56

“Splendido, ne?” Yabu indicò con un cenno i morti.

“Prego?” chiese Blackthorne.

“ stata una poesia. Capite ‘poesia’?”

“Sì, capisco parola, sì.”

“È stata una poesia, Anjin-san. Non lo vedete?”

Se avesse saputo come esprimersi, Blackthorne gli avrebbe risposto: no, Yabu-san. Ma per la prima volta ho capito che cosa lei avesse in mente, in realtà, quando ha dato l’ordine a Yoshinaka di uccidere il Grigio. Poesia? È stato un rito orribile, coraggioso, insensato e straordinario, in cui la morte appare inevitabile e spettacolare come nell’inquisizione spagnola, e tutte le morti non sono che il preludio alla morte di Mariko. Adesso ognuno di noi è in gioco, Yabu-san — voi, io, il castello, Kiri, Ochiba, Ishido, tutti — e solo perché lei ha deciso di comportarsi nel modo che riteneva necessario. E quando lo avrà deciso? Molto tempo fa, ne? O, per essere più precisi, Tora-naga ha preso la decisione per lei.

“Scusate, Yabu-san, non parole abbastanza,” disse.

Yabu non lo sentì. Sui bastioni e per la strada regnava la calma, tutti erano immobili come statue. Poi la vita riprese, con voci sommesse e movimenti contenuti, sotto il sole cocente. Ognuno uscì dall’intontimento. Yabu sospirò, in preda alla malinconia. “È stata una poesia, Anjin-san,” ripeté e lasciò il bastione.

Quando Mariko, raccolta la spada, aveva cominciato ad avanzare da sola, Blackthorne avrebbe voluto balzare contro il suo avversario per proteggerla, ucciderlo prima che la colpisse. Ma, come gli altri, non si era mosso. Non per paura. Non aveva più paura della morte: il coraggio di lei gli aveva dimostrato la vanità di quella paura e da lungo tempo egli era sceso a patti con se stesso, fin dalla notte nel villaggio.

Quella notte ero pronto a infilarmi il coltello nel cuore. Da allora la paura della morte in me si è cancellata, come lei mi aveva predetto. “Solo vivendo sul limitare della morte si può comprendere l’indescrivibile gioia della vita.” Non ricordo il momento in cui Omi ha trattenuto il colpo, ricordo solo il senso di rinascita quando mi sono svegliato all’alba.

Osservò i morti nella strada. Avrei potuto uccidere per lei quel Grigio, pensò, e forse un altro, e molti altri, ma ne sarebbe sempre giunto uno nuovo e la mia morte non avrebbe spostato di un millimetro la bilancia. Non ho paura di morire, si ripeté. Ma non posso fare niente per proteggerla.

I Grigi stavano raccogliendo i cadaveri, trattando con uguale rispetto Marroni e Grigi. Altri Grigi, insieme a Kiyama e ai suoi, si allontanavano, e così pure le donne, i bambini e le cameriere, sollevando la polvere della strada. Egli sentì l’odore aspro della morte frammisto a quello salato della brezza, ma la sua mente era annebbiata dal pensiero di lei, del suo coraggio, dell’indefinibile calore che gli veniva da quell’impavido coraggio. Controllò l’altezza del sole: sei ore prima del tramonto.

Si diresse alla scala che portava di sotto.

“Anjin-san, dove andate, prego?” Si voltò verso i suoi Grigi, che aveva dimenticato. Il capitano lo fissava.

“Ah, scusate. Andare là!” e indicò il cortile. Il capitano rifletté un momento, poi, riluttante, accettò. “Va bene. Seguitemi, prego.”

Nel cortile l’ostilità dei Marroni verso i suoi Grigi fu nettamente percepibile. Yabu era ritto accanto al portone, a guardare gli uomini che rientravano. Kiri e Sazuko si sventolavano con i ventagli, mentre una balia allattava il neonato. Sedevano su coperte e cuscini messi in fretta su una veranda, all’ombra. I portatori stavano rannicchiati accanto ai bagagli e ai cavalli, e mostravano ancora chiari i segni dello spavento. Blackthorne si diresse verso il giardino, ma le guardie gli fecero cenno di fermarsi. “Spiacenti, per ora è proibito.”

“Certo,” rispose lui, voltandosi dall’altra parte. Nella strada circa cinquecento Grigi si stavano sistemando a sedere per terra, in un ampio semicerchio davanti al portone. L’ultimo Marrone stava rientrando nel cortile.

Yabu ordinò: “Chiudete e sbarrate la porta.”

“Scusate, Yabu-san,” intervenne l’ufficiale, “ma la Nobile Toda ha detto di lasciarla aperta. Dobbiamo impedire l’ingresso a chiunque, ma deve restare aperta.”

“Ne siete sicuro?”

L’ufficiale si irritò. Era un uomo sulla trentina, dal mento prominente, con baffi e barba. “Scusate… certo che sono sicuro.”

“Grazie. Non intendevo offendervi ne? Siete l’ufficiale in servizio?”

“La Nobile Toda mi ha onorato della sua fiducia, sì. Naturalmente voi mi siete superiore.”

“Io sono al comando, ma voi siete in servizio.”

“Grazie, Yabu-san, ma il comando è della Nobile Toda, qui. Voi siete l’ufficiale superiore. Sarei onorato di essere secondo dopo di voi. ”

Incollerito, Yabu rispose: “Vi è permesso, capitano. So bene chi comanda qui. Il vostro nome, prego?”

“Sumiyori Tabito.”

“Non era Sumiyori anche il primo Grigio?”

“Sì, Yabu-san. Era mio cugino.”

“Appena sarete pronto, capitano, radunate tutti gli ufficiali.”

“Certo, signore. Col permesso della Nobile Toda.” Entrambi si voltarono a guardare una dama che avanzava nel cortile. Era una samurai anziana e si appoggiava faticosamente a un bastone. Aveva i capelli bianchi ma stava ben eretta. Si avvicinò a Kiritsubo, seguita da una cameriera che le teneva sopra il capo un parasole.

“Kiritsubo-san,” esordì in tono ufficiale, “sono Maeda Etsu, madre del Nobile Maeda, e condivido le opinioni della Nobile Toda. Se me lo permette, vorrei avere l’onore di aspettare insieme a lei.”

“Prego, accomodatevi,” rispose Kiri. Una cameriera portò un cuscino e, insieme all’altra, aiutò la vecchia dama a sedersi.

