PROLOGO
La tempesta si avventò su di lui. Ne avvertì il morso a fondo, e comprese che sarebbero tutti morti se non avessero toccato terra entro tre giorni. Troppe morti in questo viaggio, pensò. Sono pilota-maggiore di una flotta di morti. Di cinque navi ne era rimasta una, di centosette uomini di equipaggio ne sopravvivevano ventotto, dei quali ormai solo una decina in grado di camminare. Gli altri — e fra loro il capitano-generale — erano prossimi alla fine. Niente più cibo, quasi niente acqua, e quella rimasta sporca e salmastra.
Si chiamava John Blackthorne e si trovava solo in coperta, fatta eccezione per la guardia sul bompresso — Salamon il muto — che si teneva rannicchiato sottovento, scrutando il mare.
La nave sbandò a un colpo di vento improvviso e Blackthorne si afferrò al bracciolo del seggiolino legato vicino alla ruota del timone sul cassero, finché il bastimento non si raddrizzò, con un gemito del fasciame. La nave era l’Erasmus, duecentosessanta tonnellate, un tre alberi mercantile armato da guerra, proveniente da Rotterdam, con venti cannoni. Era l’unica superstite della spedizione inviata dai Paesi Bassi per sterminare il nemico nel Nuovo Mondo. La prima forza marittima olandese che avesse mai scoperto il segreto dello Stretto di Magellano: quattrocentonovantasei uomini, tutti volontari, e tutti olandesi, salvo due piloti e un ufficiale. Compito della spedizione: saccheggiare i possedimenti spagnoli e portoghesi nel Nuovo Mondo e metterli a ferro e fuoco; stabilire nuovi rapporti commerciali permanenti; scoprire nell’Oceano Pacifico nuove isole, che fungessero da basi fisse e rivendicarne il territorio in nome dei Paesi Bassi. Infine tornare in patria entro tre anni.
Da più di quarant’anni i Paesi Bassi protestanti erano in guerra contro la Spagna cattolica, nel tentativo di liberarsi dal giogo degli odiati padroni. I Paesi Bassi, chiamati anche Olanda, legalmente facevano ancora parte dell’impero spagnolo. Anche l’Inghilterra, loro unica alleata, primo paese cristiano ad aver rotto i ponti con la Corte Pontificia romana una settantina d’anni prima, diventando protestante, era in guerra con la Spagna da vent’anni, e da dieci collaborava apertamente con gli olandesi.
Il vento diventò ancora più freddo e la nave rollò violentemente. Ormai senza vele, navigava solo con quelle di gabbia; ma anche così la corrente e la tempesta la spingevano con forza verso l’orizzonte cupo.
Laggiù la burrasca è più violenta, si disse Blackthorne, e ci sono più scogli e più secche. E mare ignoto. Bene. Ho lottato con il mare tutta la vita e ho sempre vinto. Vincerò sempre.
Il primo pilota inglese che aveva superato lo Stretto di Magellano. Proprio il primo — e il primo pilota che avesse mai solcato quelle acque asiatiche, fatta eccezione per qualche bastardo portoghese o spagnolo, che crede ancora di essere padrone del mondo. Il primo inglese su questi mari…
Tanti primati. Già. E tante morti per conquistarli.
Di nuovo saggiò il vento e lo annusò, ma non c’era traccia di terra. Scrutò l’oceano: era grigio cupo e rabbioso, senza una chiazza di alghe o una macchia di colore che potesse far pensare a un tratto sabbioso. A tribordo scorse un altro scoglio ergersi alto, ma non ne ricevette nessuna indicazione. Questo è un oceano senza fine, pensò. Bene. A questo sei stato addestrato: a navigare su un mare sconosciuto, tracciarne una mappa e poi tornare a casa. A quanti giorni di distanza si trovava la patria? Un anno, undici mesi e due giorni. L’ultimo approdo era stato in Cile, centotrentatré giorni prima, al di là di quell’oceano, detto Pacifico, che Magellano per primo aveva percorso circa ottant’anni prima di loro.
Blackthorne era affamato, e per lo scorbuto gli dolevano la bocca e il corpo. Obbligò gli occhi a controllare la bussola e il cervello a calcolare approssimativamente la posizione. Se essa era segnata sul suo rutter — il suo manuale del mare — era al sicuro in quel frammento di oceano. E se era al sicuro lui, sarebbe stata al sicuro la nave e insieme avrebbero potuto trovare il Giappone, o addirittura il re cristiano Prete Gianni, col suo Impero Aureo (che secondo la leggenda si stendeva a nord del Catai, dovunque il Catai si trovasse).
E ripartirò, con la mia parte di bottino, facendo vela verso occidente, verso casa, il primo pilota inglese che avrà circumnavigato la terra, e non lascerò mai più casa mia. Mai! Sulla testa di mio figlio!
