Non merito la vostra collera, padre, non ho commesso nessun tradimento e non sopporto che la vostra ira si riversi su di me. ”

Genjiko ribadì da parte sua: “È vero, signore. Scusatemi, vi prego, ma umilmente concordo con mio marito. È senza macchia e così tutta la nostra gente. Siamo fedeli… tutto quanto abbiamo è vostro, siamo quello che voi avete voluto, e qualunque vostro ordine sarà obbedito.”

“Dunque, siete dei vassalli fedeli, vero? Obbedite sempre agli ordini?”

“Sì, signore.”

“Bene, allora andate e uccidete i vostri figli. Subito.”

Sudara distolse lo sguardo dal padre e fissò la moglie. Lei abbassò lievemente il capo in segno di assenso. Sudara si inchinò al padre, strinse l’impugnatura della spada e si alzò. Senza rumore si chiuse la porta alle spalle, lasciando la sala immersa in un silenzio assoluto. Genjiko guardò un attimo Mariko, poi fissò lo sguardo al suolo.

Le campane suonarono l’ora. L’aria sembrava essersi fatta più densa, mentre la pioggia riprendeva più forte, dopo una breve interruzione. Passò mezz’ora, poi si udì un lieve bussare.

Si affacciò Naga: “Scusatemi, padre. Mio fratello… il Nobile Sudara vorrebbe risalire.”

“Lascialo venire, e torna al tuo posto.”

Sudara entrò, s’inginocchiò e s’inchinò. Era inzuppato e anche i capelli grondavano di pioggia. Gli tremavano leggermente le spalle. “I miei… i miei figli sono… Voi li avete già presi, signore.”

Genjiko vacillò e quasi cadde in avanti, ma vinse la debolezza e fissò il marito. “Non li avete… uccisi?”

Sudata scosse il capo e Toranaga con aria tetra disse: “I vostri figli si trovano nel mio alloggio, al piano di sotto. Ho ordinato a Chano-san di andarli a prendere dopo che voi foste arrivati qui. Dovevo essere sicuro di voi, tutti e due. I brutti tempi esigono brutte prove.” Suonò il campanello.

“Voi… voi ritirate il vostro ordine, signore?” chiese Genjiko, tentando disperatamente di conservare una fredda dignità.

“Sì, ritiro il mio ordine. Per questa volta. Era necessario che io capissi. Voi e il mio erede.”

“Grazie, grazie, padre.” Sudara piegò il capo fino a terra

Si aprì la porta interna. “Chano-san, porta qui un momento i miei nipoti,” ordinò Toranaga.

In pochi minuti si presentarono tre madrine, in abiti scuri, e la balia con i bambini. Le bambine avevano quattro, tre e due anni, e il piccolo, di poche settimane, dormiva in braccio alla balia. Le bambine indossavano tutte chimoni scarlatti, con nastri in tinta fra i capelli. Le madrine s’inginocchiarono e s’inchinarono e le piccole le imitarono con aria di importanza, sfiorando con la fronte i tatami. Solo la piccina dovette essere aiutata.

Toranaga s’inchinò con gravità in risposta, poi le piccole, compiuto il loro dovere, gli corsero fra le braccia, meno la minore che si precipitò in quelle materne.

A mezzanotte Yabu attraversò con portamento arrogante il cortile ben illuminato del torrione. Dovunque si imbatteva nelle guardie scelte di Toranaga. La luna era coperta di nuvole e le stelle si scorgevano a stento. “Naga-san, qual è la ragione di tutto questo?”

“Non lo so, signore, ma tutti devono presentarsi nella sala delle riunioni. Scusatemi, prego, ma dovete lasciarmi le vostre spade.”

Yabu arrossì a quell’inaudita pretesa, fuori da ogni etichetta. “Siete…” Avvertendo la gelida tensione del giovane e il nervosismo delle guardie, cambiò proposito. “Per ordine di chi, scusate, Naga-san?”

“Di mio padre, signore. Spiacente, se non volete andare alla riunione fate pure, ma per chi vi si reca l’ordine è di presentarsi senza spade e così dovrete essere. Perdonatemi, ma non ho scelta.”