“Ah, così va meglio… molto meglio,” mormorò la signora, trattenendo un gemito di dolore. “Sono le giunture… peggiorano di giorno in giorno. Che sollievo! Grazie.”

“Gradireste del cha?”

“Prima il cha, poi il sakè, Kiritsubo-san. Molto sakè. Tanta eccitazione mette tanta sete, ne?”

Altre samurai si staccarono intanto dalla gente che si allontanava, per venire nell’ombra accogliente del cortile, superando le file dei Grigi. Qualcuna esitava e tre cambiarono idea, ma presto ce ne furono quattordici sulla veranda, e due avevano portato con sé i bambini.

“Scusatemi, io sono Achiko, moglie di Kiyama Nagasama, e voglio tornare a casa mia,” disse timidamente una giovane donna, stringendo il piccolo per mano. “Voglio tornare da mio marito. Posso chiedere il permesso di aspettare anch’io?”

“Ma il Nobile Kiyama sarà furioso con voi, signora, se restate qui.”

“Oh, scusate, Kiritsubo-san, ma il nonno quasi non mi conosce. Sono sicura che non gliene importerà e sono mesi che non vedo mio marito. E non mi interessa quello che diranno. La Nobile Toda ha ragione, ne?”

“Perfettamente ragione, Achiko-san,” affermò la vecchia Nobile Etsu, assumendo con fermezza il dominio della situazione. “Naturalmente siete la benvenuta, bambina mia. Venite a sedere accanto a me. Come si chiama vostro figlio? Che bel bambino!”

Tutte le donne in coro si dichiararono d’accordo e un altro bimbetto piagnucolò: “Per piacere, anch’io sono bello, ne?” Una rise e tutte si unirono a lei.

“Lo sei davvero!” riconobbe la Nobile Etsu, e rise di nuovo.

Kiri si asciugò una lacrima. “Così va meglio. Cominciavo a diventare troppo seria.” Ridacchiò. “Signore, sono così onorata di salutarvi tutte a nome suo! Dovete essere affamate e poi avete ragione, Nobile Etsu, tutta questa eccitazione mette molta sete!” Spedì le cameriere a procurarsi da mangiare e da bere e si occupò delle presentazioni fra le varie signore, ammirando il chimono dell’una e il parasole dell’altra. Presto tutte furono immerse in allegre conversazioni, felici e rumorose come pappagallini.

“Come può un uomo capire le donne?” esclamò Sumiyori.

“Impossibile!” riconobbe Yabu.

“Un momento prima spaventate e in lacrime, e un momento dopo… Quando ho visto la Nobile Mariko raccogliere la spada di Yoshinaka, ho pensato che sarei stato orgoglioso di morire.”

“Sì. Peccato che l’ultimo Grigio fosse tanto bravo. Mi sarebbe piaciuto vederla nell’atto di uccidere. E con uno meno bravo ci sarebbe riuscita.”

Sumiyori si strofinò la barba, perché il sudore gli irritava la pelle. “Cosa avreste fatto se foste stato al posto di lui?”

“L’avrei ammazzata e poi avrei caricato i Marroni. Troppo sangue. Ho faticato a trattenermi dall’affrontare tutti i Grigi che mi stavano vicino sul bastione.”

“A volte è bello uccidere. Bellissimo. A volte è un piacere tutto particolare, meglio che con una donna.”

Si udì uno scoppio di risa fra le signore allo spettacolo dei due bimbetti che si pavoneggiavano nei loro chimono scarlatti, con aria seria. “È una gioia rivedere dei bambini qui dentro. Io ringrazio tutti gli dei che i miei siano a Yedo.”

“Sì.” Yabu stava fissando le donne con occhio attento.

“Mi sto ponendo anch’io la vostra stessa domanda,” disse calmo Sumiyori.

“E qual è la risposta?”

“Adesso non ce n’è che una. Se Ishido ci lascia andare, bene. Se il seppuku della Nobile Mariko andrà sprecato, allora… allora aiuteremo quelle signore ad andare nel Grande Vuoto, dando inizio alle uccisioni. Non vorranno continuare a vivere.”

“Qualcuna forse sì.”

“Potrete deciderlo più tardi, Yabu-san. Sarebbe a vantaggio del nostro padrone se tutte facessero seppuku qui. Con i bambini.”

“Sì.”

“Poi presidieremo le mura e apriremo le porte all’alba. Combatteremo fino a mezzogiorno. Basterà. Quelli ancora vivi rientreranno e daranno fuoco a quest’ala del castello. Se io sarò vivo, sarei onorato che mi faceste da secondo.”

“Naturalmente.”

Sumiyori sogghignò. “E così il regno sarà diviso. Tutte le morti e la sua morte, della Nobile Mariko… La notizia si spargerà come un incendio… che divorerà Osaka, ne? Credete che questo ritarderà l’arrivo dell’imperatore? Potrebbe essere questo il piano del nostro padrone?”

“Non lo so. Sentite, Sumiyori-san, io torno per un po’ a casa mia. Venite a prendermi appena Mariko-sama ricompare.” Si avvicinò a Blackthorne, che sedeva meditabondo sui gradini. “Ascoltate, Anjin-san,” gli sussurrò di nascosto, “forse ho un piano. Segreto, ne? ‘Segreto’, capite?”

“Sì. Capito.” Le campane suonarono l’ora, e il suono riecheggiò in ognuno dei presenti. Molti guardarono il sole e ne misurarono l’altezza. Le tre del pomeriggio.

“Quale piano?” chiese Blackthorne.

“Ne parliamo più tardi. Non dite niente, capito?”

“Sì.”

Yabu uscì dal portone, con dieci Marroni. Venti Grigi si unirono a loro e tutti si avviarono per la grande strada. L’abitazione di Yabu era vicina, dietro l’angolo. I Grigi rimasero davanti alla sua porta e lui, facendo cenno ai Marroni di restare nel giardino, entrò da solo.

 

“È impossibile, generale,” dichiarò Ochiba. “Non potete permettere che una dama del suo rango faccia seppuku. Mi spiace dirvelo, ma vi hanno messo con le spalle al muro.”

“Lo penso anch’io,” affermò deciso Kiyama.

“Con la dovuta umiltà, signora,” rispose Ishido, “qualunque cosa io avessi detto o fatto non sarebbe servita a un accidenti di niente. Lei aveva già stabilito tutto, o perlomeno lo aveva stabilito Toranaga.”