La sferza del vento interruppe queste divagazioni e lo tenne sveglio. Sarebbe stato sciocco addormentarsi ora. Da un simile sonno non ci si sveglia più, pensò; stirò le braccia per riposare i muscoli contratti della schiena, poi si avvolse più stretto nel mantello. Controllò che le vele fossero a segno e il timone legato ben saldo. Pregò che apparisse la terra. La guardia di prua era sveglia.
“Scendi giù, pilota. Monto io, se vuoi.” Hendrik Specz, il terzo ufficiale, si trascinò lungo la battagliola con la faccia grigia per la stanchezza, gli occhi infossati, la pelle chiazzata e giallastra. Si aggrappò pesantemente alla chiesuola, assalito da un conato di vomito. “Benedetto Signore Gesù! Accidenti a quando ho lasciato l’Olanda.”
“Dov’è il secondo, Hendrik?”
“In cuccetta. Non può uscire dalla sua cuccetta scheit voll. E non lo farà, fino al Giorno del Giudizio.” “E il capitano–generale?”
“Si lamenta. Chiede qualcosa da mangiare e acqua da bere.” Hendrik sputò. “Gli ho detto che gli arrostisco un cappone e glielo servo su un piatto d’argento, con una bottiglia di brandy. Scheit-huis! Coot!”
“Non parlare così!”
“D’accordo, pilota. Ma è un idiota fissato, e noi moriremo per colpa sua.” Ebbe un altro accesso di vomito, senza che gli uscisse di bocca altro che un po’ di saliva sfilacciata. “Signore Gesù, aiutami!” “Scendi. Puoi tornare all’alba.”
Hendrik si calò faticosamente nell’altra poltroncina. “C’è il puzzo della morte, di sotto. Farò questo quarto, se non ti dispiace. Qual è la rotta?” “Dove ci porta il vento.”
“Dov’è la terra che ci hai promesso? Dov’è il Giappone, dove?” “Più avanti.”
“Sempre più avanti! Gottimhimmel! non avevamo l’ordine di raggiungere l’ignoto. A quest’ora dovremmo trovarci a casa, al sicuro, con la pancia piena, non a caccia di fuochi fatui.”
“O stai zitto, o te ne scendi di sotto.”
Cupamente, Hendrik distolse gli occhi dall’alto uomo barbuto. Dove ci troviamo in questo momento? avrebbe voluto chiedere. Perché non posso vedere il rutter segreto? Ma sapeva che non si rivolgono simili domande a un pilota, specie a quel particolare pilota. Eppure, pensò, vorrei essere forte e sano come quando ho lasciato l’Olanda: allora non aspetterei. Ti darei un pugno su quegli occhi grigio-azzurri, ti leverei dalla faccia quel mezzo sorriso esasperante e ti manderei all’inferno, dove meriti di stare. E allora sarei io il pilota e questa nave la governerebbe un olandese — non uno straniero — e i segreti sarebbero al sicuro nelle nostre mani, Perché presto ci troveremo in guerra con voi inglesi. Vogliamo tutti e due la stessa cosa: dominare il mare, controllare tutte le rotte del commercio, regnare sul Nuovo Mondo e strangolare la Spagna.
“Forse non c’è nessun Giappone,” borbottò a un tratto Hendrik. “È una leggenda Gottbewonden.”
“Esiste. Fra i trenta e i quaranta di latitudine nord. E adesso taci o vattene giù.”
“Di sotto c’è la morte, pilota,” brontolò Hendrik e fissò lo sguardo davanti a sé, abbandonandosi sul sedile.
Blackthorne si agitò nella poltroncina, perché quel giorno soffriva più del solito in tutto il corpo. Sei più fortunato di molti altri, si disse, più fortunato di Hendrik. Cioè, più attento, non più fortunato. Hai conservato la tua frutta, mentre gli altri l’hanno consumata senza pensarci, a dispetto di tutti i tuoi consigli. Così adesso lo scorbuto ti attacca ancora in forma leggera, mentre gli altri sono continuamente in preda alle emorragie e alla diarrea, hanno gli occhi infiammati e lacrimosi e perdono i denti, o se li sentono ballare in bocca. Perché gli uomini non imparano mai?
Sapeva che tutti, perfino il capitano-generale, avevano paura di lui e lo odiavano. Ma era normale, dato che in alto mare era il pilota al comando della nave: era lui che stabiliva la rotta e governava il timone, lui che li conduceva da un porto all’altro.
Qualunque viaggio era pericoloso perché le poche carte nautiche esistenti erano così incerte da diventare inutili, e non c’era assolutamente modo di stabilire la longitudine.
