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“Sono incaricata di informarmi se Kiku-san sarà libera stasera,” disse Mariko.
“Oh, mi spiace, mia signora, ma non ne sono sicura,” rispose in tono di scusa Gyoko, la Mama-san. “Posso chiedere se l’onorevole cliente vorrebbe Kiku-san per tutta la sera, o solo per una parte, o forse fino a domani, nel caso che sia ancora libera?”
La Mama-san era una donna alta e elegante, sulla cinquantina, con un bel sorriso. Ma beveva troppo sakè, il suo cuore era un pallottoliere per il calcolo e il suo naso sentiva l’odore di un pezzo d’argento a cinquanta ri.
Le due donne si trovavano in una stanza, accanto all’alloggio privato di Toranaga, che era stata riservata a Mariko e che si affacciava su un giardino racchiuso dal primo muro di cinta. Pioveva di nuovo e le gocce di pioggia scintillavano controluce.
Mariko ribatté con alterigia: “Questo spetta al cliente deciderlo. Forse ora potremmo trovare un accordo soddisfacente per ogni eventualità.”
“Mi dispiace, scusate, ma non so se adesso lei sia disponibile. È così richiesta! Sono certa che voi capite.”
“Oh, sì, naturalmente. Siamo davvero molto fortunati ad avere ad Anjiro una signora della sua alta qualità.” Mariko aveva sottolineato “Anjiro”. Aveva mandato a chiamare Gyoko invece di andare lei stessa alla Casa da Tè, come avrebbe potuto. E quando la donna era arrivata, con un ritardo sufficiente da essere notato, ma non tanto da apparire scortese, Mariko si era sentita lieta di doversi scontrare con una così valida avversaria.
“La Casa da Tè è stata molto danneggiata?” chiese.
“Per fortuna no, salvo del vasellame e del vestiario di valore, anche se costerà una piccola fortuna riparare il tetto e sistemare il giardino. È sempre così caro ottenere le riparazioni in fretta, non è vero?”
“Sì, è un vero problema. A Yedo, a Mishima, e anche in questo villaggio.”
“È così importante avere un ambiente tranquillo, ne? Il cliente ci onorerebbe forse della sua presenza alla Casa da Tè? O vuole che Kiku-san, se è libera, venga da lui qui?”
Mariko si morse le labbra, riflettendo. “Alla Casa da Tè.”
“Ah so desu!” II vero nome della Mama-san era Heiko-ichi — Prima Figlia del Muratore. Suo padre e suo nonno erano stati dei maestri nel costruire muri di giardini. Per molti anni lei aveva fatto la cortigiana a Mishima, capitale dell’Izu, raggiungendo il grado di seconda classe. Ma gli dei le avevano sorriso e, con i doni del suo protettore uniti a un acuto senso degli affari, aveva messo insieme abbastanza denaro da comprarsi il proprio contratto ancora abbastanza giovane, mettendosi a capo di un gruppo di cortigiane con una propria Casa da Tè, dove nessuno più la cercava per il bel corpo e lo spirito piccante che gli dei le avevano donato. Adesso si era ribattezzata Gyoko-san, Signora Fortuna. Quando era ancora una piccola cortigiana quattordicenne l’avevano soprannominata Tsukaiko, Incantatrice di serpenti. Il suo padrone le aveva spiegato che quella parte speciale dell’uomo si può paragonare a un serpente, che un serpente era fortunato e che se lei sapeva diventare un’incantatrice di serpenti in quel senso, avrebbe ottenuto enorme successo. Il nome inoltre avrebbe fatto ridere i clienti e le risa erano essenziali al buon andamento degli affari. Gyoko non aveva mai dimenticato quel particolare.
“Sakè, Gyoko-san?”
“Sì, grazie.”
La cameriera lo versò, quindi a un cenno di Mariko uscì.
Bevvero in silenzio, poi Mariko riempì di nuovo le coppe.
“Che bella porcellana. Così elegante!” osservò Gyoko.
“È molto modesta. Mi dispiace che dobbiamo usare questa.”
“Se potessi rendere Kiku-san disponibile, cinque koban sarebbero una cifra accettabile?” Un koban era una moneta d’oro equivalente a tre koku di riso, e pesava diciotto grammi.
“Scusate, forse non sono stata chiara. Non intendo comprare tutta la Casa da Tè di Mishima, ma solo Kiku-san, per una sera.”
Gyoko rise. “Ah, mia signora, la vostra fama è ben meritata. Ma posso mettere in rilievo che Kiku-san è di prima classe? La corporazione le ha concesso l’anno scorso questo onore.”
“Esatto, e sono sicura che lo merita. Ma ciò è accaduto a Mishima. Anche a Kyoto… ma naturalmente stavate scherzando, scusate.”
Gyoko trattenne la volgarità che le era venuta alle labbra, e sorrise benevola. “Purtroppo dovrei rimborsare i clienti che, se ricordo bene, l’hanno già prenotata. Povera piccola, quattro chimono le si sono rovinati con l’acqua per spegnere l’incendio. Tempi duri si preannunciano per il paese, mia signora, sono sicura che capite. Cinque koban non sono una cifra irragionevole.”
“Naturalmente no. Sarebbero ragionevoli a Kyoto per due signore di prima classe, per una settimana. Ma questi non sono tempi normali e bisogna fare delle concessioni. Mezzo koban. Sakè, Gyoko-san?”
“Grazie, grazie. È un sakè così buono… la qualità è eccellente, davvero eccellente. Ancora uno, se non vi spiace, poi devo andarmene. Se Kiku-san non è libera stasera, sarò lieta di combinare per una delle altre… forse Akeko. O forse andrebbe bene un altro giorno? Dopodomani magari?”
Per un momento Mariko non rispose. Cinque koban erano un’assurdità… si sarebbero pagati per una cortigiana celebre di prima classe a Yedo. Mezzo koban sarebbe stato più che giusto per Kiku. Mariko conosceva i prezzi delle cortigiane, perché Buntaro di tanto in tanto le voleva e di una aveva anche rilevato il contratto; lei stessa aveva pagato i conti che, com’era naturale, le erano stati portati. Il suo sguardo soppesò Gyoko, che sorseggiava calma il suo sakè.
“Forse,” disse Mariko, “ma non credo. Né un’altra signora, né un’altra sera… No, se non si può combinare stasera, temo che dopodomani sarà troppo tardi. Mi spiace…” sorrise e si strinse nelle spalle.
Gyoko depositò la coppa con aria triste. “Ho sentito che i nostri gloriosi samurai ci lasceranno. Che peccato! Le notti sono così piacevoli! A Mishima non si gode la brezza marina come qui. Dispiacerà anche a me partire.”
“Forse un koban. Se questo accordo fosse soddisfacente, vorrei poi discutere il prezzo del suo contratto.”
“Il suo contratto?”
“Sì. Sakè?”
“Grazie, sì. Il suo contratto? Ebbene, quella è un’altra faccenda. Cinquemila koku.”
“Ma è impossibile!”
“Sì,” ammise Gyoko, “ma Kiku-san è come una figlia per me. Anzi, è mia figlia più di una figlia vera. L’ho istruita da quando aveva sei anni. È la creatura più perfetta del Mondo dei Salici in tutto l’Izu. Oh, lo so! a Yedo disponete di signore più brillanti, più mondane, ma solo perché Kiku-san non ha avuto la fortuna di trovarsi con persone della stessa levatura che a Yedo. Eppure, anche adesso, nessuna le è pari nel canto o nel suonare il samisen. Lo giuro su tutti gli dei. Datele un anno a Yedo, il protettore giusto e le giuste fonti di sapere, e potrà gareggiare con successo con qualunque cortigiana dell’impero. Cinquemila koku è una cifra bassa per un simile fiore.” Il sudore le imperlava la fronte. “Dovete scusarmi, ma finora non avevo mai pensato di vendere il suo contratto. Non ha ancora diciotto anni, è senza una macchia, l’unica signora di prima classe che io abbia avuto il privilegio di tenere sotto la mia protezione. Credo che in realtà non potrei cedere il suo contratto neppure alla cifra indicata. No, credo che dovrò ripensarci, scusatemi. Forse potremo parlarne domani. Perdere Kiku-san… la mia piccola Kiku-chan?” Le spuntarono le lacrime agli occhi e Mariko pensò: se sono lacrime vere, tu, Gyoko, non hai mai conosciuto un Pestello.