“È evidente che dietro c’è lui!” esclamò Kiyama, mentre Ochiba appariva risentita per le parole brusche di Ishido. “Scusate, ma vi ha di nuovo battuto. Ma anche così, non potete permetterle di fare seppuku!”

“Perché?”

“Scusate, generale, ma dobbiamo tenere la voce bassa,” intervenne Ochiba. Si trovavano nella spaziosa anticamera della Nobile Yodoko, al secondo piano del torrione. “Sono certa che voi non avete colpe,” riprese Ochiba, “ma occorre trovare una soluzione.”

“Non potete lasciarle portare a termine il suo piano, generale,” disse calmo Kiyama, “perché tutte le dame del castello reagirebbero.”

Ishido lo fissò con ira. “Sembrate dimenticare che un paio di loro sono state eliminate per errore e nessuna si è risentita… hanno solo rinunciato ad altri tentativi di fuga.”

“Quello fu un gravissimo errore, generale,” osservò Ochiba.

“D’accordo. Ma siamo in guerra, Toranaga ancora non l’abbiamo fra le mani e finché lui non sarà morto voi e l’erede sarete in pericolo.”

“Non è per me che io mi preoccupo, ma solo per mio figlio,” dichiarò Ochiba. “Comunque, entro diciotto giorni dovranno tutti essere qui. Io vi consiglio di lasciarli andare.”

“E un rischio inutile. Scusate, ma non siamo sicuri che Mariko intenda proprio compiere il gesto.”

“Non c’è dubbio,” affermò sdegnosamente Kiyama, disprezzando la tracotante presenza di Ishido in quelle sale che tanto gli ricordavano il suo amico e riverito protettore, il Taikō. “È una samurai.”

“Certo,” disse Ochiba. “Concordo con Kiyama-san. Mariko farà quello che ha promesso. E c’è anche la Nobile Etsu! I Maeda sono gente orgogliosa, ne?”

Ishido andò alla finestra, a guardare fuori. “Per quello che mi importa possono bruciare tutti quanti. La Toda è cristiana, ne? II suicidio non è contrario alla sua religione? Non è una specie di peccato grave?”

“Lo sarebbe, ma lei avrà un secondo e quindi non si tratterà di suicidio.”

“E se non l’avesse?”

“Come?”

“Supponiamo che fosse disarmata e non avesse un secondo…”

“Com’è possibile?”

“Catturatela. Confinatela, con cameriere ben scelte, fino a quando Toranaga non avrà passato il confine.” Ishido sorrise. “Allora potrà fare quello che le pare. Sarei felice di aiutarla io stesso.”

“Come si può catturarla?” replicò Kiyama. “Avrebbe sempre il tempo di uccidersi, di usare il coltello.”

“Forse. Ma supponiamo di poterla prendere e disarmare e trattenere per qualche giorno. Non sono proprio quei pochi giorni che contano? Non è per questo che lei insiste per partire oggi, prima che Toranaga passi il confine, e si intrappoli con le sue mani.”

“Sarebbe possibile?” chiese Ochiba.

“Forse,” rispose Ishido.

Kiyama rifletté. “Entro diciotto giorni Toranaga deve essere qui. Può indugiare sul confine per altri quattro giorni. Bisognerebbe trattenerla per una settimana al massimo.”

“O per sempre,” aggiunse Ochiba. “Toranaga ha ritardato tanto che a volte penso che non verrà mai.”

“Al ventiduesimo giorno dovrà essere qui per forza,” replicò Ishido. “Ah, signora, che magnifica idea è stata la vostra.”

“Ma è stata vostra, generale,” rispose Ochiba, con voce suadente, sebbene fosse stanca per la notte insonne. “E che sarà del Nobile Sudara e di mia sorella? Si trovano insieme a Toranaga?”

“No, signora, non ancora. Saranno portati via mare.”

“Lei non deve essere toccata, e neppure suo figlio!” esclamò Ochiba.

“Suo figlio è erede diretto di Toranaga, che è erede dei Minowara. Il mio dovere verso Yaemon, signora, mi costringe a rammentarvelo ancora una volta.”

“Mia sorella non deve essere toccata. E suo figlio neppure.”

“Come volete.”

“Signore,” chiese Ochiba a Kiyama, “Mariko-san è una buona cristiana?”

“Ottima,” rispose subito Kiyama. “Alludete al fatto che il suicidio è un peccato? Io credo che lei lo ricordi, e non voglia dannarsi in eterno. Ma non so se…”

“Allora c’è una soluzione più semplice,” disse Ishido, senza riflettere. “L’alto sacerdote cristiano le ordinerà di smettere di disturbare i legittimi governanti dell’impero!”

“Non è in suo potere!” ribatté Kiyama e, con voce anche più tagliente, aggiunse: “Sarebbe un’interferenza politica… cosa cui siete sempre stato fortemente contrario. E giustamente.”

“A quanto pare i cristiani interferiscono soltanto quando gli fa comodo,” commentò Ishido. “Non era che un suggerimento.”

Si aprì la porta della stanza da letto e comparve un medico, dall’aspetto solenne e stanco. “Scusatemi, Nobile Ochiba, la signora chiede di voi.”

“Sta morendo?” chiese Ishido.

“La morte è vicina, generale, sì, ma non sappiamo quando verrà.”

Ochiba si affrettò a entrare nell’altra stanza, con un ondeggiare elegante del chimono azzurro. Gli uomini la seguirono con gli occhi, poi la porta si richiuse. Entrambi evitarono di guardarsi e infine Kiyama domandò: “Credete davvero che si possa catturare la Nobile Toda?”

“Sì,” rispose Ishido, sorvegliando la porta dell’altra stanza.

Ochiba attraversò la stanza, molto lussuosa, e si inginocchiò accanto al giaciglio. Tutt’intorno stavano cameriere e medici. I raggi del sole penetravano fra i bambù delle imposte e illuminavano gli intagli rossi e oro delle travi, delle colonne e delle porte. Il letto era circondato da bellissimi paraventi intarsiati. Sembrava che Yodoko dormisse, il volto esangue racchiuso dal cappuccio dal saio buddista, i polsi sottili con le vene in rilievo, e Ochiba pensò che era molto triste invecchiare. L’età era cattiva con le donne. Con gli uomini no, ma con le donne lo era. Che gli dei mi proteggano dalla vecchiaia, pregò. Che Budda protegga mio figlio e lo conduca tranquillo al potere e protegga me finché sarò in grado di proteggere e aiutare lui.