“Scopri il modo di stabilire la longitudine e sarai l’uomo più ricco del mondo,” gli aveva detto il suo vecchio maestro, Alban Caradoc. “La regina, Dio la salvi, ti darà diecimila sterline e il titolo di duca, se saprai risolvere il problema. I portoghesi mangiamerda ti darebbero anche di più: un galeone d’oro. E i bastardi spagnoli te ne darebbero venti! Quando non vedi terra, ragazzo, sei sempre perduto.” Caradoc si era interrotto, scuotendo malinconicamente la testa, come sempre. “Sei perduto, ragazzo. A meno che…”
“A meno che non si abbia un rutter!” aveva esclamato felice Blackthorne, consapevole di aver imparato bene la lezione. Allora aveva tredici anni e già da un anno stava come apprendista presso Alban Caradoc, pilota e maestro d’ascia, che aveva sostituito per lui il padre scomparso; Caradoc non l’aveva mai picchiato, ma aveva insegnato a lui e agli altri ragazzi i segreti del cantiere e del mare.
Un rutter era un libretto contenente le note minuziose di un pilota che c’era già stato. Vi erano registrate le rotte, secondo la bussola magnetica, fra i porti e i promontori, i capi e i canali; vi erano annotati i fondali e le profondità e il colore delle acque e la natura del fondo marino. Spiegava come ci si era arrivati e come se ne era tornati, per quanti giorni occorreva bordare le vele in una data maniera, l’andamento del vento, da dove e quando spirava, quali correnti ci si dovevano aspettare e provenienti da dove; il periodo delle tempeste e quello dei venti propizi; dove carenare la nave e dove rifornirsi d’acqua; dove s’incontravano amici e dove nemici; secche, scogliere, maree, porti; nel caso migliore, tutto quanto è necessario per un viaggio sicuro.
Inglesi, olandesi e francesi possedevano i rutter per le loro acque, ma sugli altri mari del mondo avevano veleggiato soltanto capitani portoghesi e spagnoli, e i loro due paesi consideravano assolutamente segreti i propri rutter. Quei rutter, che avevano rivelato le vie verso il Nuovo Mondo o scoperto i misteri dello Stretto di Magellano e del Capo di Buona Speranza — sempre per merito di portoghesi — e da lì le rotte verso l’Asia, venivano conservati dai portoghesi e dagli spagnoli come tesori nazionali, e ricercati con pari accanimento dai loro nemici olandesi e inglesi. Ma un rutter valeva quanto il pilota che lo compilava, l’amanuense che lo copiava, il dotto che lo traduceva, il rarissimo stampatore che lo pubblicava. Perciò poteva contenere degli errori, anche premeditati. Un pilota non lo sapeva mai con certezza finché non aveva fatto il viaggio di persona almeno una volta.
In mare il pilota era il capo, la guida unica e l’arbitro finale della nave e dell’equipaggio. Lui solo comandava dal cassero. È un vino che va alla testa, pensò Blackthorne, e una volta assaggiato non lo si dimentica più, lo si cerca sempre e sempre lo si sente necessario. È uno degli elementi che ti tengono vivo quando gli altri muoiono.
Allorché tutta la sabbia della clessidra accanto alla chiesuola fu passata, egli la rivoltò e suonò la campana.
“Riesci a stare sveglio, Hendrik?”
“Sì. Credo di sì.”
“Manderò qualcuno a sostituire la guardia di prua. Bada che non stia sottovento. Deve mantenersi sveglio e pronto.” Si domandò per un momento se dovesse mettere la nave al vento e in panne per la notte, ma decise di no. Scese la scaletta del boccaporto e aprì la porta del castello di prua. La scaletta portava nell’alloggio dell’equipaggio, che occupava tutta la larghezza della nave e poteva contenere cuccette e amache per centoventi uomini. Si sentì investire dal caldo e ne fu tanto lieto da ignorare l’inevitabile puzza della sentina. Nessuno, della ventina di uomini, si mosse dalla cuccetta.
“Vai di sopra, Maetsukker,” disse in olandese, la lingua franca dei Paesi Bassi, che egli parlava benissimo, insieme al portoghese, lo spagnolo e il latino.
“Sto per morire,” rispose un ometto dalla faccia aguzza, rannicchiandosi nella cuccetta. “Sto male, ho perso tutti i denti con lo scorbuto. Che il Signore Gesù ci aiuti, o moriremo tutti! Se non fosse per te, a quest’ora saremmo tutti a casa! Io sono un mercante, non un marinaio. Non faccio parte dell’equipaggio… Prendi qualcun altro. C’è Johann…” lanciò un grido, perché Blackthorne l’aveva strappato dalla cuccetta e l’aveva quasi gettato contro la porta. Aveva la bocca macchiata di sangue e si sentiva tutto intonato, ma un calcio in un fianco lo svegliò.