Yabu vide le spade già ammucchiare nel corpo di guardia, presso il portone. Soppesò i pericoli di un rifiuto e li giudicò enormi. Controvoglia, si tolse le spade e Naga le ritirò, con un inchino, molto imbarazzato. Yabu entrò nel salone, dalle grandi feritoie, con il pavimento di pietra e il soffitto di legno.

Ben presto furono presenti tutti: i cinquanta generali, i ventitré consiglieri e sette daimyo amici delle province settentrionali. Apparivano tutti piuttosto agitati e si muovevano inquieti.

“Di che si tratta?” cercò d’informarsi Yabu in tono acido, mentre prendeva posto.

Un generale si strinse nelle spalle. “Probabilmente sarà per il viaggio a Osaka.”

Un altro si guardò intorno con aria di speranza. “Forse c’è un cambiamento di piani e ordinerà Cielo…”

“Scusate, ma avete la testa nelle nuvole. Ha già deciso. Il nostro signore ha deciso: Osaka e nient’altro! Ehi, Yabu-sama, quando siete arrivato?”

“Ieri. Sono rimasto bloccato per due settimane in uno sporco villaggio di pescatori, che si chiama Yokohama, a sud, con tutti i miei uomini. Il porto è decente, ma gli insetti! Zanzare e pulci… nell’Izu non ne ho mai trovate di tanto cattive.”

“Siete al corrente di tutte le novità?”

“Volete dire tutte le cattive notizie? Entro sei giorni, ne?”

“Sì. È terribile. Vergognoso!”

“Vero, ma stanotte è peggio,” intervenne cupo un altro generale. “Non mi avevano mai tolto le spade. Mai!”

“È un insulto!” pronunciò in tono ben chiaro Yabu. E tutti quelli che gli stavano vicino lo fissarono.

“Sono d’accordo,” esclamò il generale Kiyoshio, rompendo il silenzio. Serata Kiyoshio era il rude comandante della settima Armata. “Non mi sono mai trovato in pubblico senza le spade. Mi sembra d’essere un miserabile mercante! Credo… insomma, gli ordini sono ordini, ma certi ordini non andrebbero mai dati.”

“È vero,” intervenne un altro. “Che avrebbe fatto il vecchio Pugno di ferro, se si fosse trovato qui?”

“Si sarebbe tagliato il ventre, prima di consegnare le spade! Lo avrebbe fatto stasera stessa nel cortile!” esclamò Serata Tomo, primogenito del generale e vicecomandante della quarta Armata. “Come vorrei che ci fosse! Lui saprebbe… Si sarebbe squarciato il ventre, prima!”

“Io ci ho pensato.” Il generale Kiyoshio si schiarì rumorosamente la gola. “Qualcuno deve assumersi la responsabilità… e compiere il proprio dovere! Qualcuno deve chiarire che essere feudatario comporta responsabilità e doveri!”

“Scusate, ma sarebbe meglio che badaste a quello che dite,” consigliò Yabu.

“A che serve la lingua a un samurai, se gli viene impedito di essere samurai?”

“A niente,” rispose Isamu, un vecchio consigliere. “Sono d’accordo. Meglio morire.”

“Scusate, Isamu-san, ma questo sarà comunque il nostro prossimo futuro,” osservò il giovane Serata Tomo. “Siamo piccioni prigionieri di un falco disonorato!”

“Moderate le parole, prego!” disse Yabu, nascondendo la soddisfazione che provava. Poi, misurando le proprie, riprese: “È il nostro feudatario e, fino a che il Nobile Sudara o il Consiglio non si saranno assunti apertamente le loro responsabilità, resta feudatario e bisogna obbedirgli, ne?”

Il generale Kiyoshio lo scrutò, cercando inconsapevolmente la spada con la mano. “Che cosa sapete, Yabu-sama?”

“Niente.”

“Buntaro-san ha detto…” cominciò il consigliere.

Kiyoshio lo interruppe. “Scusate, Isamu-san, ma non importa quello che ha detto o non ha detto il generale Buntaro. È vero quello che dice Yabu-sama: un feudatario è un feudatario. Ma anche così, un samurai ha dei diritti, e un vassallo ha dei diritti. Anche i daimyo. Ne?”

Yabu lo fissò, misurando fra sé quell’invito. “L’Izu è una provincia del Nobile Toranaga. Io non sono più daimyo dell’Izu — lo governo soltanto, in nome suo.” Si guardò intorno. “Ci siamo tutti, ne?”

