30
“Sei sicuro che tutto sia pronto, Mura?”
“Sì, Omi-san, certo. Almeno, così mi pare. Abbiamo seguito esattamente i vostri ordini, e quelli di Igurashi-san.”
“Niente deve andare male, o al tramonto ci sarà un altro capo nel villaggio,” disse Igurashi, in tono aspro. Aveva l’unico occhio arrossato per la mancanza di sonno. Era giunto il giorno prima da Yedo con un contingente di samurai e istruzioni precise.
Mura non rispose, limitandosi a chinare la testa con deferenza, tenendo lo sguardo fisso al suolo.
Erano sulla spiaggia, presso la banchina. Dietro di loro si allineavano file di paesani in ginocchio, atterriti ed esausti — c’erano tutti: uomini, donne e bambini, salvo gli infermi — tutti in attesa della galea. E tutti con gli abiti migliori. Le facce ben lustre, l’intero villaggio spazzato e lucente, con l’aria della festa, come per l’anno nuovo quando, secondo la tradizione, tutto l’impero veniva pulito a fondo. Le barche da pesca erano minuziosamente ancorate in fila, con le reti ben piegate e le funi arrotolate. Perfino la spiaggia, lungo la baia, era stata rastrellata.
“Niente andrà male, Igurashi-san,” mormorò Omi. In quell’ultima settimana, dopo che gli ordini di Yabu erano arrivati da Osaka con un piccione di Toranaga, aveva dormito poco. Il villaggio e ogni uomo abile nel giro di venti ri erano stati mobilitati per preparare Anjiro ad accogliere i samurai e Yabu. E adesso Igurashi gli aveva rivelato, solo a lui, il grande segreto: che con suo zio sarebbe arrivato il grande daimyo Toranaga, sfuggito alla trappola di Ishido, e Omi si sentiva più che soddisfatto di aver speso tanto denaro. “Non dovete preoccuparvi, Igurashi-san. Questo è il mio feudo e la responsabilità è mia.”
“Sono d’accordo. È vostra.” Igurashi allontanò Mura con un gesto di disprezzo, poi aggiunse, calmo: “Voi siete responsabile ma, non vi offendete, voi non avete mai visto il nostro padrone quando qualcosa non va bene. Se abbiamo dimenticato un’inezia, o se questi pidocchiosi non hanno fatto quello che dovevano, il nostro padrone ridurrà il vostro feudo e quelli a nord e a sud in mucchi di concime prima di domani sera.” Se ne andò a riprendere il suo posto, accanto ai suoi uomini.
Quella mattina erano giunte le ultime compagnie di samurai da Mishima, la capitale di Yabu, a nord. Anch’esse, ora, stavano ammassate in bell’ordine sulla spiaggia, nella piazza e sulla collina, con le bandiere ondeggianti alla minima brezza e le lance scintillanti nel sole. Tremila samurai, l’élite dell’esercito di Yabu. Cinquecento a cavallo.
Omi non aveva paura. Aveva fatto tutto il possibile, controllando di persona tutto quanto era controllabile. Se qualcosa fosse andato male, sarebbe stato il karma. Ma niente andrà male, si disse, in preda all’eccitazione. Si erano spesi nei preparativi cinquecento koku, più della sua intera rendita annua, prima che Yabu aumentasse il suo feudo. La cifra lo aveva spaventato, ma la moglie Midori aveva dichiarato che dovevano spendere senza timore, perché era un prezzo bassissimo di fronte all’onore che gli faceva il nobile Yabu. “E con Toranaga-sama qui… chi sa mai quali occasioni potrebbero presentarsi?” aveva mormorato.
Come ha ragione! pensò Omi con orgoglio.
Controllò di nuovo con un’occhiata la riva e la piazza: tutto appariva perfetto. Sua madre e Midori aspettavano sotto il tendone innalzato per accogliere Yabu e il suo ospite, Toranaga. Omi notò che sua madre stava parlando a tutto spiano e si augurò che quella continua tortura venisse risparmiata a Midori. Sistemò una piega del suo già impeccabile chimono, assestò le spade e guardò il mare.
“Ascolta, Mura-san,” sussurrò cautamente Uo, il pescatore. Era uno dei cinque anziani del villaggio, che stavano inginocchiati insieme a Mura davanti a tutti gli altri. “Ho tanta paura che, se pisciassi, piscerei sabbia.” “Allora non pisciare, vecchio mio.” Mura trattenne il sorriso.
Uo era un uomo dalle spalle larghe, simile a una roccia, con mani enormi e il naso rotto, e aveva un’aria sofferente. “Non lo farò, ma credo che mi venga una scoreggia.” Uo era celebre per il suo umorismo, per il suo coraggio e per la quantità di aria che espelleva. L’anno prima c’era stata una gara di scoregge con il villaggio a nord e lui aveva vinto il primo premio assoluto, portando grande onore al paese.
“Eh, forse è meglio di no!” sogghignò Haru, un altro pescatore, basso e rinsecchito. “Uno dei testoni potrebbe ingelosirsi.”
Mura sibilò: “Vi è stato ordinato di non chiamare i samurai con quel nome, finché ce n’è anche uno solo vicino al villaggio.” Oh ko, pensava stanco, spero che non ci siamo dimenticati di niente. Lanciò un’occhiata verso la montagna, alla palizzata di bambù intorno alla fortezza temporanea che avevano eretto con tanta rapidità e tanto sudore. Trecento uomini, a scavare e costruire e trasportare. L’altra casa nuova era stata più facile: si trovava proprio sotto quella di Omi e la poteva vedere: più piccola, ma col tetto di tegole, un giardino e una piccola casa per il bagno. Immagino che ci andrà Omi, per dare la sua a Yabu, pensò Mura.
Tornò a fissare il promontorio, dove la galea doveva comparire da un momento all’altro. Presto Yabu sarebbe sceso a terra e da quel momento sarebbero stati tutti nelle mani degli dei, di tutti i kami, di Dio Padre, del Suo Figlio benedetto e della Madonna benedetta, oh ko!
Madonna, proteggici tu! Sarebbe troppo chiederti di rivolgere il Tuo occhio benefico su questo villaggio di Anjiro? Giusto per i prossimi giorni? Ci occorre un favore speciale per proteggerci dal nostro signore e padrone e io, sì! accenderò cinquanta candele e mio figlio sarà cresciuto nella Vera Fede, promise Mura.
Oggi Mura era molto lieto di essere cristiano; poteva pregare un unico Dio e questo avrebbe aumentato la protezione sul villaggio. Si era fatto cristiano in gioventù perché il suo feudatario si era convertito e gli aveva ordinato di diventare cristiano. E allorché, vent’anni dopo, quel signore era morto combattendo per Toranaga contro il Taikō, Mura era rimasto cristiano per onorarne la memoria. Un buon soldato non ha che un padrone, pensò. Un solo vero padrone.
Ninjin, un tipo dalla faccia tonda e dai denti sporgenti, era particolarmente agitato dalla presenza di tanti samurai. “Mura-san, scusami, ma ciò che hai fatto è pericoloso… terribile, ne? Il piccolo terremoto di stamattina è stato un segno degli dei, un cattivo auspicio. Hai commesso un terribile sbaglio, Mura-san.”
“Quello che è fatto è fatto, Ninjin. Dimenticalo.”