“Fila di sopra, e restaci finché sarai morto o saremo sbarcati!” L’uomo aprì la porta e si allontanò stravolto. Blackthorne osservò gli altri, che lo fissavano a loro volta. “Come ti senti, Johann?”
“Passabilmente, pilota. Forse ce la faccio.”
Johann Vinck aveva quarantatré anni, era capocannoniere e nostromo in seconda. Era anche il più anziano a bordo, senza capelli e senza denti, con un colore da quercia stagionata e altrettanta forza. Sei anni prima si era trovato con Blackthorne durante la sfortunata ricerca del Passaggio a Nordovest, e ciascuno conosceva le possibilità dell’altro.
“Alla tua età la maggior parte degli uomini è già morta, perciò tu ci superi tutti.” Blackthorne aveva trentasei anni.
Vinck sorrise senza allegria. “È il brandy, pilota, il brandy e il fornicare e la santa vita che faccio.”
Nessuno rise. Poi uno indicò una cuccetta. “Pilota, il nostromo è morto.”
“Allora portate su il cadavere, lavatelo e chiudetegli gli occhi! Tu, tu e tu!”
Questa volta gli uomini si alzarono subito dalle cuccette e tutti insieme trascinarono il corpo fuori dalla cabina.
“Monterai di guardia all’alba, Vinck. E tu, Ginsel, vai di guardia a prua.”
“Signorsi.”
Blackthorne tornò in coperta. Constatò che Hendrik era sveglio e la nave in ordine. Salamon, smontato di guardia, gli passò vicino barcollando, più morto che vivo, con gli occhi gonfi e rossi per il vento. Blackthorne andò all’altro boccaporto e scese. Il corridoio portava alla vasta cabina di poppa, dove si trovavano l’alloggio del comandante e il magazzino. La cabina di Blackthorne era a tribordo, mentre quella di babordo di solito era assegnata ai tre ufficiali. Adesso se la dividevano Baccus van Nekk, capomercante, Hendrik, terzo ufficiale, e il ragazzo, Croocq. E stavano tutti malissimo.
Blackthorne entrò nella cabina principale. Il capitano-generale, Paulus Spillbergen, giaceva sulla cuccetta, in stato di semincoscienza. Era un uomo basso, atticciato, generalmente molto grasso e ora molto magro, con la pelle del ventre che ricascava in pieghe molli. Blackthorne tirò fuori da un cassetto segreto una bottiglia d’acqua e lo aiutò a berne qualche sorso.
“Grazie,” mormorò debolmente Spillbergen. “Dov’è la terra… dov’è?”
“Più avanti,” rispose il pilota, senza crederci. Poi ripose la bottiglia, si impose di non sentire i lamenti e se ne andò, con odio rinnovato.
Era passato quasi un anno da quando avevano toccato la Tierra del Fuego, con i venti favorevoli ad avanzare nelle acque ignote dello Stretto di Magellano. Ma il capitano-generale aveva ordinato di sbarcare alla ricerca di oro e tesori.
“Cristo Gesù, comandante! Guardate la riva: non esistono tesori in quel deserto!”
“La leggenda dice che è una terra ricca d’oro, e noi possiamo rivendicarla per la gloriosa Olanda.”
“Gli spagnoli ci sono stati per cinquantanni, in forze.”
“Forse… ma forse non così a sud, pilota.”
“Così a sud la stagione è capovolta. Maggio, giugno, luglio, agosto sono mesi di pieno inverno qui. Il rutter dice che è il momento giusto per attraversare lo stretto. Entro poche settimane i venti cambieranno e allora ci toccherà restare qui, svernarci per mesi.”
“Quante settimane, pilota?”
“Il rutter dice otto, ma le stagioni non sono sempre uguali…”
“Allora andremo in esplorazione per un paio di settimane, un tempo più che sufficiente. Poi, se è necessario, torneremo a nord a saccheggiare qualche altra città, eh, signori?”
“Dobbiamo provare adesso, comandante. Gli spagnoli nel Pacifico hanno pochissime navi, mentre qui se ne incrociano molte. Ci stanno cercando. Vi ripeto che dobbiamo partire subito.”
Ma il capitano-generale l’aveva spuntata. Aveva chiesto il voto degli altri capitani — non degli altri piloti, uno inglese e tre olandesi — e aveva guidato le inutili incursioni a terra. I venti erano cambiati presto quell’anno e loro avevano dovuto svernare laggiù, perché il capitano-generale aveva paura di spingersi a nord per via delle flotte spagnole. Erano passati quattro mesi prima che potessero salpare e nel frattempo centocinquantasei uomini erano morti per la fame, il freddo e le emorragie intestinali, e gli altri si nutrivano col cuoio che ricopriva i cordami. Le spaventose tempeste dello stretto avevano disperso la flotta e soltanto l’Erasmus era arrivato al luogo di appuntamento, al largo delle coste cilene. Per un mese avevano aspettato gli altri, poi erano dovuti partire verso l’ignoto, perché gli spagnoli li minacciavano da vicino. Il rutter segreto si fermava al Cile.