Prese la mano di Yodoko, per renderle omaggio. “Signora?”

“O-chan?” sussurrò Yodoko, usando il dolce nomignolo familiare.

“Sì, signora?”

“Come siete bella… bella come sempre.” La mano salì ad accarezzarle gli splendidi capelli e Ochiba fu come sempre lieta di quel tocco, perché voleva molto bene all’anziana signora. “Così giovane, bella e profumata… com’è stato fortunato il Taikō!”

“Soffrite? Posso darvi qualcosa?”

“Niente, no. Volevo solo parlarvi.” I vecchi occhi erano infossati, ma non avevano perso la loro penetrante acutezza. “Mandate via gli altri.”

Ochiba li allontanò con un gesto. Quando furono sole, chiese: “Sì, mia signora?”

“Ascoltate, mia cara, dovete ottenere che il generale la lasci partire.”

“Non può, signora, o tutti gli altri ostaggi partiranno e noi perderemo forza. Tutti i reggenti sono d’accordo su questo.”

“I reggenti!” esclamò Yodoko con un certo disprezzo. “Voi siete d’accordo?”

“Sì, signora, e ieri sera anche voi diceste che non doveva partire.”

“Adesso dovete lasciarla andare, o altre la seguiranno nella morte e voi e nostro figlio sarete rovinati per l’errore di Ishido.”

“Il generale è fedele, mentre Toranaga non lo è, scusatemi.”

“Del Nobile Toranaga potete fidarvi… di lui no.”

Ochiba scosse il capo. “Mi spiace, ma io sono convinta che Toranaga voglia diventare Shōgun e quindi sia deciso a uccidere nostro figlio.”

“Vi sbagliate. Lo ha dichiarato migliaia di volte. Altri daimyo cercano di servirsi di Yaemon per le proprie ambizioni. Come hanno sempre fatto. Toranaga era il preferito del Taikō, e ha sempre reso onore all’erede. Toranaga è un Minowara. Non lasciatevi trarre in inganno da Ishido o dai reggenti. Loro hanno il loro karma, i loro segreti, O-chan. Perché non lasciarla partire? È tutto così semplice: proibitele di viaggiare per mare, e per terra potrà essere trattenuta dentro i nostri confini. Si troverà comunque sempre dentro la rete del vostro generale, ne? Lei e Kiri, e tutte le altre. Sarà attorniata dai Grigi. Cercate di pensare come farebbe il Taikō, o Toranaga. Voi e nostro figlio siete trascinati in…“ La voce tacque e le palpebre sbatterono. Poi la vecchia signora raccolse le sue ultime forze e riprese. “Mariko-san non potrebbe mai opporsi ad avere delle guardie. Io so che è decisa a compiere quello che dice. Lasciatela partire.”

“Naturalmente si è presa in considerazione questa possibilità, signora,” rispose Ochiba con voce dolce e paziente, “ma fuori dal castello Toranaga dispone di bande segrete di samurai, nascosti dentro e fuori Osaka, non sappiamo quanti… e dispone di alleati, ma non siamo sicuri di quali. Una volta che lei sarà partita, altre la seguiranno subito e noi perderemo una gran parte della nostra difesa. Voi eravate d’accordo, Yodoko-chan, ricordate? Perdonate, ma ieri sera ve l’ho chiesto, ricordate?”

“Sì, lo ricordo, bambina,” rispose Yodoko, con la mente lontana. “Oh, come vorrei che ci fosse ancora il Taikō a guidarvi!” Il respiro le si andava facendo affannoso.

“Posso darvi del cha o del sakè?”

“Del cha, sì.”

Ochiba l’aiutò a bere. “Grazie, bambina.” La voce era più fievole e lo sforzo di quel colloquio affrettava la fine. “Ascoltate, piccola mia, dovete fidarvi di Toranaga. Sposatelo, raggiungete con lui un compromesso per la successione.”

“No… no!” esclamò Ochiba, profondamente colpita.

“Yaemon potrà governare dopo di lui, e poi potrà regnare il frutto del vostro nuovo matrimonio, dopo nostro figlio. I figli di nostro figlio potranno giurare con onore una fedeltà eterna a questa nuova discendenza di Toranaga.”

“Toranaga ha sempre odiato il Taikō. Voi lo sapete bene, signora. È lui la fonte di ogni problema. Da anni! Lui solo!”

“E voi? Che dite del vostro orgoglio, piccola?”

“È lui il nemico, il nostro nemico!”

“Voi avete due nemici, bambina mia: il vostro orgoglio e la necessità di trovare un uomo capace di reggere il confronto con nostro marito. Per favore, siate paziente con me… siete giovane, e bella, e feconda, e meritate uno sposo. Toranaga è degno di voi e voi di lui. Toranaga è l’unica possibilità per Yaemon.”

“No, è lui il nemico.”

“Era il miglior amico di nostro marito e il suo vassallo più fedele. Senza… senza Toranaga… non lo capite? Senza il suo aiuto… Voi potete guidarlo, manovrarlo…”

“Mi dispiace, ma lo odio… mi disgusta, Yodoko-chan.”

“Molte donne… Che cosa stavo dicendo? Oh, sì, molte donne sposano uomini che le disgustano. Io ringrazio Budda che a me non sia toccato…” sorrise lievemente. Poi sospirò. Un lungo, profondo sospiro, così lungo che Ochiba pensò fosse giunta la fine. Ma gli occhi si riaprirono e un altro breve sorriso apparve sulle labbra. “Ne?”

“Sì.”

“Lo farete? Vi prego…”

“Ci penserò.”

Le vecchie dita cercarono di stringere le sue. “Vi scongiuro, promettetemi di sposare Toranaga e io andrò da Budda con la certezza che la dinastia del Taikō vivrà per sempre… come il suo nome…”

Le lacrime scorrevano sul viso di Ochiba, mentre accarezzava quella mano irrequieta. Poi le palpebre tremarono e Yodoko mormorò: “Dovete permettere ad Akechi Mariko di partire. Non… non lasciate che lei vendichi su di noi quello che… il Taikō ha fatto… contro… contro suo padre…”

Ochiba fu colta alla sprovvista. “Cosa?”

Nessuna risposta. Dopo un po’ Yodoko cominciò a sussurrare: “… Caro Yaemon, buongiorno, mio caro figlio, come… sei un così bel ragazzo, ma hai tanti nemici… è così sciocco… Non sei anche tu un’illusione, non è…”

Un tremito la percorse. Ochiba strinse la mano e riprese ad accarezzarla. “Namu Amida Butsu,” mormorò, rendendole omaggio.