“Come posso? È nella mia cantina e…”
“Una parte è nella tua cantina. Ne ho anch’io una gran quantità,” disse Uo, senza più sorridere.
“Non c’è niente in nessun posto, amici. Niente!” ribatté Mura. “Non esiste niente.” Per suo ordine, durante gli ultimi giorni, trenta koku di riso erano stati rubati all’intendenza dei samurai e ora erano nascosti qua e là nel villaggio, insieme ad altre provviste e arnesi e armi.
“Niente armi!” aveva protestato Uo. “Il riso si, ma non le armi!”
“Sta per scoppiare la guerra.”
“È contro la legge tenere delle armi,” aveva piagnucolato Ninjin.
Mura aveva sbuffato. “È una legge nuova, di appena dodici anni. Prima potevamo tenere tutte le armi che volevamo e non eravamo legati a forza al villaggio. Potevamo andare dove volevamo, essere quello che volevamo. Potevamo essere soldati, contadini, pescatori, mercanti, anche samurai… qualcuno lo ha fatto, sapete che è vero.”
“Sì, ma adesso è diverso, Mura-san, è diverso. Il Taikō l’ha ordinato!” “Presto sarà di nuovo com’era. Andremo di nuovo soldati.”
“Allora aspettiamo,” aveva implorato Ninjin. “Ti prego. Adesso è contro la legge. Se la legge cambierà, è il karma. Ma il Taikō ha fatto la legge: niente armi. Nessuna arma, pena la morte.”
“Aprite gli occhi, tutti quanti! Il Taikō è morto! E ve lo assicuro io, presto Omi-san avrà bisogno di uomini addestrati, e quasi tutti noi siamo stati in guerra, ne? Abbiamo pescato e guerreggiato, ogni cosa a suo tempo. Non è vero?”
“Sì, Mura-san,” aveva ammesso Uo, nonostante la paura. “Prima del Taikō non eravamo legati.”
“Ci prenderanno, per forza,” piangeva Ninjin. “Non avranno pietà. Ci metteranno a bollire come hanno bollito il barbaro.”
“Non parlare del barbaro!”
“Sentite, amici,” aveva ripreso Mura, “non avremo mai più un’occasione simile. È mandata da Dio, o dagli dei. Dobbiamo impadronirci di ogni coltello, freccia, lancia, spada, moschetto, scudo e arco che possiamo trovare. I samurai crederanno che glieli abbiano rubati degli altri samurai… non ne sono venuti da tutto l’Izu? E quale samurai si fida realmente dell’altro? Dobbiamo riprenderci il nostro diritto alla guerra. Mio padre fu ucciso in battaglia, e cosi suo padre e il padre di suo padre! Ninjin, in quante battaglie ti sei trovato? Decine, ne? Uo, e tu? Venti? Trenta?”
“Di più. Non ho forse combattuto col Taikō, maledetta la sua memoria? Ah! Prima di diventare Taikō, era un vero uomo. Questa è la verità! Poi qualcosa l’ha cambiato, ne? Ninjin, non dimenticarti che Mura è il capo. E non dimentichiamo che anche suo padre era il capo! Se il capo dice armi, armi devono essere.”
Ora, inginocchiato nel sole, Mura era sicuro di aver agito bene. Questa guerra sarebbe durata in eterno e il loro mondo sarebbe tornato come era sempre stato. Ci sarebbero stati il villaggio e le barche e qualche paesano. Perché tutti — contadini, daimyo, samurai, perfino gli eta — tutti devono mangiare e il pesce aspetta nel mare. Così i contadini soldati avrebbero lasciato di tanto in tanto la guerra, come sempre, e avrebbero preso le barche…
“Guardate!” esclamò Uo e nell’improvviso silenzio alzò la mano.
La galea stava superando il promontorio.
Fujiko era prosternata davanti a Toranaga nella cabina del padrone. Erano soli.
“Vi prego, signore,” implorava, “liberatemi da questa sentenza.”
“Non è una sentenza, è un ordine.”
“Obbedirò, naturalmente. Ma non posso…”
“Non puoi?” si irritò Toranaga. “Come osi discutere! Ti dico che devi essere la concubina del pilota e hai l’impertinenza di discutere!”
“Chiedo perdono con tutto il cuore,” disse in fretta Fujiko, in un accavallarsi di parole. “Non volevo discutere. Volevo solo spiegarvi che non posso farlo nel modo che voi desiderate. Vi prego di comprendere. Perdonatemi, signore, ma non mi è possibile essere felice… o fingermi felice.” Chinò il capo fino a terra. “Umilmente vi chiedo di permettermi di fare seppuku.”
“Ho già detto che non approvo le morti insensate. Tu mi servi a uno scopo.”
“Vi prego, signore, voglio morire. Ve lo chiedo umilmente. Voglio riunirmi a mio marito e a mio figlio.”
La voce di Toranaga la investì. “Ti ho già rifiutato questo onore. Non lo meriti ancora. E solo a causa di tuo nonno, perché Hiro-matsu è il mio più vecchio amico, ho ascoltato finora con pazienza le tue chiacchiere maleducate. Basta con queste sciocchezze, donna! Smetti di comportarti come una contadina ignorante!”
“Domando umilmente il permesso di tagliarmi i capelli e farmi monaca. La volontà di Budda…”
“No. Ti ho dato un ordine. Obbedisci!”
“Obbedire?” mormorò Fujiko, senza alzare gli occhi, il viso impietrito. Poi, quasi a se stessa: “Credevo di dovermi recare a Yedo.”
“Sei stata chiamata su questa nave! Tu dimentichi la tua posizione, dimentichi la tua famiglia, dimentichi il tuo dovere! Sono disgustato di te. Vai a prepararti.”
“Voglio morire, vi prego, lasciate che li raggiunga, signore.”
“Tuo marito era nato samurai per sbaglio. Era un debole e altrettanto debole sarebbe stata la sua discendenza. L’idiota mi ha quasi rovinato! Riunirti a loro? Sciocchezze! Ti è proibito di fare seppuku. E adesso esci!”
Ma la ragazza non si mosse.
“Forse farei meglio a mandarti fra gli eta. In una delle loro case. Forse questo ti ricorderebbe la tua educazione e il tuo dovere.”
Un brivido la percorse, ma Fujiko ribatté in tono di sfida: “Almeno sarebbero giapponesi!”
“Io sono il tuo feudatario. Tu-farai-ciò-che-ti-ordino! ”
Fujiko esitò, poi si strinse nelle spalle. “Sì, mio signore. Domando scusa per il pessimo contegno.” Posò le mani sul tappeto su cui si era inginocchiata e si inchinò fino a terra, con atteggiamento pentito. Ma in cuor suo non era convinta e già sapeva, come sapeva anche Toranaga, che cosa avrebbe fatto. “Signore, chiedo sinceramente perdono per avervi disturbato, per aver distrutto il vostro wa, la vostra armonia, e per le mie cattive maniere. Avevate ragione e io avevo tono.” Si alzò e si avviò piano verso la porta.
“Se ti concedessi quanto chiedi,” disse Toranaga, “faresti in cambio quello che voglio io, con tutto il cuore?”
Fujiko si voltò lentamente. “Per quanto tempo, signore? Mi permetto di domandarvi per quanto tempo devo essere la concubina del barbaro.”