Blackthorne ripercorse il corridoio, aprì la porta della cabina, che teneva chiusa a chiave, e la richiuse dietro di sé, sempre con la chiave. La cabina era piccola e ordinata, con il soffitto tanto basso che dovette chinarsi per andare a sedersi alla scrivania. Aprì un cassetto chiuso a chiave, e con cura estrasse da una carta l’ultima delle mele che aveva tanto gelosamente custodito da quando avevano lasciato l’isola di Santa Maria, al largo del Cile. Era chiazzata e piccola, coperta di muffa nei punti guasti. Ne tagliò uno spicchio e ci trovò dei vermi che mangiò insieme alla polpa, rispettando l’antica leggenda marinara secondo cui i vermi servivano quanto il frutto contro lo scorbuto e, strofinati sulle gengive, impedivano ai denti di cadere. Masticò piano, quindi bevve alcuni sorsi d’acqua. Sapeva di salmastro. Incartò di nuovo la mela e la richiuse a chiave nel cassetto.
Un topo passò fulmineo nell’ombra gettata dalla lanterna a olio appesa sopra la testa di Blackthorne. Il fasciame scricchiolò piacevolmente e sul pavimento gli scarafaggi corsero via da tutte le parti.
Sono stanco. Tanto stanco.
Gettò un’occhiata alla cuccetta: lungo e stretto, il pagliericcio appariva invitante.
Sono così stanco. Vai a dormire per quest’ora, diceva la metà peggiore di lui. Anche solo dieci minuti, e ti sentirai fresco per una settimana. Da giorni e giorni non hai riposato che poche ore, e quasi sempre in coperta, al freddo. Devi dormire. Dormire. Sono nelle tue mani…
“No, dormirò domani,” disse a voce alta, e costrinse la sua mano ad aprire il baule ed estrarne il rutter. Vide che l’altro, quello portoghese, giaceva intatto e sicuro e ne fu contento. Prese una penna d’oca pulita e cominciò a scrivere: “21 aprile 1600. Ora quinta. Crepuscolo. 133° giorno dalla partenza dall’isola di Santa Maria, Cile, a 32 gradi latitudine nord. Mare ancora grosso e vento forte. Nave armata con la stessa velatura. Mare color grigio-verde scuro e senza fondo. Ancora col vento in poppa, rotta 270 gradi, virando a nord-nordovest. Procediamo vivacemente, circa due leghe, ognuna di tre miglia in quest’ora. Grandi scogliere di forma triangolare avvistate alla mezz’ora, rilevate a nord-nordest, a distanza di mezza lega. Nella notte morti tre uomini di scorbuto: Joris, velaio; Reiss, cannoniere; de Haan, secondo ufficiale. Dopo averne raccomandate le anime a Dio, essendo il capitano-generale ancora ammalato, li ho calati in mare senza sudari, perché non c’era nessuno per prepararli. Oggi è morto il nostromo Rijckloff. Oggi a mezzogiorno non ho potuto misurare l’altezza del sole, ancora a causa delle nubi. Calcolo tuttavia che ci troviamo ancora sulla rotta e che dovremmo toccare presto il Giappone…”
“Ma quando?” chiese alla lanterna che, appesa sopra la sua testa, oscillava secondo i movimenti della nave. Come tracciare una mappa? Deve esistere un modo, si disse per la milionesima volta. Come stabilire la longitudine? Deve esistere un modo. Come mantenere fresche le verdure e la frutta? Che cos’è lo scorbuto?
“Dicono che è provocato dal mare, ragazzo,” gli aveva spiegato Alban Caradoc. Era un uomo dal grande ventre e dal grande cuore, con un’arruffata barba grigia.
“Ma non si potrebbero bollire le verdure e conservare il brodo?”
“Va a male, ragazzo. Nessuno ha scoperto il modo di mantenerlo fresco.”
“Dicono che Francis Drake partirà presto.”
“No, tu non puoi andarci, ragazzo.”
“Ho quasi quattordici anni. Avete permesso a Tim e Watt di arruolarsi e lui ha bisogno di apprendisti piloti.”
“Loro hanno sedici anni, e tu soltanto tredici.”
“Dicono che cercherà il Passaggio di Magellano, poi risalirà la costa fino alla zona inesplorata — la California — per trovare lo Stretto di Anian, che unisce il Pacifico all’Atlantico. Dalla California su fino a Terranova, il Passaggio a Nordovest…”
“Il supposto passaggio, ragazzo. Nessuno ha ancora dimostrato che non sia una leggenda.”