“Mi spiace. Shigata ga nai, ne?” rispose gentilmente e lasciò che la donna piangesse e si lamentasse, riempiendo la coppa più e più volte. Quanto vale in realtà il contratto? si chiese. Cinquecento koku sarebbero già molto, molto più del giusto. Dipende dall’ansia dell’uomo, che in questo caso non è per niente ansioso. Toranaga-sama certo non lo è. Per chi la compra? Omi? Probabile. Ma perché ha ordinato che io accompagni là l’Anjin-san?
“Voi siete d’accordo, Anjin-san?” gli aveva domandato in precedenza, con una risatina nervosa, superando il chiasso degli ufficiali ubriachi.
“Dite che Toranaga-sama vuole offrirmi uria cortigiana? Come parte della ricompensa?”
“Sì. Kiku-san. Non potete rifiutare. Io… io ho l’ordine di farvi da interprete.”
“L’ordine?”
“Oh, sarò lieta di farlo. Ma veramente, Anjin-san, non potete rifiutare. Sarebbe terribilmente scortese dopo aver ricevuto tanti onori, ne?” Gli aveva sorriso, sfidandolo, orgogliosa e compiaciuta dell’incredibile generosità di Toranaga.
“Vi prego. Io non ho mai visto l’interno di una Casa da Tè… mi piacerebbe moltissimo vederlo e parlare con una autentica signora del Mondo dei Salici.”
“Come?”
“Sono chiamate così perché devono avere la grazia di un salice. A volte si dice anche il Mondo Galleggiante, paragonandole alle ninfee che galleggiano su un lago. Via, Anjjn-san, accettate, vi prego.”
“E Buntaro-sama?”
“Oh, lui sa che devo combinare l’incontro per voi. Glielo ha detto Toranaga, perché naturalmente è tutto molto ufficiale. Io ho ricevuto un ordine, e così voi. Vi prego!” E in latino aveva aggiunto, felice che nessuno ad Anjiro lo parlasse: “C’è un’altra ragione che ti rivelerò in seguito.”
“Ah… dimmela adesso.”
“Dopo. Ma accetta, con gioia. Perché io te lo chiedo.”
“Tu… come posso rifiutarti qualcosa?”
“Ma con gioia, deve essere con gioia e piacere. Promettilo!”
“Lo prometto. Tenterò. Non ti prometto altro che di tentare.” E lei lo aveva lasciato per dedicarsi ai preparativi.
“Oh, mi sconvolge la sola idea di vendere il contratto della mia bellezza,” stava piagnucolando Gyoko. “Grazie, sì, ancora un po’ di sakè. Poi devo proprio andare.” Vuotò la coppa e la tese per farsela subito riempire.
“Diciamo due koban per stasera… un segno del mio grandissimo desiderio di compiacervi.”
“Uno. Se ci accordiamo su questo, forse potremo riparlare del contratto stasera alla Casa da Tè. Mi scuso della fretta, ma il tempo… voi capite…” Mariko agitò vagamente una mano verso la sala delle riunioni. “Affari di stato… Toranaga-sama… il futuro del regno… voi capite, Gyoko-san.”
“Sì, certo, mia signora.” Gyoko cominciò ad alzarsi. “Vogliamo accordarci su uno e mezzo per stasera? Allora, questo è sistemato… ”
“Uno.”
“Oh ko, il mezzo non è che un piccolo margine, che non merita di essere discusso,” si lagnò Gyoko, ringraziando gli dei per la propria abilità e conservando un’espressione di finta angoscia. Uno e mezzo sarebbe stato il triplo del compenso solito. Ma, più del denaro, contava il fatto che si trattava, finalmente, del primo invito da parte di un membro della vera aristocrazia giapponese, invito di cui lei era andata in caccia, e per cui avrebbe consigliato Kiku di accettare anche gratis, e due volte. “Per tutti gli dei, signora, mi affido alla vostra clemenza, un koban e mezzo. Vi prego, pensate alle altre mie figliole, da vestire e istruire e nutrire per anni, che non diventeranno come Kiku-san, ma che devono essere vezzeggiate come lei.”
“Un koban, in oro, domani. Ne?”
Gyoko alzò la bottiglia di porcellana e versò due coppe. Ne offrì una a Mariko, scolò l’altra e la riempì immediatamente. “Uno,” rispose, con voce soffocata.
“Grazie, siete molto gentile e premurosa. Sì, i tempi sono duri.” Mariko sorseggiò il vino pensosa. “L’Anjin-san e io verremo tra poco alla Casa da Tè.”
“Eh? Che-cosa-avete-detto?”
“Che l’Anjin-san e io verremo alla Casa da Tè tra poco. Io devo fargli da interprete.”
“Il barbaro?” esclamò Kiku, sussultando.
“Il barbaro. E sarà qui da un momento all’altro, se non lo fermiamo… insieme a lei, l’arpia più crudele e avida che abbia mai incontrato, possa rinascere prostituta di quindicesima classe!”
Nonostante il timore, Kiku rise forte. “Oh, Mama-san, non agitatevi tanto! Sembra una dama così affascinante, e un intero koban… avete concluso un accordo splendido! Su, abbiamo un sacco di tempo. Prima un po’ di sakè che vi rallegri il cuore. Ako, svelta come un colibrì!”
Ako scomparve.
“Sì, il cliente è l’Anjin-san,” ripeté Gyoko, quasi senza fiato per la rabbia.
Kiku la rinfrescò con il ventaglio e Hana, la piccola apprendista, la imitò, tenendo erbe odorose sotto il naso della Mama-san. “Io credevo che trattasse per Buntaro… o per lo stesso Toranaga. Naturalmente, quando ha nominato l’Anjin-san, le ho chiesto perché non se ne era occupata la sua concubina, ma lei mi ha risposto soltanto che Fujiko-san stava troppo male per le bruciature riportate nell’incendio e che lei aveva ricevuto l’ordine di parlarmi dallo stesso Toranaga.”
“Oh! Come sarei fortunata a poter servire il grande signore! ”
“Lo farai, piccola, lo farai, se ci prepariamo bene. Ma il barbaro? Cosa penseranno tutti gli altri tuoi clienti? Cosa diranno? Naturalmente ho lasciato tutto in sospeso, dicendo che non sapevo se tu fossi libera, perciò, se non vuoi, puoi ancora rifiutare, senza offesa per nessuno.”
“Che cosa potrebbero dire gli altri? Lo ha ordinato Toranaga-sama. Non c’è niente da fare, ne?” Kiku nascose la sua apprensione.
“Oh, potresti rifiutare con facilità. Ma devi decidere in fretta, Kiku-chan. Oh ko, avrei proprio dovuto essere più furba!”
“Non preoccupatevi, Gyoko-sama. Andrà tutto bene. Ma dobbiamo riflettere. È un grosso rischio, ne?”
“Sì, grosso.”
“Se accettiamo, non torniamo più indietro.”
“Lo so.”
“Consigliatemi.”