“Un anno.”
Lei si girò e afferrò la maniglia.
“Sei mesi,” propose Toranaga.
La mano di Fujiko si fermò. Tremando, la ragazza abbassò la testa. “Sì. Grazie, signore. Grazie.”
Toranaga si alzò e si diresse alla porta e Fujiko gliela aprì, s’inchinò al suo passaggio e la chiuse dietro di lui. Allora le lacrime cominciarono a scendere lente lungo le guance. Era una samurai.
Toranaga salì in coperta sentendosi molto soddisfatto di sé. Aveva ottenuto quello che voleva con il minimo sforzo. Se fosse stata spinta troppo in là, la ragazza avrebbe disobbedito e si sarebbe uccisa senza il suo permesso. Invece adesso avrebbe cercato in ogni modo di accontentarlo, ed era importante che diventasse concubina del pilota con gioia, almeno esteriormente. Sei mesi sarebbero ampiamente bastati. È molto più facile trattare con le donne che con gli uomini, pensò contento. Tanto più facile, in certe cose.
Scorse i samurai di Yabu schierati intorno alla baia e il senso di benessere svanì.
“Benvenuto nell’Izu, Nobile Toranaga,” disse Yabu. “Ho ordinato che ci raggiungessero alcuni uomini per fungervi da scorta.”
“Bene.”
La galea era a duecento metri dal molo e si vedevano Omi e Igurashi, e i cuscini e il tendone.
“Tutto è stato predisposto come abbiamo deciso a Osaka,” riprese Yabu. “Ma perché non restate con me qualche giorno? Ne sarei onorato e potrebbe dimostrarsi molto utile. Potreste controllare la scelta dei duecentocinquanta uomini per il reggimento moschettieri e conoscerne il comandante.”
“Niente mi piacerebbe di più, ma devo arrivare a Yedo il più presto possibile, Yabu-san.”
“Due o tre giorni? Vi prego. Qualche giorno senza pensieri vi farebbe bene. La vostra salute è importante per me, e per tutti i vostri alleati. Un po’ di riposo, buon cibo e caccia.”
Toranaga stava cercando disperatamente una soluzione. Rimanere lì con solo cinquanta guardie era impensabile: si sarebbe trovato completamente in potere di Yabu, e sarebbe stato peggio che a Osaka. Ishido almeno era prevedibile e legato a certe regole. Ma Yabu? Yabu è infido come un pescecane e i pescecani non si va a stuzzicarli, si disse. Mai nelle loro acque. E mai rischiando la propria vita. Sapeva bene che l’accordo concluso con Yabu a Osaka avrebbe avuto la consistenza dell’urina sparsa insieme, non appena Yabu avesse pensato di poter ottenere maggiori concessioni da Ishido. E se Yabu avesse portato a Ishido la testa di Toranaga su un piatto d’argento, si sarebbe trovato immediatamente molto più in alto di quanto pensasse di portarlo lo stesso Toranaga.
Ucciderlo o scendere a terra? Quelle erano le alternative.
“Siete troppo gentile,” rispose. “Ma devo rientrare a Yedo.” Non avrei mai creduto che potesse riunire qui tanti uomini in così poco tempo. Che abbia scoperto il nostro codice?
“Permettetemi di insistere, Toranaga-sama. La caccia è ottima nei paraggi. E i miei uomini hanno portato dei falconi. Un po’ di caccia, dopo essere stato rinchiuso a Osaka, sarebbe un piacere, ne?”
“Sì, oggi sarebbe un vero piacere. Mi dispiace di aver lasciato laggiù i miei falconi.”
“Ma non saranno perduti. Hiro-matsu li porterà con sé a Yedo, vero?”
“Gli ho ordinato di lasciarli liberi, non appena noi fossimo stati lontani e al sicuro. Quando fossero giunti a Yedo, sarebbero stati fuori allenamento e disabituati al mio comando. È una delle mie poche regole: usare solo falconi addestrati da me e non dare loro nessun altro padrone. Così commettono soltanto i miei errori.”
“È una buona regola. Amerei conoscere le altre. Forse stasera a pranzo?”
Ho bisogno di questo squalo, pensò con amarezza Toranaga. Ucciderlo adesso è prematuro.
Due gomene furono lanciate a riva e assicurate. Cigolando, si tesero e la galea si accostò abilmente al molo. I remi vennero ammarati, la passerella abbassata e Yabu prese posto in cima a essa.
Subito, all’unisono, i samurai lanciarono il grido di battaglia: “Kasigi! Kasigi!” e il fragore fece disperdere i gabbiani nel cielo. Come un sol uomo, tutti i samurai si inchinarono.
Yabu si inchinò in risposta, poi si voltò verso Toranaga e gli disse con aria espansiva: “Scendiamo a terra.”
Toranaga osservò la massa dei samurai, gli abitanti del villaggio prosternati nella polvere, e si chiese: è qui che morirò di spada, come ha previsto l’indovino? La prima parte della profezia si è avverata: il mio nome adesso è scritto sulle mura di Osaka.
Allontanò quel pensiero. In cima alla passerella parlò a voce alta ai suoi cinquanta samurai, che vestivano ora la divisa marrone come lui: “Tutti voi, restate qui! Capitano, preparatevi a partire immediatamente! Mariko-san, voi resterete ad Anjiro per tre giorni. Accompagnate a riva subito il pilota e Fujiko-san, e aspettatemi nella piazza.” Poi guardò la spiaggia e, con stupore di Yabu, a voce ancora più alta annunciò: “Ora, Yabu-san, passerò in rivista i vostri reggimenti!” Lo superò e percorse la passerella con tutta la sicura arroganza del grande generale che era in realtà. Nessun generale aveva vinto più battaglie né era stato più abile, tranne il Taikō, che era morto. Nessun generale aveva combattuto più battaglie o era mai stato più paziente e aveva perduto meno uomini. E non era mai stato sconfitto.
Un mormorio di stupore passò su tutta la spiaggia quando Toranaga fu riconosciuto. La sua ispezione era assolutamente inattesa. Il suo nome passò di bocca in bocca e il dilagare di quel sussurro, il timore che provocava, lo riempirono di gioia. Sentì che Yabu lo seguiva, ma non si voltò a guardare.
“Ah, Igurashi-san,” disse, con una cordialità che non provava, “è un piacere vedervi. Venite, ispezioneremo insieme i vostri uomini.”
“Sì, mio signore.”
“E voi dovete essere Kasigi Omi-san. Vostro padre è un mio vecchio compagno d’armi. Seguiteci anche voi. ”
“Sì, mio signore,” rispose Omi, sentendosi crescere di statura per l’onore che riceveva. “Grazie.”
Toranaga s’incamminò a passo veloce. Li aveva presi con sé per impedire che parlassero in privato con Yabu, almeno per il momento, sapendo che la sua vita dipendeva dal mantenere l’iniziativa.
“Non avete combattuto con noi a Odawara, Igurashi-san?” chiese, sapendo già che appunto lì il samurai aveva perso un occhio.
“Sì, signore. Ho avuto questo onore. Ero con Yabu-sama e ci trovavamo nell’ala destra del Taikō.”
“Quindi al posto d’onore, dove la battaglia è stata più ardente. Ho molte ragioni di ringraziare voi e il vostro padrone.”