Un altro tremito, poi Yodoko disse chiaramente: “Perdonatemi, O-chan.”

“Non c’è niente da perdonare, mia signora.”

“C’è tanto da perdonare…” La voce diventò più debole, e il volto cominciò a spegnersi. “Ascoltatemi… promettete… promettete per Toranaga, Ochiba-sama… è importante… vi prego… potete fidarvi di lui.” Gli occhi la imploravano, scrutandola.

Ochiba non voleva obbedire, ma capiva che avrebbe dovuto. Era turbata da ciò che Yodoko aveva detto su Akechi Mariko e ancora udiva le parole, tante volte ripetute dal Taikō: “Puoi fidarti di Yodoko-sama, O-chan. È la saggezza, non dimenticarlo. Quasi sempre è nel giusto e potrai sempre affidarle la tua vita e quella di nostro figlio e la mia…”

Cedette. “Prom…” s’interruppe bruscamente. La luce brillò un ultimo istante nello sguardo di Yodoko, e si spense per sempre.

Namu Amida Butsu.” Ochiba portò la mano alle labbra, si inchinò e la depose sulla coperta. Poi le chiuse gli occhi, ripensando alla morte del Taikō, l’unica altra morte a cui avesse assistito così da vicino. Allora era stata Yodoko a chiudergli gli occhi, secondo il privilegio di una moglie, in quella stessa stanza, davanti alla quale attendeva Toranaga, come adesso stavano in attesa Ishido e Kiyama, proseguendo la veglia iniziata il giorno prima.

“Ma perché mandare a chiamare Toranaga, mio signore?” aveva chiesto lei. “Dovreste riposare.”

“Riposerò quando sarò morto, O-chan,” aveva risposto lui. “Devo sistemare la successione, definitivamente. Finché ne ho la forza.”

E Toranaga era giunto, forte, pieno di vita, trasudante potenza. Erano rimasti soli loro quattro: Ochiba, Yodoko, Toranaga e il Taikō, Nakamura, signore del Giappone, sul letto di morte. Tutti in attesa di ordini a cui si sarebbe obbedito.

“Dunque, Tora-san,” lo aveva salutato il Taikō, con il nomignolo datogli da Goroda molto tempo prima. Gli occhi incavati rilucevano nella piccola faccia scimmiesca, rinsecchita, posta su un corpo altrettanto minuto… un corpo che, fino a pochi mesi prima che iniziasse la malattia, era stato d’acciaio. “Sto morendo. Dal nulla nel nulla. Ma tu sei vivo e mio figlio è indifeso.”

“Non è indifeso, signore. Tutti i daimyo gli renderanno onore, come onorano voi.”

Il Taikō aveva riso. “Certo! Oggi. Finché io sarò vivo, sì. Ma come posso essere sicuro che Yaemon regnerà dopo di me?”

“Nominate un Consiglio di reggenti, signore.”

“Reggenti!” La voce risuonò piena di disprezzo. “Forse dovrei fare mio erede te e lasciar decidere a te se Yaemon sarà degno di succederti.”

“Non sarei degno di tanto. Tocca a vostro figlio succedervi.”

“Già, e i figli di Goroda dovevano succedere a lui.”

“No, perché hanno rotto la pace.”

“E tu li hai uccisi per ordine mio.”

“Voi avevate il mandato dell’imperatore. Loro si erano ribellati al vostro legittimo mandato. Datemi i vostri ordini, e io li eseguirò.”

“Per questo ti ho chiamato. È un avvenimento raro avere un figlio a cinquantasette anni ed è una maledetta faccenda morire a sessantatré, quando è un figlio unico e non hai parenti e sei signore del Giappone, ne?”

“È vero,” aveva risposto Toranaga.

“Forse sarebbe stato meglio che non avessi mai avuto figli, così avrei potuto consegnare a te il regno, come eravamo d’accordo. Tu hai più figli di un pidocchio portoghese.”

“Karma.”

Il Taikō aveva riso e di bocca gli era uscita della saliva macchiata di sangue. Con cura Yodoko lo aveva ripulito e lui le aveva sorriso. “Grazie, Yo-chan, grazie.” Poi si era rivolto a Ochiba, ma in quel momento gli occhi di lui non sorridevano più, la fissavano interrogativi, scrutatori, ponendo la domanda che non era mai stata posta apertamente, ma che lei sapeva girargli sempre dentro la mente: Yaemon è figlio mio? Figlio mio? È veramente figlio mio?

Karma, O-chan. Ne?” Il tono era gentile, ma la paura che egli le ponesse realmente la domanda aveva serrato la gola di Ochiba e gli occhi le si erano riempiti di lacrime.

“Non bisogna piangere, O-chan. La vita non è che un sogno dentro un sogno!” aveva esclamato il vecchio. Dopo una lunga meditazione, si era rivolto di nuovo a Toranaga, dicendo con uno di quegli improvvisi slanci di calore per cui andava famoso: “Eeeeh, mio vecchio amico, che vita abbiamo vissuto, ne? Tante battaglie… combattute fianco a fianco. Eravamo imbattibili… Abbiamo fatto l’impossibile, ne? Insieme abbiamo schiacciato i potenti e gli abbiamo sputato in faccia e loro ci pregavano di continuare! Noi… ci siamo riusciti. Noi, un contadino e un Minowara!” Con una risatina chioccia, aveva ripreso. “Sai, ancora qualche anno e avrei sterminato a dovere i Mangiatori d’aglio. E poi, con le armate coreane e con le nostre, un colpo deciso contro Pechino e io sul Trono del Drago cinese. E avrei dato a te il Giappone, che tu vorresti, e io avrei avuto ciò che volevo.” La voce era forte, nascondendo la fragilità interna. “Un contadino potrebbe salire con onore sul Trono del Drago… non come qui. Ne?”

“Cina e Giappone sono molto diversi, sì, signore.”

“Sì. In Cina sono saggi. Il primo di una dinastia è sempre un contadino o un figlio di contadini, e il trono viene sempre conquistato di forza, con mani insanguinate. Non hanno caste ereditarie… non è questa la forza della Cina?” Di nuovo la risata. “Violenza e mani insanguinate e un contadino… sono io. Ne?”

“Sì. Ma voi siete anche un samurai. Avete cambiato le leggi qui e siete il primo di una dinastia.”