“Non posso, Kiku-chan. Mi sento come intrappolata dal kami. La decisione dev’essere tua.”
Kiku soppesò tutti i pericoli, poi tutti i vantaggi. “Rischiamo. Accettiamolo. In fondo è samurai e hatamoto, e il vassallo favorito del Nobile Toranaga. Non dimentichiamo quanto ha detto l’indovino, che vi avrei aiutato a diventare ricca e famosa per sempre. Io prego perché questo mi sia concesso per ripagarvi di tutta la vostra bontà.”
Gyoko accarezzò i bei capelli di Kiku. “Oh, bambina, sei così dolce, grazie! Credo che tu sia saggia. Sì, lasciamo che venga.” Le diede un affettuoso buffetto sulla guancia. “Sei sempre stata la mia preferita! Ma se lo avessi saputo avrei chiesto il doppio per l’ammiraglio barbaro.”
“Ma abbiamo avuto il doppio, Mama-san.”
“Dovevamo ricevere il triplo!”
Kiku le batté sulla mano. “Non preoccupatevi… è l’inizio della vostra buona fortuna.”
“Sì, ed è vero che l’Anjin-san non è un barbaro normale, ma un barbaro samurai e hatamoto. Mariko-san mi ha detto che gli è stato assegnato un feudo di duemila koku ed è stato nominato ammiraglio di tutte le navi di Toranaga e che fa il bagno come un essere civile e non puzza più…”
Ako rientrò ansimante e servì il vino, senza versarne una goccia. Quattro coppe sparirono rapidamente e Gyoko cominciò a sentirsi meglio. “La serata deve essere perfetta. Se così ha ordinato Toranaga, naturalmente così deve essere. E l’Anjin-san è veramente come un daimyo. Duemila koku l’anno… per tutti i kami, dovremmo avere proprio fortuna! Ascolta, Kiku- san!” Si chinò più vicino, e Ako si chinò anche lei, piena di curiosità. “Ho chiesto a Mariko-san se, dato che parla la loro brutta lingua, conoscesse qualche loro strana usanza, o storie, danze, posizioni, canti, strumenti che forse l’Anjin-san potrebbe preferire.”
“Ah, sarebbe di grande aiuto!” ammise Kiku, rimpiangendo di non aver rifiutato.
“Non mi ha detto niente! Parla la loro lingua, ma non sa niente delle loro abitudini sul guanciale! Le ho chiesto se ne avesse mai parlato con lui e lei ha risposto di sì, ma con risultati disastrosi.” Gyoko riferì l’episodio del castello di Osaka. “Ti puoi immaginare quanto debba essere stato imbarazzante!”
“Almeno sappiamo di non dovergli proporre dei ragazzi… è già qualcosa.”
“A parte questo, non c’è che la cameriera di casa a cui rivolgersi.”
“Abbiamo il tempo di mandarla a chiamare?”
“Ci sono andata io stessa, subito. Ma nemmeno un mese di salario le ha fatto aprir bocca, alla piccola idiota!”
“È bella?”
“Oh, sì, per uno a cui piacciano delle rozze cameriere dilettanti. Ha detto solo che il padrone è virile e non pesante. E che è molto ben dotato.”
“Questo non ci è di grande aiuto, Mama-san.”
“Lo so. Forse la cosa migliore è tenere tutto pronto, per ogni evenienza, ne? Tutto.”
“Sì. Dovrò essere molto cauta. È molto importante che tutto sia perfetto. Sarà difficilissimo… se non impossibile… intrattenerlo non potendo parlargli.”
“Mariko-san ha detto che vi farà da interprete.”
“È molto gentile da parte sua. Anche se certo non sarà lo stesso.”
“È vero, sì. Sakè, Ako… con grazia, bambina, versa con grazia. Ma tu sei una cortigiana di prima classe, Kiku-san. Improvvisa. L’ammiraglio barbaro oggi ha salvato la vita del grande Toranaga e siede nella sua ombra. Il nostro avvenire dipende da te! So che riuscirai splendidamente. Ako!”
“Sì, padrona?”
“Controlla che i letti siano in perfetto ordine, che tutto sia perfetto. Pensa ai fiori… no, ci penserò io stessa! E il cuoco, dov’è il cuoco?” diede un colpetto sul ginocchio di Kiku. “Mettiti il chimono dorato, sopra quello verde. Stasera dobbiamo fare colpo.” Corse via per sistemare la casa e tutte le cortigiane e le cameriere e le apprendiste si prodigarono felici, pulendo e aiutando, orgogliose della fortuna capitata alla loro casa.
Quando tutto fu sistemato, Gyoko si ritirò nella sua stanza, per sdraiarsi e riprendere forza. Non aveva ancora parlato a Kiku dell’offerta per il contratto. Aspetterò e vedrò, si disse. Se posso combinare come voglio io, forse allora lascerò andare la mia bella Kiku. Ma non prima di sapere con chi. Sono contenta di averlo stabilito chiaramente con Mariko-san, prima di andarmene. Perché piangi, vecchia stupida? Sei di nuovo ubriaca? Rimettiti in sesto! Che cosa conta per te l’infelicità?
“Hana-chan!”
“Sì, Mama-sama?” La bambina arrivò di corsa. Aveva appena sei anni, grandi occhi bruni e bellissimi capelli lunghi. Portava un chimono nuovo di seta scarlatta. Gyoko l’aveva comprata due giorni prima attraverso la locale venditrice di bambini e Mura.
“Ti piace il tuo nuovo nome, bimba?”
“Oh, tanto, tantissimo! Ne sono onorata, Mama-sama!”
Il nome significava “piccolo fiore” — come kiku voleva dire “crisantemo” — e Gyoko gliel’aveva dato dal primo giorno. “Adesso io sono tua madre,” le aveva detto in tono dolce ma fermo, dopo aver pagato il prezzo pattuito, stupita che una simile potenziale bellezza fosse uscita da una famiglia di rozzi pescatori come quella di Tamazaki. Dopo quattro giorni di intense contrattazioni aveva pagato un koban per i servigi della piccola fino ai vent’anni — quanto bastava per nutrire la famiglia di Tamazaki per due anni. “Portami del cha, e poi il pettine e delle foglie profumate di tè, per cancellare dal mio alito l’odore di sakè.”
“Sì, Mama-sama.” Corse via senza guardare, per l’ansia di rendersi utile, e urtò contro Kiku, nelle sue vesti di velo, sulla soglia.
“Oh, mi spiace…”
“Devi stare attenta, Hana-chan.”
“Scusate, scusate tanto, sorella maggiore…” Hana-chan era quasi in lacrime.
“Perché sei triste. Piccolo Fiore? Via, via,” disse Kiku, asciugandole con tenerezza le lacrime. “In questa casa la tristezza si cancella. Ricordati, noi del Mondo dei Salici non sentiamo mai tristezza, perché a che servirebbe? La tristezza non piace. Il nostro dovere è di piacere e di essere allegre. Corri, piccola, ma con garbo, sii graziosa.” Kiku si voltò e si esibì davanti alla donna più anziana, con un sorriso radioso. “Vi piace, padrona-san?”
Blackthorne la guardò e mormorò: “Alleluia!”
“Questa è Kiku-san,” la presentò ufficialmente Mariko, lieta della reazione di lui. La giovane donna entrò nella stanza con un frusciare di seta e si inginocchiò e si inchinò, rivolgendogli alcune parole che Blackthorne non capì.
“Dice che siete il benvenuto, che onorate questa casa.”
“Domo,” rispose lui.
“Do itashemasité. Sakè, Anjin-san?” chiese Kiku.
“Hai, domo.”