“Schiacciammo il nemico. Abbiamo fatto soltanto il nostro dovere.” Anche se odiava Toranaga, Igurashi fu orgoglioso che egli ricordasse quell’azione e l’avesse ringraziato.
Erano giunti davanti al primo reggimento e la voce di Toranaga risuonò potente. “Sì, voi e gli uomini dell’Izu ci avete dato un grande contributo. Forse, se non fosse stato per voi, non avrei conquistato il Kwanto! Vero, Yabu-sama?” aggiunse, fermandosi a un tratto e dando pubblicamente quel titolo a Yabu, accrescendo così l’onore che gli rendeva.
Di nuovo Yabu si trovò sbalestrato da quell’adulazione. La riteneva in realtà dovuta, ma non se l’era aspettata da Toranaga, cosi come non aveva mai sognato di permettergli un’ispezione. “Forse, ma ne dubito. Il Taikō aveva ordinato di distruggere il clan dei Beppu, ed esso fu distrutto.”
Era accaduto dieci anni prima: il clan dei Beppu, di enorme potenza e antichità, era il solo a opporsi alle forze unite del generale Nakamura — il futuro Taikō — e di Toranaga, e costituiva l’ultimo grande ostacolo al completo dominio di Nakamura sull’impero. Da secoli i Beppu possedevano le Otto Province, il Kwanto. Centocinquantamila uomini circondavano la loro città-castello di Odawara, che sorvegliava il passo da cui si giungeva, scendendo dai monti, alle pianure sottostanti, incredibilmente ricche di riso. L’assedio era durato undici mesi. La nuova concubina di Nakamura, la Nobile Ochiba, radiosa diciottenne, era venuta alla residenza del suo signore, fuori dai bastioni, con il neonato fra le braccia e Nakamura stravedeva per il suo primo figlio. E con lei era giunta la sorella minore, Genjiko, che Nakamura voleva dare in moglie a Toranaga.
“Signore,” aveva detto Toranaga, “sarei certo onorato di unire ancora di più le nostre casate, ma, invece di me, lasciate che la Nobile Genjiko sposi Sudara, mio figlio ed erede.” Gli ci erano voluti parecchi giorni per convincere Nakamura, ma alla fine ci era riuscito. Però, quando la decisione era stata comunicata a Ochiba lei aveva risposto: “Signore, umilmente mi oppongo a questo matrimonio.”
Nakamura aveva riso. “Anch’io! Sudara ha solo dieci anni e Genjiko tredici. Ma ora sono fidanzati e quando lui compirà quindici anni si sposeranno.”
“Ma, signore, Toranaga-sama è già vostro cognato, ne? Questo è certo un legame sufficiente, no? Avete bisogno di stringere legami con i Fujimoto e i Takashima… anche alla corte imperiale. ’’
“A corte sono degli idioti,” aveva risposto Nakamura con la sua rude voce contadina. “Ascolta, O-chan: Toranaga ha settantamila samurai. Quando avremo schiacciato i Beppu, possiederà il Kwanto e altri uomini, e mio figlio avrà bisogno di capi come Toranaga, come ne ho bisogno io. E un giorno mio figlio avrà bisogno di Yoshi Sudara, per cui è meglio che Sudara sia zio di mio figlio. Tua sorella è fidanzata con Sudara, ma Sudara vivrà per qualche anno insieme a noi.
“Naturalmente, signore,” aveva detto subito Toranaga, consegnando il figlio ed erede in ostaggio.
“Bene. Però prima tu e Sudara giurerete fedeltà eterna a mio figlio. ”
E così era stato. Poi, durante il decimo mese di assedio il primogenito di Nakamura era morto, per febbri o per il sangue cattivo o per un kami malvagio.
“Possano tutti gli dei maledire Odawara e Toranaga!” aveva gridato Ochiba. “È colpa di Toranaga se siamo qui, è lui che vuole il Kwanto. Per colpa sua è morto nostro figlio e lui è il nostro vero nemico. Vuole che moriate voi e che muoia io! Uccidetelo… o fategli guidare l’attacco. Che paghi con la vita la vita di vostro figlio! Io esigo vendetta.
Perciò Toranaga aveva guidato l’assalto e aveva conquistato il castello di Odawara, minando le mura e assalendole frontalmente. Nakamura, stravolto dal dolore, aveva ridotto in polvere la città. Con la caduta di Odawara e del clan dei Beppu, tutto l’impero era stato sottomesso e Nakamura era diventato prima Kwampaku e poi Taikō. Ma a Odawara erano stati numerosi i morti.
Troppi, pensava Toranaga, là sulla spiaggia di Anjiro, guardando Yabu. “È un peccato che il Taikō sia morto, ne?”
“Sì.”
“Mio cognato era un grande condottiero. E anche un grande maestro. Come lui, io non dimentico mai un amico. O un nemico.”
“Presto il Nobile Yaemon sarà in età. Il suo spirito è quello del Taikō. Tora-sama…” Ma prima che Yabu potesse interrompere l’ispezione Toranaga aveva già ripreso a camminare ed egli non poté che seguirlo.
Toranaga percorse le file, trasudando simpatia, scegliendo qua e là un uomo, riconoscendone qualcuno, con lo sguardo attento e scrutatore, mentre cercava nella memoria volti e nomi. Possedeva la qualità rara, e propria di alcuni particolari comandanti, di ispezionare le truppe in modo che ogni soldato, per un istante, sentisse di essere stato guardato lui solo, interpellato a volte lui solo fra tutti. Toranaga faceva quello per cui era nato, che aveva fatto mille volte: dominava gli uomini con la sua volontà.
Superato l’ultimo samurai, Yabu, Igurashi e Omi erano sfiniti, ma Toranaga no e di nuovo, prima che Yabu potesse fermarlo, si conquistò un altro vantaggio e si impose solo e potente.
“Samurai dell’Izu, vassalli del mio amico e alleato Kasigi Yabu-sama!” proclamò con ampia voce sonora, “sono onorato di trovarmi qui. Sono onorato di vedere con i miei occhi parte delle forze dell’Izu, parte delle forze del mio grande alleato. Ascoltatemi, samurai, nuvole minacciose si addensano sull’impero e sulla pace del Taikō. Noi abbiamo l’obbligo di proteggere i doni del Taikō dal tradimento che si annida in alto. Sia pronto ogni samurai! Siano appuntite le armi! Noi, tutti insieme, difenderemo la sua volontà! E vinceremo! Possano gli dei del Giappone, grandi e piccoli, rivolgerci il loro sguardo, possano sterminare senza pietà tutti coloro che si oppongono agli ordini del Taikō!” Sollevò alte le sue armi e lanciò il loro grido di guerra: “Kasigi!” poi, incredibilmente, si inchinò agli squadroni e restò inchinato.
Tutti lo fissarono, poi la risposta, come un ruggito, sali da tutti i reggimenti: “Toranaga!” più volte. E tutti i samurai si inchinarono in risposta. Perfino Yabu si inchinò, vinto da quel momento.
Prima che Yabu si raddrizzasse, Toranaga aveva cominciato già a scendere la collina a passo svelto. “Seguilo, Omi-san!” ordinò Yabu. Sarebbe stato indecoroso per lui correre personalmente dietro a Toranaga.