“Tranne il Nobile Noboru,” disse un generale, riferendosi al primogenito di Toranaga, universalmente odiato.

“Sì, ma non importa. Il male cinese presto finirà di distruggerlo e saremo per sempre liberi dal suo umorismo maligno,” commentò un altro.

“E dal suo puzzo.”

“Quando tornerà?”

“Chi lo sa? Non sappiamo neppure perché Toranaga-sama lo abbia mandato al nord. Meglio che ci resti, ne?”

“Se foste stato colpito dalla sua malattia, avreste lo stesso cattivo carattere, no?”

“Sì, Yabu-san. È un peccato, perché è un buon generale… meglio di Pesce Freddo,” osservò il generale Kiyoshio, usando il nomignolo di Sudara.

“Ssssst!” mormorò il consigliere, “ci devono essere i demoni nell’aria stasera perché parliate con tanta trascuratezza. O è il sakè?”

“Forse è il male cinese,” replicò con una risata amara Kiyoshio.

“Che Budda me ne protegga!” esclamò Yabu. “Se solo il Nobile Toranaga cambiasse idea a proposito di Osaka!”

“Se servisse a convincerlo, farei seppuku all’istante!” esclamò il giovane Serata Tomo.

“Senza offenderti, figlio mio, ma hai la testa confusa. Non cambierà mai, lui.”

“Sì, padre. Ma non lo capisco…”

“Andremo tutti insieme a lui? In una stessa spedizione?” chiese dopo un po’ Yabu.

“Sì, come scorta,” rispose Isamu. “Con duemila uomini, tutti gli ornamenti e il resto. Ci vorranno trenta giorni per arrivare. Ora ne mancano sei alla partenza.”

“Il tempo è breve,” disse il generale Kiyoshio. “Non è vero, Yabu-sama?”

Yabu non rispose. Era inutile, perché il generale non voleva una risposta. Tutti sprofondarono nei loro pensieri.

Si aprì una porta laterale e Toranaga fece il suo ingresso, seguito da Sudata. Tutti si inchinarono, rigidamente. Toranaga rispose, poi si accomodò di fronte a loro. Sudara, come suo futuro erede, sedette vicino a lui, leggermente più avanti. Naga entrò dalla porta principale e la chiuse.

Toranaga era l’unico con le spade.

“Mi è stato riferito che qualcuno parla da traditore, pensa da traditore e prepara il tradimento,” esordì con freddezza. Nessuno rispose né si mosse. Toranaga, lentamente, li scrutò uno per uno.

Nessun gesto. Poi parlò il generale Kiyoshio. “Posso chiedere rispettosamente, signore, che cosa intendete con ‘tradimento’?”

“Qualunque dubbio su un ordine, o una decisione, o una posizione di un feudatario, in qualunque momento, è tradimento!” rispose Toranaga, con violenza.

Il generale si alzò. “Allora io sono colpevole di tradimento.”

“Allora uscite e fate seppuku immediatamente.”

“Lo farò, signore,” replicò il militare con alterigia, “ma prima reclamo il diritto di parlare liberamente davanti ai vostri fedeli vassalli, ufficiali e…”

“Avete perduto tutti i vostri diritti!”

“Va bene. Allora lo chiedo come ultimo desiderio prima di morire — in qualità di hatamoto e in cambio di ventotto anni di fedele servizio!”

“Siate molto breve.”

“Lo farò, signore,” rispose gelido il generale. “Voglio dire solo tre cose. Primo: andare a Osaka a inchinarsi al contadino Ishido è tradire il vostro onore, l’onore del vostro clan, l’onore dei vostri fedeli vassalli, il vostro nome di famiglia e tutto il bushido. Secondo: io vi accuso di questo tradimento e dichiaro che perdete così il diritto d’essere nostro feudatario. Terzo: chiedo che voi abdichiate immediatamente in favore del Nobile Sudara e lasciate con onore questa vita oppure vi ritiriate in un monastero, radendovi il capo… come preferite.”

Il generale s’inchinò e si rimise a sedere. Tutti attesero, senza respirare, ora che l’incredibile era diventato realtà.

Bruscamente Toranaga chiese, in un sibilo: “Che cosa state aspettando?”