“Mi sei sempre piaciuto, Tora-san.” Il vecchio aveva bevuto con piacere un sorso di cha. “Già, pensa a me sul Trono del Drago… pensaci! Imperatore della Cina, Yodoko imperatrice, e dopo di lei Ochiba la Bella, e dopo di me Yaemon, e Cina e Giappone uniti per sempre, come dovrebbe essere. Ah, sarebbe stato così facile! E poi, con le nostre legioni e le orde cinesi avrei colpito a nord e a sud e, come prostitute di decima classe, gli imperi di tutta la terra sarebbero caduti nella polvere, a gambe spalancate, per lasciarci prendere quello che volevamo. Siamo imbattibili — tu e io siamo imbattibili — i giapponesi sono imbattibili. Per forza lo siamo… noi conosciamo il segreto della vita. Ne?”

“Sì.”

Gli occhi del Taikō scintillavano stranamente. “Qual è?”

“Dovere, disciplina e morte,” aveva risposto Toranaga.

Un’altra risatina. Il vecchio sembrava più piccolo e più avvizzito che mai e poi a un tratto, altra sua caratteristica ben nota, ogni calore era svanito. “I reggenti?” aveva chiesto con voce velenosa e ferma. “Chi sceglieresti?”

“I Nobili Kiyama, Onoshi, Ishido, Toda Hiro-matsu e Sugiyama.”

La faccia del Taikō si era contorta in una smorfia maliziosa. “Sei l’uomo più astuto dell’impero… dopo di me! Spiega alle mie signore perché questi cinque.”

“Perché si odiano tutti fra loro, ma uniti possono governare con efficienza e distruggere ogni opposizione.”

“Anche te?”

“No, non me, signore.” Toranaga si era rivolto direttamente a Ochiba. “Dovete aspettare nove anni prima che Yaemon possa ereditare il potere. E per ottenerlo dovete, più che tutto, conservare la pace del Taikō. Ho scelto Kiyama perché è il capo dei daimyo cristiani, un grande generale e un vassallo fedelissimo. Poi Sugiyama perché è il daimyo più ricco, di antica famiglia, e odia i cristiani di tutto cuore, ed è quello che ha più da guadagnare se Yaemon va al potere. Onoshi perché odia Kiyama, è cristiano, ma è un lebbroso che si aggrappa alla vita, sopravviverà vent’anni e riversa un odio mostruoso su tutti gli altri, specie Ishido. Ishido lo scelgo perché sa fiutare ogni complotto, perché è un contadino, odia i samurai ereditari ed è violentemente contrario ai cristiani. Toda Hiro-matsu perché è onesto, obbediente e fedele, costante come il sole e simile alla migliore spada creata da un maestro armiere. Dovrebbe essere il presidente del Consiglio.”

“E tu?”

“Io farò seppuku insieme a Noboru, mio figlio maggiore. Mio figlio Sudara è sposato con la sorella della Nobile Ochiba, quindi non può costituire una minaccia, non lo sarebbe mai. Potrà ereditare il Kwanto, se voi lo volete, a patto che giuri fedeltà eterna alla vostra casa.”

Nessuno si era stupito che Toranaga si proponesse di fare quello che era evidentemente nei piani del Taikō, perché fra i daimyo l’unica minaccia reale era proprio lui. Poi Ochiba aveva sentito la voce del marito: “O-chan, qual è il vostro parere?”

“Concordo su tutto quanto ha detto Toranaga-sama, signore. Tranne in questo: dovreste ordinare a mia sorella di divorziare da Sudara e lui dovrebbe fare seppuku. Il Nobile Noboru dovrebbe essere erede di Toranaga-sama e ricevere le due province di Musashi e Shimoosa, mentre il resto del Kwanto dovrebbe andare al vostro erede, Yaemon. Io vi suggerisco di provvedere oggi stesso a tutto questo.”

“Yodoko-sama?”

Con grande stupore di Ochiba, Yodoko aveva risposto: “Ah, Tokichi, sapete che amo con tutto il cuore voi, O-chan e Yaemon, come fosse figlio mio… Io dico di nominare Toranaga unico reggente.”

“Come?”

“Se gli ordinate di morire, credo che condannerete a morte vostro figlio. Soltanto Toranaga-sama possiede abbastanza capacità, abbastanza prestigio, abbastanza astuzia da ereditare il potere adesso. Mettete Yaemon sotto la sua tutela finché sarà maggiorenne. Ordinate al Nobile Toranaga di adottarlo ufficialmente. Yaemon sarà allevato da Toranaga-sama e erediterà il potere dopo di lui.”

“No, questo no!” aveva protestato Ochiba.

“Tu che ne dici, Tora-san?” aveva chiesto il Taikō.

“In tutta umiltà, signore, devo rifiutare. Non posso accettare e chiedo il permesso di fare seppuku e scomparire prima di voi.”

“Tu sarai il reggente unico.”

“Da quando abbiamo stretto il nostro patto io non ho mai rifiutato di obbedirvi, ma questo ordine non lo eseguirò.”

Ochiba ricordò quanto avesse cercato di forzare il Taikō a lasciare che Toranaga si uccidesse, come del resto il Taikō aveva in precedenza stabilito. Ma il Taikō aveva cambiato idea e alla fine aveva accettato in parte il consiglio di Yodoko, con il compromesso che Toranaga sarebbe stato reggente e presidente del Consiglio. Toranaga aveva giurato fedeltà eterna a Yaemon, ma ancora adesso stava tessendo la rete che li invischiava tutti, come la crisi attuale provocata da Mariko. “So che è stato per volontà sua,” mormorò fra sé Ochiba, eppure Yodoko aveva ordinato che lei gli si sottomettesse in tutto.

Sposare Toranaga? Budda mi guardi da questa vergogna, dal doverlo accettare, sentirne il peso e la virilità. Vergogna? Ochiba, qual è la verità? si chiese. La verità è che un tempo tu lo avresti voluto… prima del Taikō, ne? E anche durante, ne? Molte volte, nel segreto del tuo cuore La saggia Yodoko aveva ragione nel dire che l’orgoglio è il tuo nemico e che hai bisogno di un uomo, di un marito. Perché non accettare Ishido? Ti onora e ti desidera e vincerà. Sarebbe facile da maneggiare. Ne? No, non quel goffo contadino incapace! Oh, lo so che cosa vanno dicendo i miei nemici… sporchi impertinenti! Giuro che preferirei le mie cameriere o un harigata per altre mille vite, piuttosto che insudiciare la memoria del mio signore andando con Ishido. Sii onesta, Ochiba. Prendi in considerazione Toranaga. Non lo odii forse perché potrebbe averti visto in quel giorno di sogno?