“Sì, signore.” Dopo che Omi si fu allontanato, Yabu domandò a Igurashi: “Che notizie ci sono da Yedo?”
“Vostra moglie, la Nobile Yuriko, dice di avvertirvi innanzitutto che è in corso una massiccia mobilitazione in tutto il Kwanto. Poco in superficie, ma sotto sotto tutto è in ebollizione. Lei ritiene che Toranaga si prepari alla guerra… a un attacco improvviso, forse contro la stessa Osaka.”
“E di Ishido?”
“Prima che partissimo, non si è saputo niente. Sono passati cinque giorni. E niente sulla fuga di Toranaga. Io ne sono venuto a conoscenza soltanto ieri, tramite un piccione viaggiatore mandato da Yedo da vostra moglie.”
“Ah, Zukimoto ha già organizzato il servizio di corrieri?”
“Sì, signore.”
“Bene.”
“Il messaggio di vostra moglie diceva: Toranaga felicemente fuggito da Osaka su una galea con il nostro padrone. Preparatevi ad accoglierli ad Anjiro. Ho pensato che fosse meglio mantenere il segreto con tutti, tranne Omi-san. Però siamo tutti pronti.”
“Come?”
“Ho ordinato una ‘esercitazione’ di guerra, signore, in tutto l’Izu. Entro tre giorni ogni strada e passo per l’Izu saranno bloccati, se a voi sta bene. Inoltre una falsa flotta pirata a nord può affondare qualsiasi nave senza scorta, di giorno o di notte, se voi lo volete. E qui è pronto per voi e per un ospite, di qualunque importanza, se lo volete.”
“Bene. Nient’altro? Altre notizie?”
Igurashi era restio a trasmettere notizie, di cui non fosse in grado di valutare bene il peso. “Qui noi siamo pronti a tutto, ma stamattina da Osaka è arrivato un messaggio in cifra: Toranaga si è dimesso dal Consiglio dei reggenti.”
“Impossibile! Perché l’avrebbe fatto?”
“Non lo so, non riesco a capirlo. Però dev’essere vero, signore. Da quella fonte non abbiamo mai ricevuto informazioni sbagliate.”
“La Nobile Sazuko?” chiese cautamente Yabu, poiché una cameriera della giovane concubina di Toranaga era una sua spia.
Igurashi annuì. “Sì. Ma io non capisco. Adesso i reggenti lo incrimineranno. Ne ordineranno la morte. È una pazzia dimettersi, ne?”
“Ishido deve averlo costretto. Ma in che modo? Non se ne è sentita parola. Toranaga non si sarebbe mai dimesso per conto suo! Sarebbe il gesto di un pazzo, hai ragione. Se lo ha fatto, è perduto. Dev’essere falso.”
Yabu discese la collina, con l’animo in tumulto, e osservò Toranaga attraversare la piazza per avvicinarsi a Mariko e al barbaro, seguito da Fujiko. Toranaga parlò rapido e concitato, poi Yabu lo vide consegnare alla donna un rotolo di pergamena e si chiese che cosa contenesse e che cosa i due si stessero dicendo.
Al molo Toranaga si fermò. Non salì sulla nave, sotto la protezione dei suoi uomini: sapeva che sulla spiaggia si sarebbe avuta la decisione finale. Non poteva fuggire e niente ancora era risolto. Guardò avvicinarsi Yabu e Igurashi e l’impassibilità esteriore di Yabu gli rivelò molte cose.
“Dunque, Yabu-san?”
“Vi fermerete qualche giorno, Nobile Toranaga?”
“Sarebbe meglio che partissi subito.”
Yabu allontanò tutti quanti, e i due nobili in pochi istanti si trovarono soli. “Ho ricevuto da Osaka notizie inquietanti. Vi siete dimesso dal Consiglio dei reggenti?”
“Sì, mi sono dimesso.”
“Allora vi siete ucciso, avete distrutto la vostra causa, e tutti i vostri vassalli e alleati e amici! Avete seppellito l’Izu e assassinato anche me!”
“Il Consiglio dei reggenti può senza dubbio togliervi il feudo e anche la vita, se vuole. Sì…”
“Per tutti gli dei, viventi e morti e ancora da nascere…” Yabu lottò per controllarsi. “Chiedo scusa delle mie cattive maniere, ma il vostro… il vostro incredibile atteggiamento… certo, chiedo scusa.” Non c’era scopo a esibire emozioni che entrambi sapevano indecorose e avvilenti. “Sì, è meglio per voi restare qui, Toranaga-sama.”
“Credo che preferirò partire subito.”
“Qui o a Yedo, che differenza c’è? L’ordine dei reggenti arriverà immediatamente. Suppongo che vorrete fare seppuku all’istante. Con dignità. In pace. Sarei onorato di assistervi come secondo.”
“Grazie, ma ancora non è arrivato nessun ordine e la mia testa resterà dov’è.”
“Che importano uno o due giorni? L’arrivo dell’ordine è inevitabile. Provvederò a tutto, certo, e sarà perfetto. Potete fidarvi di me.”
“Grazie. Capisco, sì, perché volete la mia testa.”
“Anche la mia sarà in gioco. Se mandassi la vostra a Ishido, o la prendessi e gli chiedessi scusa, forse si convincerebbe, ma non è sicuro, ne?”
“Se mi trovassi nella vostra situazione, chiederei la vostra testa, ma purtroppo la mia testa non vi servirebbe a niente.”
“Sono propenso a concordare con voi. Ma vale la pena di tentare.” Yabu sputò con violenza nella polvere. “Merito di morire per essere stato così stupido da mettermi nelle mani di quel bastardo.”
“Ishido non esiterà a impadronirsi della vostra testa. Ma prima si prenderà l’Izu. Oh, certo l’Izu è perduto con lui al potere.”
“Non mi aizzate! So bene che cosa accadrà.”
“Non voglio aizzarvi, amico mio,” rispose Toranaga, lieto che Yabu avesse perduto la faccia. “Dico soltanto che — con Ishido al potere — voi siete perduto ed è perduto l’Izu, perché il suo parente Ikawa Jikkyu mira a prendersi l’Izu, ne? Ma, Yabu-san, Ishido non possiede il potere. Non ancora.” E, in tono da amico, gli spiegò perché si era dimesso.
“Il Consiglio è in difficoltà!” Yabu non riusciva a crederci.
“Non esiste nessun Consiglio. Non esisterà finché non ci saranno cinque membri di nuovo,” sorrise Toranaga. “Pensateci, Yabu-san. Adesso io sono più forte che mai, Ishido è neutralizzato… e altrettanto Jikkyu. Ora avete tutto il tempo necessario per addestrare i vostri cannonieri. Ora possedete Suruga e Totomi. Ora siete padrone della testa di Jikkyu. In pochi mesi la vedrete in cima a una picca, come tutte quelle della sua famiglia e entrerete in possesso dei vostri nuovi domini.” Di scatto si voltò e gridò: “Igurashi-san!” e cinquecento uomini udirono l’ordine.
Igurashi si avvicinò di corsa, ma non aveva percorso tre passi che Toranaga gridò: “Portate una guardia d’onore! Cinquanta uomini. Subito!” Non osava dare a Yabu un attimo di respiro, che gli consentisse di scorgere l’enorme falla nella sua tesi: che se Ishido era in difficoltà e non aveva il potere, la testa di Toranaga sarebbe stata di enorme valore per lui, e quindi per Yabu. O meglio ancora: Toranaga, incatenato come un delinquente comune e consegnato vivo alle porte del castello di Osaka, avrebbe dato a Yabu l’immortalità e le chiavi del Kwanto.