L’inglese osservò quelle mani perfette prendere con sicurezza la bottiglia, assicurarsi della giusta temperatura e poi versare il liquido nella coppa che lui porgeva come Mariko gli aveva insegnato. Tutti gesti compiuti con più grazia di quanto avrebbe mai creduto possibile.
“Avete promesso di comportarvi come un autentico giapponese, vero?” gli aveva domandato Mariko, mentre uscivano dalla fortezza, lei su un palanchino, lui a piedi, circondati dai portatori di fiaccole. Dieci samurai li accompagnavano come guardia d’onore.
“Proverò, sì,” aveva risposto Blackthorne. “Cosa devo fare?”
“Per prima cosa dovete dimenticare ciò che dovete fare voi e ricordatevi solo che questa notte è esclusivamente per il vostro piacere.”
Oggi è stato il miglior giorno della mia vita, stava pensando Blackthorne. E stanotte… come sarà? Era eccitato dall’avvenimento, come da una sfida, e deciso a cercare di essere giapponese e di godersi tutto e di non sentirsi imbarazzato.
“Quanto… quanto… costerà la serata?” aveva chiesto.
“Questo è molto non-giapponese,” l’aveva canzonato lei. “Che cosa ha a che fare con tutto il resto? Fujiko-san ha accettato gli accordi e li ha giudicati soddisfacenti.”
Prima di muoversi era andato da Fujiko. Il medico l’aveva visitata, cambiandole le fasciature e somministrandole le sue medicine a base d’erbe. La ragazza era orgogliosa dei nuovi onori e del nuovo feudo e aveva conversato gaiamente, senza mostrare dolore, lieta che andasse alla Casa da Tè: naturalmente, Mariko si era consultata con lei e tutto era concordato… com’era gentile Mariko-san! E quanto le dispiaceva delle bruciature che le avevano impedito di provvedere lei stessa a tutto! Prima di allontanarsi, Blackthorne le aveva accarezzato una mano, sentendo in un certo modo, di volerle bene. Lei lo aveva ringraziato e si era scusata di nuovo, augurandogli di passare una serata meravigliosa.
Gyoko e le cameriere aspettavano in gran pompa alla porta della Casa da Tè, per accoglierli.
“Questa è Gyoko-san, la Mama-san.”
“Molto onorata, Anjin-san, molto onorata.”
“Mama-san? Volete dire mamma? Madre?”
“Oh, non proprio, mama vuol dire ‘matrigna’ o ‘madrina’, Anjin-san. ‘Madre’ è haha o oba.”
Dopo un momento Gyoko si scusò e si allontanò. Blackthorne sorrise a Mariko, che come una bambina guardava tutto. “Oh, Anjin-san, ho sempre desiderato vedere l’interno di uno di questi posti. Gli uomini sono così fortunati! Non è bello? Non è splendido, perfino in un villaggio così piccolo? Gyoko-san deve averlo fatto arredare a nuovo da capo a piedi, e da maestri artigiani! Guardate la qualità dei legni… oh, siete così gentile a permettermi di venire con voi! Non avrò mai un’altra occasione… guardate i fiori… come sono disposti meravigliosamente… e guardate in giardino…”
Blackthorne era molto contento e dispiaciuto insieme della presenza di una cameriera e dello shoji aperto, perché anche in una Casa da Tè sarebbe stato inammissibile e fatale per Mariko trovarsi sola con lui.
“Tu sei bellissima,” le disse in latino.
“Anche tu.” Gli occhi di lei brillavano. “Sono molto orgogliosa di te, ammiraglio. E anche Fujiko… era così piena di orgoglio che non poteva quasi restare sdraiata!”
“Le sue scottature sembrano gravi.”
“Non temere. I medici sono molto esperti e lei è giovane, robusta e fiduciosa. Stanotte devi cancellare tutto dalla tua mente. Niente più domande su Ishido o Ikawa Jikkyu, né battaglie o parole in codice o feudi e navi. Stanotte niente preoccupazioni… per te, stanotte, soltanto magie e incanti.”
“Sei tu per me la magia.”
Lei agitò il ventaglio, versò il vino e non parlò. Blackthorne la osservò, poi sorrisero insieme. “Poiché ci sono altri qui e le lingue parlano, dobbiamo essere sempre cauti. Ma, credi, sono così felice per te!” esclamò.
“E qual era l’altra ragione? Hai detto che c’era un’altra ragione per cui volevi che venissi qui stanotte.”
“Ah sì, l’altra ragione. ” Un’onda del suo profumo arrivò fino a lui. “È una nostra antica usanza, Anjin-san. Quando una dama, appartenente a un altro, si interessa a un uomo e vuole dargli qualcosa di importante che le è proibito, fa in modo che un’altra prenda il suo posto… è un dono… e cerca la cortigiana più perfetta che si può permettere.”
“Hai detto ‘si interessa’ a un altro. Intendi dire ‘ama’?”
“Sì. Ma solo per stanotte.”
“Perché stanotte, Mariko-san, perché non prima?”
“Stanotte è una notte incantata e il kami sarà con noi. Io ti desidero.”
In quel momento Kiku apparve sulla soglia, e lui esclamò: “Alleluia!” E gli venne dato il benvenuto e gli fu servito il sakè.
“Come posso dire che questa signora è particolarmente deliziosa?”
Mariko glielo spiegò e lui ripeté le parole. Kiku accettò il complimento ridendo e lo ricambiò.
“Kiku-san chiede se vuoi che danzi o canti per te.”
“Tu cosa preferisci?”
“Kiku-san è qui per il tuo piacere, samurai, non per il mio.”
“E tu? Anche tu sei qui per il mio piacere?”
“Sì, in un certo senso…”
“Allora pregala di cantare.”
Kiku batté lievemente le mani e Ako portò il samisen. Era uno strumento lungo, simile a una chitarra, con tre corde. Ako lo mise in posizione sul pavimento e porse a Kiku il plettro d’avorio.
“Nobile Signora, vi prego, dite al nostro onorato ospite che canterò La Canzone della Libellula,” annunciò Kiku.
“Kiku-san, sarei onorata se stasera, qui, voi mi chiamaste Mariko-san.”
“Scusatemi, ma non posso essere tanto scortese.”
“Ve ne prego.”
“Se vi fa piacere…” Il suo sorriso era dolcissimo. “Grazie, Mariko-sama.”
Sfiorò una corda. Dal momento in cui gli ospiti erano entrati nel suo mondo, era stata tesa, con tutti i sensi all’erta. Li aveva osservati di nascosto mentre si trovavano con Gyoko e poi da soli, alla ricerca del modo di compiacere lui e impressionare bene la signora. Non era preparata a quanto presto le apparve chiaro: che l’Anjin-san desiderava Mariko-san, anche se, come ogni persona civile, lo nascondeva il meglio possibile. Non era una cosa di per sé sorprendente, perché lei era bellissima e raffinata e, soprattutto, era l’unica in grado di parlare con lui. Ma quello che meravigliò Kiku fu il capire che anche Mariko-san desiderava lui, forse con maggiore intensità. Il barbaro samurai e la Nobile samurai, figlia dell’assassino Akechi Jinsai, moglie del Nobile Buntaro! Povero uomo, povera donna. Che cosa triste! Destinata a finire certo in tragedia.
Pensando alla tristezza, all’ingiustizia della vita, Kiku ebbe voglia di piangere. Come vorrei essere nata samurai e non contadina, così potrei diventare concubina di Omi-sama, invece che un suo trastullo passeggero. Darei volentieri in cambio la mia speranza di rinascere.
Metti via la tristezza e dai piacere. È questo il tuo dovere.