“Lui ci riuscirà. Adesso è ammiraglio e saremo la prima nave inglese che passerà lo Stretto di Magellano, la prima nel Pacifico, la prima… non mi si offrirà mai più un’occasione simile.”
“Oh, sì, ti capiterà, e comunque lui non potrà mai ripetere la via segreta di Magellano se non rubando un rutter o catturando un pilota portoghese che lo guidi. Quante volte devo ripetertelo: un pilota deve avere pazienza. Impara la pazienza, ragazzo. Hai tanto…”
“Vi prego!”
“No.”
“Perché?”
“Perché starà lontano due o tre anni, forse più. Ai deboli e ai giovani toccherà il cibo peggiore e pochissima acqua. E delle cinque navi che partono, soltanto la sua farà ritorno. Tu non sopravviverai mai, ragazzo.”
“Allora chiederò di andare sulla sua nave o su nessun’altra. Sono forte. Mi prenderà!”
“Sentimi, ragazzo, io sono stato con Drake sulla Judith, di cinquanta tonnellate, a San Juan de Ulua, quando insieme all’ammiraglio Hawkins — che era sul Minion — ci siamo aperti la strada combattendo contro i bastardi spagnoli per uscire dal porto. Facevamo commercio di schiavi dalla Guinea al Mar delle Antille, ma senza il permesso degli spagnoli, e loro beccarono Hawkins e fermarono la nostra flotta. Avevano tredici grosse navi e noi sei. Gliene affondammo tre e loro ci affondarono la Swallow, l’Angel, la Caravelle e la Jesus di Lubecca. Oh, Drake ci tolse dalla trappola, sì, e ci riportò a casa: con undici uomini sopravvissuti per raccontarlo. E Hawkins ne aveva quindici. Tutti quelli rimasti di quattrocentootto allegri marinai. Drake è spietato, ragazzo. Cerca oro e gloria, ma solo per se stesso, e già troppi sono morti per dimostrarlo.”
“Ma io non morirò. Sarò uno di quelli…”
“No. Il tuo apprendistato deve durare dodici anni. Ce ne vogliono ancora dieci perché tu sia libero. Fino a quel momento, fino al 1588, imparerai a costruire le navi e a governarle. Obbedirai ad Alban Caradoc, maestro d’ascia e pilota e membro della Trinity House, altrimenti non riceverai mai la tua licenza. E senza licenza non potrai mai guidare nessuna nave in acque inglesi, non comanderai mai sul cassero di nessuna nave inglese in nessun mare, perché questa è stata la volontà e la legge del buon re Enrico, Dio l’abbia in pace. È stata la legge della grande puttana Mary Tudor, che possa bruciare all’inferno. È la legge della regina, che possa regnare per sempre, è la legge dell’Inghilterra, ed è la miglior legge marittima che ci sia mai stata.”
Blackthorne ricordava quanto avesse odiato a quel tempo il suo maestro e la Trinity House, il monopolio creato nel 1514 da Enrico VIII per l’addestramento e la qualificazione di tutti i piloti e capitani mercantili inglesi; quanto avesse odiato quei dodici anni di semischiavitù, senza i quali non avrebbe mai ottenuto l’unica cosa al mondo che desiderasse. E ancora di più aveva odiato Alban Caradoc quando, in gloria imperitura, Drake e la sua corvetta Golden Hind, da cento tonnellate, erano miracolosamente tornati in patria, dopo un’assenza di tre anni. Era stata la prima nave inglese a circumnavigare il globo e aveva riportato il più grosso bottino che mai fosse stato recato in patria: un incredibile milione e mezzo di sterline in oro, argento, spezie e vasellame prezioso.
Che su cinque navi ne fossero andate perdute quattro e otto uomini ogni dieci fossero morti e Tim e Watt fossero scomparsi e un pilota portoghese prigioniero avesse guidato la spedizione di Drake nello Stretto di Magellano fino al Pacifico, non placava il suo odio; che Drake avesse impiccato un ufficiale, scomunicato il cappellano Fletcher e non avesse trovato il Passaggio a Nordovest, non diminuì l’ammirazione del paese intero. La regina si prese la metà del tesoro e nominò Drake cavaliere. I nobili e i mercanti che avevano anticipato il finanziamento della spedizione ne ricavarono il trecento per cento di profitti e implorarono di finanziare la prossima spedizione corsara. E tutti i marinai imploravano di essere ingaggiati da Drake, perché aveva raccolto il bottino, era tornato a casa e i pochi fortunati sopravvissuti, con la loro parte di bottino, erano ormai ricchi fino alla morte.
Io sarei sopravvissuto, si disse Blackthorne. Certo, e la mia parte del tesoro sarebbe stata sufficiente a…
“Rotz vooruiiiiiiit!” Avvistata una scogliera!
Intuì il grido prima ancora di sentirlo fisicamente, poi lo udì, lungo e strascicato, misto ai suoni della tempesta.