Mentre gli uomini si allineavano davanti a lui, Toranaga disse a voce alta: “In onore di questa occasione, Yabu-sama, accetterete forse questa in segno di amicizia.” Sfilò dal fodero la lunga spada e, tenendola piatta sulle due mani, gliela offrì.
Yabu prese la spada, come in sogno. Era un dono senza prezzo: un’eredità dei Minowara, celebre in tutto l’impero. Toranaga la possedeva da quindici anni. Gli era stata donata da Nakamura di fronte alla maestà di tutti i grandi daimyo riuniti (eccettuato Beppu Genzaemon) a parziale compenso per un patto segreto.
Era avvenuto poco dopo la battaglia di Nagakudé, molto prima della comparsa della Nobile Ochiba. Toranaga aveva appena sconfitto il futuro Taikō, che era allora agli inizi della carriera, senza alcun mandato o potere, o titolo ufficiale, e senza alcuna certezza di raggiungere il potere assoluto. Invece di raccogliere un esercito enorme e schiacciare Toranaga, secondo il suo stile, Nakamura aveva deciso di mostrarsi conciliante. Aveva offerto a Toranaga un trattato di amicizia e di alleanza e, per confermarlo, la mano della sorellastra. Che la donna fosse già sposata e di mezza età non preoccupò né Nakamura né Toranaga. Toranaga accettò e subito il marito della donna, che era un vassallo di Nakamura — ringraziando gli dei che l’invito a divorziare da lei non comportasse anche quello di fare seppuku — aveva spedito, con riconoscenza, la moglie al fratellastro. Toranaga l’aveva sposata in gran pompa e cerimonia e il giorno stesso aveva concluso un accordo segreto di amicizia con l’ultrapotente clan Beppu, i nemici dichiarati di Nakamura.
Quindi Toranaga aveva liberato i suoi falchi aspettando l’attacco inevitabile di Nakamura. Ma l’attacco non era arrivato. Invece Nakamura aveva mandato in ostaggio al campo di Toranaga la sua riverita e diletta madre, ufficialmente in visita presso la figliastra, nuova moglie di Toranaga, ma in realtà anche lei suo ostaggio, e aveva invitato Toranaga alla grande riunione dei daimyo organizzata a Osaka. Toranaga aveva riflettuto a lungo e intensamente, poi aveva accettato l’invito, dicendo al suo alleato Beppu Genzaemon che sarebbe stato poco saggio andarci entrambi. Quindi aveva mosso, in segreto, sessantamila samurai verso Osaka, per difendersi dal prevedibile tradimento di Nakamura e aveva lasciato Noboru, il figlio maggiore, in consegna alla nuova moglie e a sua madre. Noboru aveva ammucchiato fascine di sterpi presso le porte della loro residenza, avvertendole brutalmente che l’avrebbe incendiata se a suo padre fosse accaduto qualcosa di male.
Toranaga sorrise al ricordo. La notte prima dell’ingresso a Osaka, Nakamura, imprevedibile come sempre, era andato a trovarlo in segreto, solo e disarmato.
“Ben arrivato, Tora-san.”
“Benvenuto, Nobile Nakamura.”
“Ascolta: abbiamo combattuto troppe battaglie insieme, abbiamo condiviso troppi segreti, abbiamo troppe volte cacato nello stesso vaso, per volerci adesso pisciare sui piedi l’uno dell’altro.”
“Sono d’accordo,” aveva risposto con prudenza Toranaga.
“Allora ascolta: io sono a un passo dalla conquista del regno. Per raggiungere il potere totale devo ottenere il rispetto degli antichi clan, dei feudatari per eredità, degli eredi attuali dei Fujimoto, dei Takashima e Minowara. Quando avrò avuto il potere qualunque daimyo potrà pisciare sangue, per quel che me ne importa.”
“Il mio rispetto lo avete. Lo avete sempre avuto.”
L’ometto dalla faccia scimmiesca aveva riso senza ritegno. “A Nagakudé hai vinto bene. Sei il generale migliore che io abbia mai visto, il maggiore daimyo del regno, ma adesso io e te dobbiamo smetterla di giocare. Ascolta: domani voglio che tu ti inchini davanti a me di fronte a tutti i daimyo, come un vassallo. Io ti voglio, Yoshi Toranaga-noh-Minowara, come vassallo di tua volontà. Pubblicamente. Non per leccarmi il culo, ma cortese, umile e rispettoso. Se tu sarai mio vassallo, gli altri si accapiglieranno per la fretta di mettere la testa nella polvere e il sedere per aria. E i pochi che non lo facessero… bene, stiano in guardia.”
“Questo vi renderà signore del Giappone?”
“Sì. Il primo nella storia. E me l’avrai dato tu. Riconosco che senza di te non posso farcela. Ma ascolta: se lo farai, sarai al primo posto, dopo di me. Qualunque onore tu voglia, l’avrai. Qualunque cosa e ce n’è abbastanza per tutti e due.”
“Davvero?”
“Sì. Prima prenderò il Giappone, poi la Corea. Poi la Cina. Ho detto a Goroda che questo volevo e questo avrò. Allora potrai avere il Giappone… una provincia della mia Cina!”
“Però adesso, Nobile Nakamura, adesso devo sottomettermi, ne? Sono in vostro potere, ne? Voi mi state davanti con forze soverchiami, e alle spalle mi minacciano i Beppu.”
“Loro li sistemerò presto,” aveva detto il generale contadino. “Quelle carogne hanno rifiutato il mio invito a venire qui domani… mi hanno rimandato la pergamena coperta di merda d’uccelli. Vuoi le loro terre? Tutto il Kwanto?”
“Non voglio niente da loro né da nessun altro,” aveva risposto lui. ”Bugiardo!” aveva commentato Nakamura, con simpatia. “Ascolta, Tora-san: io ho quasi cinquant’anni. Delle mie donne nessuna mi ha dato figli. Ho linfa in abbondanza, ne ho sempre avuta, e in vita mia sarò stato con cento, duecento donne, di tutti i tipi, di tutte le età, in tutti i modi, ma nessuna mi ha dato figli, neppure nati morti. Ho tutto, ma non ho e non avrò mai figli. È il mio karma. Tu hai quattro figli e non so quante figlie, hai quarantatré anni e puoi farne un’altra dozzina con facilità, e questo è il tuo karma. Sei anche un Minowara, e questo è karma. Se io adottassi un tuo figlio e ne facessi il mio erede?”
“Adesso?”
“Presto. Entro tre anni, diciamo. Prima non era importante avere un erede, ma adesso le cose vanno diversamente. Il nostro defunto padrone Goroda ha commesso l’idiozia di farsi ammazzare e ora la terra sarà mia.”
“Renderete gli accordi ufficiali, pubblicamente, entro due anni?”
“Sì. Due anni. Puoi fidarti di me: i nostri interessi sono uguali. Sentimi: in due anni, pubblicamente, e decideremo, tu e io, quale figlio. Così divideremo tutto, eh? La nostra dinastia unita sarà sistemata per l’avvenire. In questo modo non ci saranno problemi e andrà bene per te e per me. I frutti saranno enormi. Prima il Kwanto. Eh?”