Il generale Kiyoshio lo guardò in faccia. “Niente, signore, scusatemi.” Il figlio del generale accennò ad alzarsi. “No, tu hai l’ordine di restare qui!”

Kiyoshio si alzò, s’inchinò un’altra volta a Toranaga e uscì con immensa dignità. Qualcuno si agitò inquieto e per tutta la sala passò come un’ondata, ma la durezza di Toranaga li dominò di nuovo: “C’è qualcun altro che si riconosce traditore? Qualcun altro che osa mancare al bushido, qualcun altro che ha il coraggio di accusare di tradimento il suo feudatario?”

“Scusatemi, Toranaga-sama,” disse con calma il vecchio consigliere Isumi, “ma con dolore devo dire che se andrete a Osaka, tradirete il vostro nome.”

“Il giorno in cui andrò a Osaka, voi lascerete questa terra.”

L’uomo dai capelli grigi si inchinò con cortesia. “Sì, signore.”

Toranaga li passò in rassegna con lo sguardo. Senza pietà. Qualcuno si mosse a disagio. Un samurai, che da anni aveva rinunciato a combattere e si era fatto monaco buddista e ora apparteneva all’amministrazione di Toranaga, era quasi rattrappito per una paura che cercava disperatamente di nascondere.

“Che cosa temete, Numata-san?”

“Niente, signore,” rispose l’uomo, con gli occhi bassi.

“Bene, allora andate e fate seppuku, perché siete un bugiardo e la vostra paura puzza come un’infezione.’

L’uomo uscì barcollando. Il terrore si era impadronito di tutti. Toranaga li guardava, e aspettava.

L’aria era diventata opprimente, e il lieve crepitare delle fiaccole sembrava fortissimo. Poi Sudara, sapendo che era suo dovere, si voltò e si inchinò. “Prego, signore, posso fare una dichiarazione?”

“Quale?”

“Signore, io credo che non vi sia… più tradimento qui e che non ve ne sarà più…”

“Non condivido questa opinione.”

“Perdonatemi, padre, voi sapete che io vi obbedirò. Tutti vi obbediremo. Desideriamo soltanto il vostro bene.

“Il bene è la mia decisione. Quanto io decido è il meglio.”

Sudara si inchinò in segno di assenso e tacque. Toranaga non distolse lo sguardo da lui e senza nessun segno di rimpianto annunciò: “Non siete più il mio erede.”

Sudara impallidì. Poi Toranaga aggiunse: “Io sono il feudatario qui.” Attese un attimo, quindi si alzò e uscì, pieno di superbia. La porta si chiuse alle sue spalle e un sospiro passò per tutta la sala. Le mani corsero inutilmente alle spade, ma nessuno lasciò il suo posto.

“Stamattina… stamattina ho avuto notizie dal nostro comandante in capo,” disse infine Sudara. “Hiro-matsu-sama sarà qui entro pochi giorni. Io… parlerò con lui. Siate silenziosi, siate pazienti, siate fedeli al nostro feudatario. Andiamo a rendere omaggio al generale Serata Kiyoshio…”

Toranaga stava salendo le scale, invaso da un senso di profonda solitudine. I suoi passi risvegliavano un’eco nel vuoto della torre. Vicino alla cima si fermò, appoggiandosi al muro, con il fiato corto. Di nuovo sentiva il dolore al petto e cercò di attenuarlo massaggiandosi. “È solo la mancanza di movimento,” brontolò. “Nient’altro, la mancanza di movimento.”

Riprese a salire. Sapeva di trovarsi in un grande pericolo. Tradimento e paura erano contagiosi e andavano stroncati senza pietà appena levavano la testa. E anche così non si poteva essere certi di averli sradicati. La battaglia in cui era impegnato non era uno scherzo da bambini: il debole sarebbe stato preda del forte, e il forte del più forte ancora. Se Sudara avesse preteso pubblicamente il titolo, lui non avrebbe avuto il potere di impedirglielo. Fino a che Zataki non gli avesse risposto, doveva aspettare.

Chiusa la porta con il chiavistello, Toranaga andò alla finestra e vide, in basso, i suoi generali e consiglieri che se ne andavano in silenzio alle loro case, fuori dalle mura del torrione. Oltre le mura del castello, la città giaceva in una quasi totale oscurità. La luna era coperta dalle nuvole. Era una notte cupa e triste. E la tristezza riempiva il cielo.