Le sue dita toccarono un’altra corda, con un suono pieno di malinconia. Notò che Mariko era affascinata dalla musica, ma l’Anjin-san no. Perché? Kiku era certa che non dipendeva da come lei suonava, perché possedeva una bravura data a pochi. Per provare, toccò la terza corda. Non c’è dubbio, si disse, non gli piace. Lasciò svanire il suono e cominciò a cantare, senza accompagnamento: la voce che si alzava secondo il ritmo e i suoi improvvisi mutamenti, una capacità che si acquistava in anni di esercizio. Di nuovo Mariko apparve incantata, ma lui no. Kiku si interruppe. “Questa non è notte per la musica e il canto,” annunciò. “È per la felicità. Mariko-san, come posso dire: ‘Prego, scusatemi’ nella sua lingua?”
“Per favor.”
“Per favor, Anjin-san, stanotte dobbiamo solo ridere, ne?”
“Domo, Kiku-san, hai.”
“È difficile, ma non impossibile intrattenervi senza parole. Ah, so come!” Balzò in piedi e cominciò a mimare dei personaggi: un daimyo, un kaga, un pescatore, un venditore ambulante, un samurai pomposo, perfino un vecchio contadino che raccoglieva un secchio pesante… e li imitò così bene che Mariko e Blackthorne scoppiarono a ridere e a battere le mani. Poi lei si mise a imitare maliziosamente un uomo che orinava, tenendosi il membro e non trovandolo, afferrandolo, cercandolo perché troppo piccolo o crollando per il troppo peso, e lo imitò in tutte le età, da quando era bambino che piangeva e bagnava il letto, a quando da giovane aveva fretta o doveva contenersi e così via fino al vecchio che mugolava di piacere semplicemente perché gli riusciva di orinare.
Si inchinò ai loro applausi e sorseggiò il cha, detergendosi delicatamente il velo di sudore sulla fronte. Vide che Blackthorne muoveva le spalle e la schiena. “Por favor, senhor!” esclamò e corse a inginocchiarglisi accanto per massaggiargli il collo. Le sue dita esperte trovarono subito il punto giusto.
“Oh, Dio… proprio così… hai!"
Lei continuò. “Presto starete meglio.”
“Questo ottimo, Kiku-san. Suwo sembra quasi male!”
“Ah, grazie! Mariko-san, le spalle dell’Anjin-san sono così larghe… vorreste aiutarmi? Basterebbe che vi occupaste della sinistra mentre io massaggio la destra… Scusate, ma le mie mani non sono abbastanza forti.”
Mariko si lasciò convincere e fece come richiesto. Kiku nascose un sorriso nel sentire Blackthorne tendersi al tocco di Mariko e fu contenta della trovata improvvisa. Adesso il cliente era contento grazie alla sua abilità ed esperienza e poteva venir manovrato nel modo giusto.
“Va meglio così, Anjin-san?”
“Bene, molto bene, grazie.”
“Oh, è un piacere per me. Ma la signora è tanto più brava di me.” Kiku avvertiva l’attrazione reciproca dei due, per quanto cercassero di nasconderla. “Qualcosa da mangiare?” E subito arrivarono i piatti.
“Per voi, Anjin-san,” disse, con orgoglio. Il vassoio conteneva un piccolo fagiano, tagliato a pezzi, arrostito alla brace, con salsa di soia.
“È delizioso, delizioso,” commentò lui. E lo era.
“Mariko-san?”
“Grazie.” Mariko ne prese un pezzetto, ma non lo mangiò.
Kiku ne sollevò un boccone con i bastoncini e masticò con piacere. “È buono, ne?”
“No, Kiku-san: è molto buono. Molto!”
“Prego, Anjin-san, ancora un po’…” Ne prese un secondo boccone anche lei. “Ce n’è tanto.”
“Grazie. Com’è fatto… questo?” Indicò la salsa scura.
Mariko tradusse per lei. “Dice che è zucchero e soia, con un po’ di zenzero. Chiede se nel vostro paese ci sono zucchero e soia.”
“Zucchero di bietola, sì. Soia, no, Kiku-san.”
“Oh, come si può vivere senza soia?” Kiku prese un’aria solenne. “Qui abbiamo lo zucchero da mille anni. Ce lo portò dalla Cina il monaco buddista Ganjin. Tutte le nostre cose migliori vengono dalla Cina, Anjin-san. Il cha è arrivato circa cinquecento anni fa. Il monaco buddista Eisai ne portò alcuni semi e li piantò nella provincia del Chikuzen, dove sono nata. Fu lui a portarci anche il buddismo Zen.”
Mariko tradusse con altrettanta solennità, poi Kiku scoppiò in una risata. “Scusate, Mariko-sama, ma tutti e due avete un’aria così seria! Io fingevo soltanto di essere seria a proposito del cha… come se importasse! Era solo per divertirvi.”
Guardarono Blackthorne finire il fagiano. “Buono,” ripeté lui. “Molto buono. Ringraziate Gyoko-san, vi prego.”
“Sarà onorata.” Kiku versò altro sakè a entrambi, poi, sapendo che era il momento giusto, con espressione innocente, chiese: “Posso domandare che cosa è avvenuto oggi durante il terremoto? Ho sentito che l’Anjin-san ha salvato la vita di Toranaga-sama. Considererei un grande onore udire il racconto dai protagonisti.”
Si mise a sedere, paziente, lasciando che Blackthorne e Mariko si godessero il racconto, con esclamazioni ammirate nei punti giusti, senza interrompere, da ascoltatrice perfetta. E poi andò in estasi per il loro coraggio e per la fortuna che aveva assistito Toranaga. Conversarono un poco, quindi Blackthorne si alzò e la cameriera fu immediatamente incaricata di mostrargli la strada.
Fu Mariko a rompere il silenzio. “Non avevate mai mangiato carne fino a oggi, Kiku-san?”
“È mio dovere fare qualunque cosa possa dargli piacere, per un poco, ne?”
“Non avevo mai saputo a quale perfezione potesse arrivare una signora. Ora capisco perché dovranno sempre esistere un Mondo Galleggiante, un Mondo dei Salici, e capisco quanto siano fortunati gli uomini e quanto io sia inesperta.”
“Oh, non era questa la mia intenzione, Mariko-sama, assolutamente! Né è mai nostra intenzione. Siamo qui solo per dare gioia per un attimo.”
“Certo. Volevo dire che vi ammiro moltissimo. Vorrei che fossimo sorelle.”
Kiku si inchinò. “Non sarei degna di tanto onore.” Passò tra loro un’ondata di calda cordialità. Poi Kiku aggiunse: “Questo è un luogo molto segreto e tutti sono persone di fiducia. Non ci sono occhi indiscreti. La sala del piacere in giardino è molto buia, se si vuole il buio. E il buio racchiude tutti i segreti.”
“L’unico modo di conservare un segreto è trovarsi soli a sussurrarlo dentro un pozzo a mezzogiorno, ne?” rispose con leggerezza Mariko, prendendo tempo per decidere.
“Tra sorelle non c’è bisogno di pozzi. Ho lasciato libera la cameriera fino all’alba. La nostra stanza del piacere è un luogo riservatissimo.”
“Là dovete essere sola con lui.”
“Posso sempre essere sola, sempre.”
“Siete molto buona con me, Kiku-chan, molto premurosa.”
“È una notte magica, ne? E molto particolare.”
“Le notti magiche finiscono troppo presto, sorellina. Sono per i bambini. E io non sono una bambina.”
“Chi può sapere che cosa accade in una notte magica? L’oscurità racchiude tutto.”
Mariko scosse il capo, con tristezza, e la accarezzò gentilmente. “Sì. Ma per lui, se racchiudesse voi, sarebbe tutto.”
Kiku lasciò cadere l’argomento. “Io rappresento un dono per l’Anjin- san? Non mi ha chiesto lui stesso?”