“Forse Beppu Genzaemon si sottometterà… se io mi sottometto.”
“Non posso permetterglielo, Tora-san. Tu vuoi le loro terre.”
“Non voglio niente.”
Nakamura aveva riso con allegria. “Già. Ma dovresti. Il Kwanto è degno di te. Sicuro dietro un muro di montagne, facile da difendere. Con il delta avresti il dominio delle risaie più ricche dell’impero. Alle spalle avrai il mare, e avrai un’entrata di due milioni di koku. Ma non mettere la capitale a Kamakura, né a Odawara.”
“La capitale del Kwanto è sempre stata Kamakura.”
“Perché non dovresti mirare a Kamakura, Tora-san? Non racchiude forse da seicento anni il sacro tempio del kami che veglia sulla tua famiglia? Non si tratta forse di Hachiman, il kami della guerra, una divinità Minowara? Il tuo antenato fu saggio a scegliere il kami della guerra.”
“Io non miro a niente e non adoro niente. Un tempio non è che un tempio e non si è mai saputo che il kami della guerra risiedesse in un tempio.”
“Sono contento che tu non miri a niente, Tora-san, così niente ti lascerà deluso. In questo sei come me. Ma Kamakura non è la capitale per te: ci sono sette passi da difendere. Troppi. E non è sul mare. No, non te la consiglierei. Sentimi: starai meglio e più al sicuro oltre le montagne. Hai bisogno di un porto. Ne ho visto uno, Yedo… un villaggio di pescatori per ora, ma tu ne farai una grande città. Facile da difendere, perfetta per il commercio. Tu sei favorevole al commercio, e io pure, giusto, e quindi devi avere un porto. Quanto a Odawara, la distruggeremo, per dare una lezione a tutti quanti.”
“Sarà molto difficile.”
“Certo, ma sarebbe una buona lezione per gli altri daimyo, ne?”
“Conquistarla con la forza costerà caro.”
Di nuovo la risata. “Forse per te, se non ti unisci a me. Io devo passare attraverso i tuoi attuali domini per raggiungerla… lo sapevi che rappresenti la linea di confine dei Beppu? Tu e loro insieme potrete tenermi a bada per uno o due anni, forse tre, ma alla fine io vincerò. Eeeeh, perché perdere tempo con loro? Sono tutti spacciati, eccetto tuo genero, se vuoi… ah sì, lo so bene che hai stretto alleanza con loro, ma non vale un soldo bucato. Allora, che cosa rispondi? I frutti saranno enormi. Prima il Kwanto — che sarà tuo — poi avrò tutto il Giappone. Poi la Corea… facile. Quindi la Cina… difficile, ma non impossibile. So che un contadino non può diventare Shōgun, ma ‘nostro’ figlio sarà Shōgun e potrà impadronirsi del Trono del Drago cinese, o lo potrà suo figlio. Qui finisce il mio discorso. Cosa rispondi, Yoshi Toranaga-noh-Minowara? Vassallo o no? Nient’altro conta per me.”
“Pisciamo insieme sull’accordo,” aveva detto Toranaga. Aveva ottenuto tutto quello che voleva e per cui aveva lavorato. E il giorno seguente, davanti all’attonita maestà dei daimyo truculenti, con umiltà aveva offerto la sua spada, le sue terre, il suo onore e il suo retaggio al contadino, signore della guerra. Aveva chiesto che gli fosse permesso di servire per sempre Nakamura e la sua casata. Lui, Yoshi Toranaga-noh-Minowara, aveva chinato umilmente la fronte nella polvere. Il futuro Taikō si era mostrato magnanimo, aveva accettato le sue terre e gli aveva assegnato come feudo il Kwanto, non appena fosse stato conquistato, ordinando guerra senza tregua contro i Beppu per i loro insulti contro l’imperatore. E inoltre aveva donato a Toranaga la spada di recente acquisita da uno dei tesori imperiali. L’aveva fabbricata secoli prima il maestro armaiolo Miyoshi-Go ed era stata del più famoso guerriero della storia, Minowara Yoshitomo, il primo degli Shōgun Minowara.
Toranaga ripensò a quel giorno. E altri gliene vennero alla mente: quando, pochi anni dopo, la Nobile Ochiba aveva generato un figlio maschio; e quando, incredibilmente, dopo l’opportuna scomparsa del primogenito del Taikō, era nato il secondo, Yaemon. E tutto il piano era andato in fumo. Karma.
Vide che Yabu reggeva con riverenza la spada del suo antenato.
“È tagliente come si dice?” chiese Yabu.
“Sì.”
“Mi rendete un grande onore. Conserverò il vostro dono come un tesoro.” Yabu si inchinò, consapevole che, grazie a quel dono, lui sarebbe stato il numero uno dopo Toranaga.
Toranaga si inchinò a sua volta e, disarmato, si avviò per la passerella. Dovette chiamare a raccolta tutta la volontà per nascondere la furia interiore e non incespicare, pregando che l’avidità ipnotizzasse Yabu ancora per qualche istante.
“Partite!” ordinò, giungendo in coperta, poi si voltò verso la riva e agitò la mano cordialmente in segno di saluto.
Qualcuno ruppe il silenzio, gridando il suo nome, e altri si unirono all’acclamazione che divenne un ruggito generale di entusiasmo per l’onore reso al loro signore. Mani volonterose spinsero la nave in mare. I rematori cominciarono a vogare energicamente e la galea si mosse.
Capitano, raggiungete Yedo rapidamente!“
“Si, mio signore.”
Toranaga guardò lungo la riva, aspettandosi qualche pericolo. Yabu era fermo vicino al molo, ancora in ammirazione della spada. Mariko e Fujiko stavano presso il tendone con le altre donne. L’Anjin-san era in fondo alla piazza: rigido, torreggiante e manifestamente furioso. I loro sguardi s’incrociarono e Toranaga sorrise e alzò la mano per salutare. Il saluto gli venne restituito, ma freddamente, e Toranaga ne fu molto divertito.
Blackthorne si avviò cupo verso il molo.
“Quando tornerà, Mariko-san?”
“Non lo so, Anjin-san.”
“Come andremo noi a Yedo?”
“Noi restiamo qua. Almeno, io ci resterò tre giorni, poi ho l’ordine di raggiungere la capitale.”
“Per mare?”
“Per terra.”
“E io?”
“Voi dovete restare qua.”
“Perché?”
“Avete detto che vorreste imparare la nostra lingua. E inoltre qui c’è del lavoro per voi.”
“Quale lavoro?”
“Mi dispiace, non lo so. Ve ne parlerà il Nobile Yabu. Il mio padrone mi lascia qui tre giorni per fare da interprete.”
Blackthorne si sentì invadere da tetri presentimenti. Alla cintura aveva le pistole, ma senza polvere né proiettili, e non aveva più il coltello. Tutto era rimasto nella cabina, sulla galea.
“Perché non mi avete avvertito che saremmo rimasti qui?” chiese. “Mi avete detto solo di scendere a terra.”
“Non sapevo che anche voi doveste rimanere qui,” replicò lei. “Toranaga-sama me lo ha comunicato soltanto pochi minuti fa, in piazza.” “Allora, perché non mi ha avvisato lui stesso?”