Era avvenuto più di sei anni prima, a Kyushu, mentre lei e le sue dame partecipavano con Toranaga e il Taikō a una caccia col falcone. Il gruppo si era disperso e lei, divisa dagli altri, stava cavalcando sola dietro a uno dei suoi falchi. In un bosco, sulle colline, all’improvviso si era imbattuta in un contadino che raccoglieva bacche, accanto al sentiero deserto. Il suo primo figlio era morto da quasi due anni e nel suo grembo non c’erano segni di vita, nonostante tutti i tentativi e le cure e le diete che aveva provato, tutte le superstizioni e le pozioni e le preghiere. Disperava ormai di poter accontentare il desiderio ossessivo del suo signore di avere un figlio.

L’incontro con il contadino era stato improvviso. Lui l’aveva guardata a bocca aperta come se fosse un kami e Ochiba lo aveva ricambiato con altrettanto stupore, perché era identico al Taikō, ma giovane.

Qualcosa in lei aveva gridato che quello era un dono degli dei, il dono tanto implorato. Era scesa da cavallo, lo aveva preso per mano, si erano addentrati di pochi passi nel bosco e lei si era abbandonata come una cagna in calore. Tutto era stato come in sogno: il desiderio e la passione e la rudezza dell’amplesso per terra. E ancora sentiva in sé il calore bruciante di lui, il suo respiro dolce, le mani che la stringevano meravigliosamente. Poi se lo era sentito addosso come un peso morto, quel respiro si era fatto putrido e tutto di lui l’aveva respinta. Lo aveva allontanato con violenza. Lui l’avrebbe voluta ancora, ma lei lo aveva colpito, insultandolo, gridandogli che doveva ringraziare gli dei se lei non lo trasformava in un albero per la sua insolenza. E il povero idiota superstizioso si era gettato in ginocchio a chiedere perdono… certo lei era un kami, altrimenti come avrebbe potuto una bellezza simile trascinarsi nella polvere con lui?

Con le membra fiacche, Ochiba era rimontata in sella e si era allontanata, stordita, perdendo di vista ben presto l’uomo e la piccola radura, chiedendosi se non fosse stato tutto un sogno. Forse l’uomo era un kami. Aveva pregato che lo fosse davvero, che il suo seme divino le desse un altro figlio per la gloria del suo signore, portandogli la pace che meritava. E poi, proprio al limitare del bosco, aveva trovato Toranaga che la aspettava. Mi avrà visto? si era chiesta, presa dal panico.

“Ero preoccupato per voi, signora,” le aveva detto.

“Io… sto benissimo, grazie.”

“Ma avete il chimono strappato… e avete dei ramoscelli sulla schiena e fra i capelli…”

“Il cavallo mi ha buttato giù di sella… non è niente.” Per dimostrargli che tutto era a posto lo aveva sfidato a una corsa e si era lanciata come il vento. La schiena era ancora segnata dai cespugli, ma dolci unguenti l’avrebbero presto guarita. Quella stessa notte aveva amato il suo signore e padrone, e nove mesi dopo era nato Yaemon, per la felicità di lui. E la sua.

“Ma certo che il padre di Yaemon è nostro marito,” aveva risposto con assoluta sicurezza al sussurro di Yodoko. “È lui il padre di entrambi i miei figli… l’altro è stato un sogno.”

Perché illudersi? È avvenuto davvero. Quell’uomo non era un kami. Tu ti sei rotolata per terra con un contadino per generare un figlio che tu volevi disperatamente come il Taikō, per legarlo a te. Altrimenti avrebbe preso un’altra concubina, ne?

E il primo nato? “Karma” si disse Ochiba.

“Bevi questo, bambina,” le aveva ordinato Yodoko, quando, a sedici anni, lei era diventata da un anno concubina del Taikō. E lei aveva bevuto lo strano succo d’erba, si era addormentata e quando si era risvegliata non ricordava che strani sogni erotici e folli colori e la sensazione di essere fuori dal tempo. Al suo risveglio aveva assistito Yodoko, come al momento in cui si era addormentata, piena di premure e preoccupata come sempre dell’armonia del loro signore. Nove mesi dopo il bambino era nato, ma debole e malaticcio, e presto era morto.

Karma, pensò. Niente era mai stato detto, né da lei né da Yodoko, su quanto era accaduto, o avrebbe potuto accadere, durante quel lungo, profondo sonno. Niente, se non la parola pronunciata poco prima da Yodoko: “Perdonatemi…” seguita dalla sua risposta: “Non c’è niente da perdonare.” Non hai colpe, Yodoko-sama, e non è avvenuto nulla, non c’è nessun segreto. Il suo sguardo si posò sul viso spento, così fragile e patetico, adesso, come era stato quello del Taikō. anche lui scomparso senza aver mai posto la sua domanda. E se un segreto c’è, vecchia signora, ora resterà sepolto con te. Se il Taikō fosse vissuto altri dieci anni, pensò freddamente, sarei imperatrice della Cina… invece, sono sola.

“Strano, siete morta prima che io promettessi,” disse, in quell’odore di incenso e di morte. “Io avrei promesso, ma voi siete morta prima che lo facessi. È anche questo il mio karma! Devo obbedire ugualmente alla vostra richiesta? Cosa devo decidere? Figlio mio, come mi sento sperduta!”

Ricordò un ammonimento della saggia Yodoko: “Cercate di pensare come il Taikō… o come Toranaga.” E sentì in sé una nuova forza. Seduta in quella tranquillità assoluta, decise di obbedire.

 

Con un bisbiglio inatteso, Chimmoko si affacciò al cancello del giardino, poi raggiunse Blackthorne e si inchinò. “Scusate, Anjin-san, la mia padrona vuole vedervi. Se aspettate un momento, vi accompagno io.”

“Va bene. Grazie.” Blackthorne, ancora immerso nelle sue riflessioni, si alzò. Lo dominava un presagio cupo di sventura. Parte del cortile era già in ombra. I Grigi si prepararono a muoversi insieme a lui.

Chimmoko si avvicinò a Sumiyori. “Scusate, capitano, ma la mia padrona vi prega di preparare tutto, per favore.”

“In quale punto vuole che prepariamo?”

La cameriera indicò lo spazio davanti al portone. “Là, signore.”