“Se vi avesse visto, come avrebbe potuto non cercarvi? Sinceramente, è stato lieto che lo abbiate accolto. Adesso lo capisco.”
“Ma una volta mi aveva visto, Mariko-san. Mi trovavo con Omi-san, mentre lui si recava alla nave per il primo viaggio a Osaka.”
“Oh, ma l’Anjin-san ha detto di aver visto Midori con Omi-san. Eravate voi? Vicino al palanchino?”
“Sì, nella piazza. Sì, ero io, Mariko-san, non la moglie di Omi-sama. Lui mi disse: ‘Konnichi wa.’ Ma naturalmente non lo ricorda. Come potrebbe? È avvenuto in una vita precedente, ne?”
“Oh, ma la ricordava, la bellissima fanciulla con il parasole verde! Ha detto che era la creatura più bella che avesse mai visto. E me ne ha parlato tante volte.” Mariko la osservò più attentamente. “In realtà, Kiku-san, si poteva benissimo scambiarvi per lei in una giornata come quella, sotto il parasole.”
Kiku versò del sakè e Mariko fu incantata dalla sua spontanea eleganza. “Il mio parasole era verdemare,” disse, molto soddisfatta che lui la ricordasse.
“Che aspetto aveva allora l’Anjin-san? Molto diverso? La Notte degli Urli dev’essere stata terribile.”
“Sì,infatti. E lui sembrava più anziano, con la pelle del viso tirata… Ma siamo diventate troppo serie, sorella maggiore. Ah, non immaginate neppure come sia onorata di potervi chiamare così! Questa è una notte solo di gioia. Niente più serietà, ne?”
“D’accordo. Scusatemi.”
“E ora, veniamo a cose più concrete. Volete darmi qualche consiglio?”
“Certo,” rispose Mariko, con tono altrettanto amichevole.
“Nelle faccende del guanciale la gente del suo paese, che voi sappiate, ha delle preferenze per determinati strumenti o posizioni? Scusate se ve lo chiedo, ma forse potete guidarmi.”
Ci volle tutta la capacità di contegno di Mariko per controllare il suo stupore. “Che io sappia, no. L’Anjin-san è molto sensibile a tutto quanto riguarda il guanciale.”
“Si potrebbe interrogarlo in modo indiretto?”
“Non credo che si possano chiedere queste cose a uno straniero. Certo non all’Anjin-san. E… scusate, ma io non so che cosa siano… gli strumenti… salvo, naturalmente, un harigata.”
“Ah!” L’intuizione aiutò Kiku, che chiese con estrema semplicità: “Vi piacerebbe vederli? Posso mostrarveli, magari in presenza di lui, così non dovrei domandargli niente. Vedremmo le sue reazioni.”
Mariko esitò, trascinata dalla curiosità. “Se si potesse farlo con un certo umorismo…”
Sentirono i passi di Blackthorne. Kiku gli si inchinò e versò il vino. Mariko bevve il suo, lieta di non essere più sola con Kiku, che la metteva a disagio per la capacità di leggere i suoi pensieri.
Chiacchierarono e si dedicarono a giochi leggeri, poi Kiku, quando ritenne venuto il momento opportuno, li invitò a visitare il giardino e le stanze del piacere.
Uscirono nella notte. Alla luce delle fiaccole il giardino scintillava di gocce ferme sui rami. Il sentiero girava intorno a un piccolo stagno e a una cascatella gorgogliante. In fondo sorgeva, isolata in un boschetto di bambù, la piccola casa. Tutto nelle due stanze era costoso e di ottimo gusto. I legni migliori, i migliori tappeti, i migliori tatami, i migliori cuscini di seta, le tappezzerie più eleganti nel takonama.
“È graziosissima, Kiku-san,” commentò Mariko.
“La Casa da Tè a Mishima è molto più bella, Mariko-sama. Mettetevi comodo, prego, Anjin-san! Per favor, vi piace?”
“Sì, moltissimo.”
Kiku si accorse che egli non pensava che a Mariko, per quanto godesse la notte e il sakè. Provò la tentazione di alzarsi, attraversare la stanza, uscire sulla veranda e andarsene. Ma sapeva che, facendolo, avrebbe violato la legge. E più ancora sapeva che sarebbe stato un gesto da irresponsabile perché, in cuor suo, era conscia che Mariko era pronta e quasi ormai in grado di non soffrire.
No, pensò, non devo spingerla a un gesto così tragico, per quanto utile si potrebbe rivelare per il mio avvenire. Io l’ho proposto, ma Mariko-san di sua volontà ha rifiutato. Saggiamente. Sono amanti? Non lo so. È il loro karma.
Si chinò in avanti e rise con aria da cospiratrice. “Sentite, sorella maggiore, dite all’Anjin-san che qui ci sono degli strumenti per il guanciale. Ne hanno nel loro paese?”
“Dice di no, Kiku-san, e non ne ha mai sentito parlare.”
“Oh! Lo divertirebbe vederli? Sono qui nella stanza vicina, potrei prenderli….sono molto eccitanti.”
“Volete vederli, Anjin-san? Sostiene che sono molto divertenti.” Mariko cambiò volutamente il termine.
“Perché no?” rispose Blackthorne, con la gola serrata, pervaso in tutto l’essere dalla consapevolezza del loro profumo e della loro femminilità. “Voi… voi usate degli strumenti?”
“Kiku-san dice che a volte li usa. È nostro costume cercare sempre di prolungare il momento delle Nuvole e della Pioggia, perché siamo convinti che in quel breve momento noi, mortali, siamo tutt’uno con gli dei.” Mariko lo osservava. “Perciò è tanto importante farlo durare il più a lungo possibile. Quasi un dovere, ne?”
“Sì.”
“Lei pensa che sia fondamentale essere tutt’uno con gli dei. È una fede bella ed è possibile crederle, non è vero? Il momento in cui si aprono le Nuvole è ultraterreno e divino, perciò ogni mezzo che permetta di stare più a lungo con gli dei diventa un dovere, ne?”
“Davvero. Sì.”
“Vorreste del sakè, Anjin-san?”
“Grazie.”
Mariko agitò il ventaglio. “Tutto questo parlare di Nuvole e aprirsi delle Nuvole e Pioggia e Fuoco e Torrente, come diciamo a volte, è molto giapponese, Anjin-san. È molto importante essere giapponesi nelle questioni del guanciale, ne?”
Con suo sollievo Blackthorne sorrise e si inchinò. “Molto. Io sono giapponese, Mariko-san. Honto!”
Kiku tornò con la cassetta foderata di seta. L’aprì e ne estrasse un pene a grandezza naturale, d’avorio, e un altro in materiale più morbido, elastico. che Blackthorne non aveva mai visto. Li mise da parte con indifferenza.
“Questi sono comuni harigata, Anjin-san,” disse Mariko, con lo sguardo fisso sugli altri oggetti, e senza riflettere.
“Madre di Dio!” esclamò Blackthorne, non trovando altre parole.
“Ma non sono che harigata, Anjin-san. Le vostre donne li hanno senza dubbio!”
“Certo che no! No, non ne hanno!” ribatté lui, cercando di ricordarsi che dovevano essere cose divertenti.
Mariko non riusciva a crederci. Lo spiegò a Kiku, che ne rimase altrettanto sorpresa e le rispose lungamente. Mariko acconsentiva, poi spiegò: “Kiku ritiene ciò molto strano. E sono d’accordo, Anjin-san. Qui ogni ragazza ne fa uso comunemente, senza nemmeno pensarci. Altrimenti come potrebbe stare bene in salute, senza avere la libertà che ha l’uomo? Siete proprio sicuro, Anjin-san? Non scherzate?”