“Non lo so.”
“Dovevo andare a Yedo. Là c’è il mio equipaggio, e c’è la mia nave. Che ne sarà di loro?”
“Ha detto solamente che dovevate restare qui.”
“Per quanto tempo?”
“Questo non lo so, Anjin-san. Forse lo saprà Yabu-sama. Abbiate pazienza, vi prego.”
Blackthorne osservò Toranaga, dritto in coperta, che guardava ancora a riva. “Credo che l’avesse deciso già da un pezzo che io dovevo fermarmi qua, non è vero?”
Mariko non rispose. Com’è infantile, pensò, a dire a voce alta quello che gli passa per la mente! E com’è stato straordinariamente abile Toranaga, a sfuggire a questa trappola!
Fujiko e le due cameriere erano ferme accanto a lei, aspettando pazienti all’ombra, insieme alla madre e alla moglie di Omi, con cui Mariko aveva scambiato poche parole. Mariko guardò la galea: stava acquistando velocità, ma era ancora a tiro di freccia. Entro un minuto lei doveva cominciare. Oh, Madonna, fai che sia forte! pregò, concentrando l’attenzione su Yabu.
“È vero?” insisteva Blackthorne.
“Come? Oh, scusate… non lo so, Anjin-san. Posso dirvi soltanto che Toranaga-sama è molto saggio. Il più saggio di tutti. Qualunque sia la ragione che lo ha spinto, è certamente giusta.” Osservò gli occhi azzurri e la faccia dura, rendendosi conto che Blackthorne non poteva aver capito niente di quanto era avvenuto sotto i suoi occhi. “Vi prego, siate paziente, Anjin-san. Non c’è niente da temere. Siete il suo vassallo favorito e…”
“Non ho paura, Mariko-san. Sono semplicemente stanco di venire spinto qua e là come una pedina. E non sono vassallo di nessuno.”
“Va meglio ‘seguace’? O ditemi come definireste un uomo che lavora per un altro o è impegnato da un altro per speciali…” In quel momento vide il sangue affluire al viso di Yabu.
“I cannoni! I cannoni sono ancora sulla galea!” gridò il daimyo.
Mariko capì che era giunto il momento. Si affrettò da lui, mentre Yabu si voltava a lanciare ordini a Igurashi.
“Perdonatemi, Nobile Yabu,” disse, superandone la voce, “non dovete preoccuparvi dei cannoni. Toranaga-sama ha detto di chiedervi scusa della sua fretta, ma a Yedo deve prodigarsi con urgenza per le vostre comuni imprese. Ha detto che vi rimanderà immediatamente la galea. Con i cannoni e con altra polvere. E anche con i duecentocinquanta uomini che gli avete chiesto. Saranno qui entro cinque o sei giorni.”
Mariko spiegò, con pazienza e cortesia, come le aveva detto Toranaga, poi, quando Yabu ebbe capito, estrasse una pergamena dalla manica. “Il mio padrone vi prega di leggerla. Riguarda l’Anjin-san.” E gliela porse con gesto ufficiale.
Yabu non prese la pergamena, ma si voltò di nuovo a guardare la galea, ormai fuori portata e lontana. Ma che importa? pensò, senza più ansia. Presto riavrò i cannoni, e intanto sono fuori dalla trappola di Ishido e possiedo la più celebre spada di Toranaga e presto tutti i daimyo del paese sapranno della mia nuova posizione nelle Armate dell’Est… secondo soltanto a Toranaga! Yabu riuscì ancora a distinguere Toranaga e gli accennò un saluto con la mano, che gli venne ricambiato. Poi Toranaga lasciò il cassero.
Yabu prese il rotolo e si dedicò al presente e all’Anjin-san.
Blackthorne, a una trentina di metri, stava osservandolo e provò un’ondata di collera e di preoccupazione allo sguardo penetrante di Yabu. Sentì Mariko parlare con il suo tono cadenzato, ma la cosa non lo rassicurò. Senza lasciarlo vedere, strinse il calcio della pistola.
“Anjin-san! Volete venire qui?” lo chiamò Mariko.
Mentre l’inglese si avvicinava, Yabu alzò gli occhi dalla pergamena e annuì con aria cordiale. Quando ebbe finito di leggere, restituì il rotolo a Mariko e parlò brevemente.
Con rispetto Mariko porse la pergamena a Blackthorne, che la prese e ne esaminò i caratteri incomprensibili.
“Yabu-sama dice che siete il benvenuto nel villaggio. Questo documento porta il sigillo del Nobile Toranaga, Anjin-san. Dovete conservarlo. Vi ha concesso un onore eccezionale: vi ha nominato hatamoto. È una posizione di particolare riguardo. Godete della sua assoluta protezione, Anjin-san. Yabu-sama, naturalmente, ne riconosce la validità. Vi spiegherò più tardi i privilegi che ne derivano, per ora vi comunico che il Nobile Toranaga vi ha assegnato anche uno stipendio di venti koku al mese. È circa…”
Yabu la interruppe, accennando con largo gesto a Blackthorne e poi al villaggio, e tenne un lungo discorso. Mariko tradusse. “Yabu-sama ripete che siete il benvenuto qui. Spera che sarete soddisfatto, e vi assicura che si farà tutto il necessario perché possiate vivere comodamente. Avrete una casa. E dei maestri. Cercherete, per favore, di imparare il giapponese il più presto possibile. Stanotte vi interrogherà su particolari argomenti e vi parlerà di un lavoro speciale.”
“Vi prego, chiedetegli quale lavoro.”
“Posso consigliarvi di essere un po’ più paziente, Anjin-san? Adesso davvero non è il momento.”
“Va bene.”
“Wakarimasu ka, Anjin-san?” domandò Yabu. Avete capito?
“Hai, Yabu-san. Domo.”
Yabu impartì ordini a Igurashi perché lasciasse liberi gli uomini, poi si diresse, verso gli abitanti del villaggio, ancora prostrati nella sabbia.
Nel luminoso pomeriggio primaverile stette fermo davanti a loro, con la spada di Toranaga fra le mani. Le sue parole piovvero su di loro come frustate. Puntò la spada verso Blackthorne, li arringò per pochi minuti e concluse bruscamente. Un tremito percorse tutti i paesani. Mura si inchinò, disse più volte: “Hai,” poi si voltò, interrogò i paesani e tutti gli occhi si posarono su Blackthorne.
“Wakarimasu ka?” chiese a voce alta Mura e tutti risposero: “Hai!” mescolando le loro voci al battito delle onde.
“Che cosa succede?” domandò Blackthorne a Mariko, ma Mura gridò “Keirei!” e gli abitanti del villaggio s’inchinarono.
“Che cosa succede, Mariko-san?”
“Egli… Yabu-sama… ha detto che qui siete il suo onorato ospite. Che siete anche l’onorato vas… seguace del Nobile Toranaga. Che siete qui soprattutto per imparare la nostra lingua. Ha affidato al villaggio l’onore e la responsabilità di insegnacela. Il villaggio è responsabile, Anjin-san. Tutti devono aiutarvi. Ha detto che se entro sei mesi non avrete imparato in modo soddisfacente, il villaggio sarà dato alle fiamme, ma prima del rogo ogni uomo, donna e bambino sarà crocifisso.”