Corse fuori dalla cabina, prima al boccaporto e poi sul cassero, col cuore che batteva a grandi colpi, la gola stretta. Ormai era notte fonda e pioveva a rovesci e per un attimo si sentì contentissimo perché sapeva che i serbatoi di tela, preparati da tante settimane, ben presto avrebbero traboccato. Spalancò la bocca per accogliere la pioggia e ne gustò la dolcezza; quindi girò le spalle al fragore.
Vide Hendrik paralizzato dal terrore. Maetsukker, la guardia a prua, stava accovacciato, urlando parole incoerenti e indicando davanti a sé. Anche Blackthorne fissò lo sguardo in quel punto.
La scogliera sorgeva a circa duecento metri, con enormi artigli neri di roccia assaliti dal mare avido; la linea schiumosa della risacca si allungava a babordo e tribordo, interrotta qua e là. La tempesta sollevava grandi fiocchi di spuma e li gettava contro il nero della notte. La drizza di un gavone di prua si spezzò con un colpo secco e la parte più alta dell’alberatura fu portata via. L’albero maestro tremò fino alla base, ma resistette e il mare trascinò inesorabilmente la nave verso la morte.
“Tutti in coperta!” urlò Blackthorne, e suonò violentemente la campana.
Il suono risvegliò Hendrik dall’intontimento. “Siamo perduti!” gridò in olandese. “Gesù Signore, aiutaci tu!”
“Porta gli uomini in coperta, bastardo! Dormivi! Tutti e due dormivate!” Blackthorne lo spinse verso il boccaporto, si aggrappò al timone, sfilò i legacci e, stringendosi alla ruota, la girò verso sinistra.
Dovette ricorrere a tutte le proprie forze per tenere il timone contro la resistenza delle acque e l’intera nave tremò. Poi la prua cominciò a girare, sempre più rapidamente man mano che l’impeto del vento diminuiva. Presto si trovarono con le murate al mare e al vento: le vele di gabbia si gonfiarono e cercarono audacemente di reggere il peso della nave, mentre le corde si tendevano, con un urlo. Il mare torreggiava su di loro e stavano avanzando paralleli alla scogliera allorché egli scorse la grande ondata. Urlò un avvertimento agli uomini che uscivano dal castello di prua e si aggrappò alla ruota per non morire. L’ondata si abbatté sulla nave che sbandò, poi si scrollò come un cane bagnato e uscì dall’avvallamento. L’acqua entrò a torrenti dagli ombrinali e Blackthorne boccheggiò in cerca d’aria. Vide che era scomparso il cadavere del nostromo, deposto in coperta per il funerale del giorno dopo, e vide che era in arrivo una nuova ondata peggiore della precedente. L’ondata afferrò Hendrik e, nonostante la sua disperata resistenza, lo sollevò sopra la fiancata, scagliandolo in mare. Un’altra ondata spazzò la coperta e Blackthorne infilò un braccio fra i raggi della ruota del timone per tenersi. Hendrik si trovava ormai a cinquanta metri a babordo. Fu risucchiato indietro e un frangente gigantesco lo gettò sopra la nave, ve lo tenne per un attimo, sempre urlante, poi lo portò via e lo schiacciò contro una roccia, frantumandolo.
La nave abbassò la prua, cercando di avanzare. Un’altra drizza cedette e bozzello e paranco ondeggiarono impazziti finché si impigliarono nel sartiame.
Vinck e un altro marinaio si inerpicarono sul cassero e corsero ad aiutare Blackthorne al timone. Egli vide la scogliera a tribordo, più vicina. Davanti e a babordo affioravano altri scogli, ma, poteva scorgere qua e là delle aperture.
“Vai su, Vinck. Al trinchetto!” Metro per metro, Vinck e due marinai si arrampicarono fra le sartie dell’albero di trinchetto, mentre altri, di sotto, si attaccavano alle funi per aiutarli.
“Attenti davanti!” gridò Blackthorne.
Il mare spumeggiò in coperta e si portò via un altro uomo, restituendo il cadavere del nostromo. La prua uscì dall’acqua, poi vi ripiombò, facendo sommergere la nave. Vinck e gli altri liberarono la vela dal cordame ed essa a un tratto si aprì, e gonfiata dal vento mandò un rombo simile a una cannonata. La nave vacillò. Vinck e i suoi aiutanti rimasero un momento appesi, dondolando, sopra il mare, poi iniziarono la discesa.
“Scogli… scogli davanti a noi!” urlò Vinck.
Blackthorne e il marinaio accorso in suo aiuto girarono la ruota a tribordo. La nave esitò, poi si voltò, stridendo allorché le rocce affioranti la colsero sul fianco. Ma il colpo l’aveva presa di traverso, e la punta della roccia si spezzò. Il fasciame tenne e gli uomini ripresero fiato.