“No. Sono… ehm, sicuro, che le nostre donne non li hanno. Sarebbe… Gesù! sarebbe… insomma, non li hanno…”
“Dev’essere difficile vivere senza harigata. Da noi c’è un proverbio: un harigata è come un uomo, ma in realtà è meglio perché ha il meglio di un uomo, senza le sue parti peggiori. Ed è meglio anche perché non tutti gli uomini… sono di misura sufficiente, come gli harigata. E sono devoti, Anjin-san. e non si stancano mai, come fanno gli uomini. E possono essere sia ruvidi che lisci… Anjin-san, avete promesso, ricordate? Con gioia!”
“Avete ragione,” ammise Blackthorne con un sogghigno. “Perdio, avete ragione! Scusatemi, vi prego.” Prese in mano un harigata e lo esaminò da vicino, fischiettando fra i denti. Poi lo sollevò. “Come dicevate, maestra-san? Può essere ruvido?”
“Sì,” rispose lei allegramente. “Ruvido o liscio, come lo volete, e inoltre gli harigata durano molto più dell’uomo e non si consumano mai!”
“Oh, questo è un bel vantaggio!”
“Certo. Non dimenticate che non tutte le donne hanno la fortuna di appartenere a un uomo virile. Senza uno di questi per soddisfare i suoi desideri e i suoi normali bisogni, una donna comune si ritrova il corpo avvelenato, cosa che poi distrugge la sua armonia e fa del male a lei e a chi le sta intorno. Le donne non dispongono della libertà che hanno gli uomini — in grado maggiore o minore. Il mondo appartiene agli uomini, ed è giusto, ne?”
“Sì,” sorrise lui, “e no.”
“Mi fanno pietà le vostre donne, scusate. Devono essere uguali a noi. Quando andrete a casa dovete istruirle, Anjin-san. E ditelo alla vostra regina. Lei capirà. Noi siamo molto sensibili in materia di. guanciale.”
“Ne parlerò a Sua Maestà,” rispose Blackthorne, deponendo l’harìgata con finta riluttanza. “E poi che cosa viene?”
Kiku esibì un filo di seta robusto con quattro grosse pallottole di giada bianca. Mariko ascoltò attenta la spiegazione di Kiku, spalancando sempre più gli occhi e agitando il ventaglio. Alla fine abbassò lo sguardo pieno di meraviglia sul filo. “Ah so desu! Bene, Anjin-san,” cominciò con decisione, “queste si chiamano konomi-shinju, Perle del Piacere, e può usarle sia il senhor che la senhora. Sakè, Anjin-san?”
“Grazie.”
“Sì. Può usarle sia l’uomo che la donna: le perle vengono poste nella cavità anale e, al momento delle Nuvole e della Pioggia, vengono estratte una per una, lentamente.”
“Come?”
Mariko depose le perle sul cuscino davanti a lui. “Kiku-san dice che è molto importante scegliere il momento giusto e che bisogna sempre usare per comodità un… non so come lo chiamiate, ah, sì, una pomata oleosa.” Alzò lo sguardo su di lui e aggiunse: “Dice anche che si trovano di varie dimensioni e che, usate nel modo giusto, possono produrre un risultato davvero notevole.”
Blackthorne rise a crepapelle ed esclamò in inglese: “Ci scommetto un barile di dobloni contro una merda di porco che è vero!”
“Scusate, non capisco, Anjin-san.”
Quando riprese fiato, glielo ripeté in portoghese, poi raccolse il filo di perle e le esaminò, sempre fischiettando senza accorgersene. “Perle del Piacere, eh?” le depose. “Che altro c’è?”
Kiku era compiaciuta del successo del suo esperimento. Esibì un himitsu-kawa, la Pelle Segreta. “È un anello del piacere, Anjin-san, che l’uomo si mette per tenerlo eretto quando è svuotato. Con questo, dice Kiku- san, può soddisfare la donna anche quando il suo desiderio si è calmato.” Mariko lo osservava di nuovo, intenta.
“Giustissimo,” rise Blackthorne. “Che il buon Dio mi protegga da entrambe le cose, soprattutto dal non dare soddisfazione. Per favore, chiedete a Kiku-san di comprarmene tre… tanto per essere sicuro!”
Poi arrivarono gli hiro-gumbi, sottili steli disseccati di una -certa pianta che, bagnati e avvolti intorno all’Impareggiabile Parte, la facevano gonfiare e apparire robusta. Poi ogni sorta di pomate — per eccitare o per aumentare l’eccitazione — e di unguenti — per inumidire, per gonfiare, per rinforzare.
“Mai per indebolire?” chiese lui, suscitando nuova ilarità.
“Oh, no, sarebbe assurdo!”
Quindi Kiku estrasse altri anelli per l’uomo, d’avorio o elastici o di seta con nodi o nastri e sospensioni di ogni tipo, fatti d’avorio o di crini di cavallo, di semi e addirittura con dei campanellini.
“Kiku-san sostiene che quasi tutti questi oggetti renderebbero sfrenata anche la donna più timida.”
Buon Dio, come vorrei saperti timida! pensò lui. “Ma sono cose che mette solo l’uomo, ne?” domandò.
“Più la signora è eccitata, più l’uomo gode.” rispose Mariko. “Naturalmente è dovere dell’uomo anche dare piacere alla donna e con uno di questi se lui è, per sfortuna, poco dotato o debole o vecchio o stanco, può soddisfarla ugualmente con onore.”
“Voi li avete usati, Mariko-san?”
“No, Anjin-san, non ne avevo mai visti prima. Sono… Alle mogli non si chiede di dare piacere, ma di generare figli e curare la casa e i beni.”
“Le mogli non si aspettano di ricevere piacere?”
“No. Sarebbe insolito. Tutto questo è per le signore del Mondo dei Salici.” Mariko si sventolò e spiegò a Kiku quanto si erano detti. “Chiede se anche nel vostro mondo è lo stesso. Se è dovere dell’uomo dare piacere alla donna come il contrario.”
“Rispondetele, vi prego, che purtroppo non è affatto lo stesso.”
“Dice che è un gran male. Sakè?”
“Spiegatele che a noi si insegna a vergognarci del nostro corpo e del guanciale e della nudità… e tante altre stupidaggini. Solo vivendo qui me ne sono reso conto. Adesso che sono più civile, l’ho capito.”
Mariko tradusse e lui scolò il vino. La coppa fu subito riempita da Kiku, che teneva con la mano sinistra la lunga manica destra, per non sfiorare il tavolino laccato.
“Kiku-san dice che è molto onorata di sentirvi dire così. E anch’io, Anjin-san. Mi fate sentire molto orgogliosa. Sono stata molto orgogliosa di voi, oggi. Ma certo le cose nel vostro mondo non possono essere brutte come raccontate voi.”
“Peggio. È difficile da capire, figuriamoci da spiegare, se non ci siete mai stata o non ci siete cresciuta. Vedete… in verità…” Blackthorne vide che lo scrutavano, aspettando pazienti, così linde e aggraziate, multicolori, nella stanza così sgombra e accogliente e tranquilla. E a un tratto la sua mente cominciò a confrontare quell’interno con il caldo, cordiale cattivo odore della sua casa inglese, col pavimento sporco, il fumo che dal camino aperto di mattoni saliva fino al buco nel tetto… in tutto il suo villaggio c’erano ancora solo tre focolari nuovi con i camini, e li avevano le famiglie molto ricche. Due piccole stanze da letto e un’unica sala comune, spaziosa e disordinata, per mangiare, cucinare, vivere e parlare. Lui era solito entrare in casa con gli stivali da marinaio, d’estate e d’inverno, e nessuno notava il fango né lo sporco. Si sedeva su una sedia o una panca, presso la tavola di quercia, ingombra come tutta la stanza, con intorno tre o quattro cani e due bambini — suo figlio e la figlia del fratello morto — che si arrampicavano e cadevano e giocavano nella confusione. E intanto Felicity cucinava, con il lungo vestito che strisciava nella polvere e nello sporco, e la servetta ossuta sbuffava e si cacciava tra i piedi e Mary, la vedova di Arthur, tossiva nella stanza accanto, sempre vicina alla morte, ma senza mai morire.