Blackthorne vide un passaggio nella scogliera e si affidò a esso. Adesso il vento soffiava più violento, il mare era più rabbioso. La nave ebbe uno scarto e il timone gli sfuggì dalle mani. Blackthorne e il marinaio riuscirono a riafferrarlo e a rimettere la nave in sesto, ma essa danzava ubriaca. L’acqua invase la coperta e irruppe nel castello di prua, schiacciando un uomo contro la paratia.
“Gli uomini alle pompe!” urlò Blackthorne e vide due marinai scendere di sotto.
La pioggia gli scorreva sulla faccia ed egli strizzò gli occhi indolenziti. La luce della chiesuola e quella di poppa erano spente da un pezzo. Un nuovo colpo di vento investì la nave. Il marinaio accanto a lui scivolò e il timone sfuggì ancora alla presa. L’uomo lanciò un grido mentre un raggio gli schiacciava la testa da un lato, e rimase al suolo, in balia del mare. Blackthorne lo sollevò e lo tenne stretto, finché l’ondata spumeggiante fu passata. Poi si rese conto che l’uomo era morto, lo lasciò ricadere sul sedile e l’ondata successiva se lo portò via.
L’apertura nella scogliera era a tre punti sopravvento e, per quanti sforzi facesse, Blackthorne non riusciva ad avanzare. Cercò disperatamente un altro canale, ma sapeva già che non c’era; allora lasciò che la nave per un momento seguisse il vento per guadagnare velocità, poi di nuovo la diresse con forza sopravvento. Avanzò di qualche centimetro e tenne la rotta.
Si sentirono un gemito e uno scossone allorché la chiglia sfregò contro le rocce taglienti, e tutti credettero di vedere il fasciame spezzarsi e il mare invadere la nave. L’Erasmus balzò avanti, ormai senza controllo. Blackthorne chiese aiuto, gridando, ma nessuno lo udì. Cercò di reggere da solo il timone contro il mare. Fu sbattuto da una parte, ma arrancò ancora al proprio posto, chiedendosi come il timone resistesse ancora.
Nel punto più stretto del passaggio il mare era un turbinio vorticoso, scatenato dalla tempesta e imprigionato dalle rocce. Ondate enormi si abbattevano sulla scogliera, arretravano assalendo le nuove arrivate, e infine si scontravano fra loro e si aggredivano da ogni parte. La nave fu risucchiata nel vortice, priva di murate e senza difesa.
“Tempesta maledetta! Ti piscio sopra!” urlò Blackthorne inferocito. “Togli le tue luride mani dalla mia nave!”
La ruota del timone girò e lo buttò lontano; la coperta ondeggiò minacciosamente. Il bompresso sbatté contro una roccia e si spezzò, trascinando parte del sartiame: la nave si disincagliò. Il trinchetto si tese come un arco e si ruppe con un colpo secco. Gli uomini in coperta si gettarono sul sartiame con le scuri, mentre la nave infilava il canale ribollente. Liberarono l’albero che piombò su un fianco, travolgendo un uomo, avviluppato da quel groviglio. Il poveretto, in trappola, urlò, ma gli altri non potevano fare niente e lo videro apparire e sparire di fianco alla nave. Poi non lo videro più.
Vinck e gli altri guardarono verso il cassero e Blackthorne, come impazzito, sfidava la tempesta. Si segnarono e raddoppiarono le preghiere, e qualcuno i pianti, tenendosi disperatamente aggrappati uno all’altro.
Il passaggio si allargò per un attimo e la nave rallentò; ma poco più avanti esso si restringeva, minaccioso, e le rocce sembravano torreggiare sopra di loro, ancora più grandi. Da una parte la corrente rimbalzava trascinando con sé la nave. La rivoltò e la gettò al suo destino.
Blackthorne cessò di maledire la tempesta e lottando mise il timone a babordo; poi rimase appeso alla ruota, con i crampi ai muscoli per lo sforzo. Ma la nave non accettò l’ordine del timone, né lo accettò il mare.
“Voltati, puttana d’inferno!” ansimò Blackthorne, mentre le forze lo abbandonavano rapidamente. “Aiutami!”
Le ondate si succedevano più veloci ed egli si sentiva il cuore scoppiare, ma lottava ancora contro l’impeto del mare. Cercò di mettere a fuoco la vista, e gli occhi non gli obbedirono: i colori gli apparivano sbiaditi e confusi. La nave era ormai un peso morto nella strozzatura; proprio allora la chiglia strisciò su un banco di fango. L’urto la spostò, il timone affondò nelle onde. Vento e mare si unirono per aiutarla e insieme la spinsero. La nave superò il passaggio e si avviò verso la salvezza, nella baia che le si apriva davanti.