Felicity. Cara Felicity. Il bagno forse una volta al mese, e solo d’estate, molto in privato, nella vasca di rame… però si lavava faccia, mani e piedi ogni giorno, stando poi sempre nascosta fino al collo e ai polsi, avvolta in strati di lana pesante per tutto l’anno… panni che non si lavavano per mesi… Felicity che puzzava come tutti, con i pidocchi come tutti, e si grattava come tutti.
E le altre stupide convinzioni e superstizioni… che la pulizia poteva uccidere, e le finestre aperte potevano uccidere, e l’acqua poteva uccidere o favorire l’emorragia o portare la peste, che pidocchi e pulci e sporco e malattia erano la punizione di Dio per il male che si compiva sulla terra.
Pulci, mosche e sporco, ma ogni giorno in chiesa e la domenica due volte, per ascoltare il Verbo: niente conta, se non Dio e la salvezza.
Nati nel peccato, vissuti nella vergogna, figli del demonio, condannati all’inferno, che pregano per la salvezza e il perdono… Felicity, così pia e timorosa di Dio e del diavolo, disperatamente desiderosa del paradiso! E poi si andava a casa per il pranzo: un pezzo di carne strappato dallo spiedo. Se ne cadeva un boccone per terra, lo si raccoglieva per mangiarlo, quando non arrivavano prima i cani, a cui comunque si gettavano gli ossi. Rimasugli sul pavimento, avanzi gettati per terra, che a volte venivano spazzati via e a volte buttati in strada. Quasi sempre si dormiva con i vestiti addosso e ci si grattava con piacere, come i cani, ci si grattava sempre. Vecchi così presto e brutti così presto e così presto morti. Felicity. Adesso, a ventinove anni, già grigia, con pochi denti, invecchiata, rugosa e prosciugata.
“Tanto prima del tempo, povera creatura. Così inutilmente, mio Dio!” gridò con rabbia. “Che maledetto schifoso spreco!”
“Nan desu ka?” esclamarono le due donne insieme, non più allegre.
“Scusatemi… è solo che… voi siete tutti così puliti e noi sporchi ed è uno spreco tale… per milioni e milioni di uomini e donne, anche per me, tutta la vita… e solo perché non sapevo! Gesù, che spreco! Sono i preti, sono loro i colti e gli educatori, i preti padroni delle scuole, che insegnano tutto, sempre in nome di Dio, sudiciume in nome di Dio… Questa è la verità!”
“Sì, certo,” mormorò Mariko, commossa dal dolore di lui. “Vi prego, non angosciatevi adesso, Anjin-san. Lasciate la tristezza al domani…”
Kiku sorrideva, ma era furiosa con se stessa. Dovevi stare più attenta, si diceva. Stupida stupida stupida! Mariko-san ti aveva avvertita! Adesso hai lasciato che la serata si sciupasse e la magia se s’è andata!
Era vero: la pesante sensualità, quasi tangibile, che li aveva presi tutti, era scomparsa. Ma forse è meglio così, pensò. Per lo meno Mariko-san e l’Anjin-san sono protetti per un’altra notte. Povero uomo, povera donna! Li osservò parlare, poi avvertì in entrambi un cambiamento di tono.
“Adesso devo lasciarti,” stava dicendo Mariko in latino.
“Andiamocene insieme.”
“Ti prego di restare. Per l’onore tuo e di lei. E il mio, Anjin-san.”
“Non voglio questo tuo dono,” rispose lui. “Voglio te.”
“Io sono tua, credilo, Anjin-san. Rimani, ti prego, e sappi che stanotte io sono tua.”
Lui non insisté più.
Quando Mariko si fu allontanata, Blackthorne si sdraiò con le mani sotto la testa, contemplando la notte fuori dalla finestra. La pioggia batteva sulle tegole, il vento soffiava dolcemente dal mare.
Kiku stava in ginocchio davanti a lui, immobile. Le sarebbe piaciuto stendersi a sua volta, perché sentiva le gambe intorpidite, ma non voleva disturbare l’umore di lui neppure col minimo movimento. Non sei stanca, le gambe non ti dolgono, si ripeteva. Ascolta la pioggia e pensa a cose belle. A Omi-san e alla Casa da Tè di Mishima, e che sei viva e il terremoto non è stato che uno dei soliti terremoti. Pensa a Toranaga-sama e al prezzo assurdamente alto che Gyoko-san ha avuto il coraggio di chiedere per il tuo contratto. L’indovino aveva ragione: la tua fortuna la renderà ricca oltre o- gni speranza. E se questa parte è vera, perché non il resto? Che un giorno sposerai un samurai che onori, e ne avrai un figlio, che vivrai sino a tarda età nella sua casa, ricca e rispettata, e che, miracolo dei miracoli, tuo figlio raggiungerà lo stesso grado di tuo marito — samurai — e così i suoi figli.
Kiku s’illuminò alla visione di quel meraviglioso avvenire incredibile. Dopo un certo tempo, Blackthorne si stirò, si alzò e aprì lo shoji della stanza vicina. La guardò e sorrise.
“Nan desu ka, Anjin-san?”
Egli si stupì, non vedendo la solita cameriera accanto al letto pronto. Lui e Kiku erano soli in quella piccola casa deliziosa.
Entrò nella stanza da letto e cominciò a togliersi il chimono. La ragazza corse ad aiutarlo. Blackthorne si spogliò del tutto, e mise il leggero chimono di seta che lei gli porgeva. Kiku gli aprì la zanzariera e lui si distese. Poi anche Kiku si cambiò. La vide togliersi l'obi, il primo chimono e poi quello verde pallido, orlato di scarlatto e infine la sottoveste. Indossò il chimono da notte color pesca, poi si tolse la parrucca complicata e sciolse i capelli, neri e lunghissimi.
Kiku si inginocchiò accanto alla zanzariera. “Dozo, Anjin-san?”
“Domo,” rispose.
“Domo arigato goziemashita,” sussurrò lei. Scivolò sotto la zanzariera e si distese accanto a lui. Le candele e le lampade a olio brillavano ed egli fu contento di tanta luce, perché la ragazza era davvero splendida. La sua angoscia era scomparsa, anche se il dolore era rimasto. Non ho desiderio di te, Kiku-san, pensò. Nemmeno se tu fossi Mariko ora ti desidererei. Nemmeno se tu fossi la più bella donna mai vista, anche più affascinante di Midori- san, che mi era sembrata più bella di una dea. Non ti desidero. Forse più tardi, ma adesso no, scusami.
Kiku allungòuna mano e lo sfiorò. “Dozo?”
“Iyé,” rispose lui con dolcezza. Le tenne stretta la mano e le passò un braccio sotto le spalle e lei, obbediente, si rannicchiò contro di lui, comprendendolo subito. Il suo profumo si mescolò alla fragranza delle lenzuola e delle coperte. Così pulito, pensò Blackthorne, tutto così incredibilmente pulito!
Che cosa aveva detto Rodrigues? “Il Giappone è il paradiso in terra, ingeles, se sai guardare nel modo giusto.” Oppure: “Questo è il paradiso, ingeles.” Non ricordo. So soltanto che il paradiso non è là, oltre il mare, dove credevo che fosse. Non è là. Il paradiso in terra è qui.