Sumiyori sussultò. “In pubblico? Non in privato, con pochi testimoni? Lo farà sotto gli occhi di tutti?”

“Sì.”

“Ma… ebbene, se deve essere qui… Il suo… il suo secondo chi sarà?”

“La mia padrona ritiene che il Nobile Kiyama le renderà questo onore.”

“E se non lo facesse?”

“Non so, capitano. Lei… non me lo ha detto.” Chimmoko s’inchinò, attraversò la veranda e s’inchinò di nuovo. “Kiritsubo-san, la mia padrona vi prega di scusarla. Tornerà fra poco.”

“Sta bene?”

“Oh, sì!” rispose con orgoglio Chimmoko.

Kiri e le altre dame erano quiete e composte, turbate anch’esse dalla comunicazione trasmessa al capitano. “Sa che altre signore aspettano di salutarla?”

“Sì, Kiritsubo-san. Io… stavo a guardare, e gliel’ho detto. Ha risposto che è molto onorata della loro presenza e che presto verrà personalmente a ringraziarle. Scusatemi, prego.”

Tutti la osservarono tornare verso il giardino e fare cenno a Blackthorne. I Grigi cominciarono a seguirli, ma Chimmoko scosse la testa e disse che la padrona non li aveva chiamati. E il capitano permise a Blackthorne di seguirla da solo.

Oltre i cancelli del giardino il mondo era diverso, verdeggiante e sereno: i raggi del sole illuminavano ancora le cime degli alberi, gli uccelli cinguettavano e gli insetti ronzavano, mentre il ruscello si riversava con un mormorio dolce nello stagno delle ninfee. Ma Blackthorne non riusciva a scacciare la sua tristezza.

Chimmoko si fermò e gli indicò il piccolo padiglione. Egli si sfilò i sandali e salì i tre gradini. Dovette chinarsi per passare nella bassa apertura, riparata da uno schermo, e poi si trovò all’interno.

Mariko era in ginocchio davanti alla porta, truccata da poco, con le labbra cremisi e la pettinatura impeccabile. Indossava un chimono azzurro cupo orlato di verde e l'obi era verde chiaro, come il nastro fra i capelli.

“Sei bellissima.”

“Anche tu.” Un sorriso lieve. “Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere alla scena.”

“Era mio dovere.”

“Non era un dovere,” rispose lei. “Io non prevedevo… non volevo… tanti morti.”

Karma.” Con uno sforzo Blackthorne si strappò al trance e passò dal latino al portoghese. “Lo avete preparato da tempo tutto questo… il vostro suicidio. Ne?

“La mia vita non è mai stata mia, Anjin-san. Ha sempre appartenuto al mio feudatario e, in secondo luogo, al mio padrone. Questa è la nostra legge”.

“È una cattiva legge.”

“Sì e no.” Lei alzò lo sguardo dal suolo. “Dobbiamo litigare per cose che non si possono cambiare?”

“No. Scusatemi, prego.”

“Ti amo,” disse in latino Mariko.

“Sì, adesso lo so. E io amo te. Ma il tuo scopo è la morte, Mariko.”

“Sbagli, amore mio. Il mio scopo è la vita del mio padrone. E la tua. E in verità, la Madonna mi perdoni o mi benedica, vi sono momenti in cui la tua è più importante.”

“Adesso non esiste fuga. Per nessuno.”

“Abbi pazienza. Il sole non è ancora calato.”

“Non ho nessuna fiducia in questo sole, Mariko-san.” Allungò una mano e le sfiorò il viso. “Gomen nasai.”

“Ti ho promesso che questa notte sarà come alla Locanda delle Camelie. Sii paziente. Conosco Ishido e Ochiba e gli altri.”

Que va gli altri!” esclamò lui in portoghese, cambiando umore. “Volete dire che giocate tutto sulla certezza che Toranaga sa quello che fa. Ne?

Que va il tuo cattivo umore,” ribatté Mariko, dolcemente. “Oggi il giorno è troppo breve.”

“Scusate… avete di nuovo ragione. Oggi non è giorno da cattivi umori.” La osservò: i raggi del sole che passavano fra i bambù le tracciavano delle righe d’ombra sul volto, che andavano svanendo man mano che il sole calava dietro un bastione.

“Come posso aiutarti?” le chiese.

“Credere che esista domani.”

Egli intuì il terrore che la invadeva. Le tese le braccia, la strinse e l’attesa non fu più così terribile.

Dei passi si avvicinarono.

“Sì, Chimmoko?”

“È ora, padrona.”

“È tutto pronto?”

“Sì, padrona.”

“Aspettami vicino allo stagno.” I passi si allontanarono. Mariko si voltò verso Blackthorne e lo baciò dolcemente.

“Ti amo,” gli disse.

“Ti amo.”

Poi lei si inchinò e uscì. Blackthorne la seguì.

Vicino allo stagno Mariko si tolse il chimono azzurro, aiutata da Chimmoko. Sotto a quello ne indossava uno bianco, del bianco più abbagliante che mai Blackthorne avesse visto. Era il chimono funebre, ufficiale. Mariko si tolse anche il nastro verde che portava fra i capelli e si avviò, senza girarsi a guardare Blackthorne.

Fuori dal giardino tutti i Marroni erano schierati sui tre lati del quadrato formato dagli otto tatami posti al centro del cortile, davanti all’ingresso principale. Yabu e Kiri e le altre signore sedevano al posto d’onore, su una sola fila, rivolti verso sud. Lungo la strada anche i Grigi erano disposti in ordine di cerimonia e molti altri samurai, uomini e donne, si mescolavano a loro. A un segno di Sumiyori tutti si inchinarono. Mariko rispose con un inchino. Quattro samurai avanzarono e disposero un tappeto rosso vivo sui quattro tatami centrali.

Mariko si avvicinò a Kiri e salutò lei, Sazuko e tutte le altre signore, che le risposero con inchini e formule ufficiali di saluto. Blackthorne aspettava vicino ai cancelli. La vide abbandonare le dame e andarsi a inginocchiare di fronte a un minuscolo cuscino bianco, in mezzo al tappeto rosso. Con la destra estrasse dall’obi, pure bianco, il pugnale e lo depose sul cuscino. Chimmoko avanzò e le porse un piccolo lenzuolo bianco e una corda. Con il suo aiuto, Mariko sistemò perfettamente le pieghe del chimono, poi si legò alla vita il lenzuolo con la corda. Blackthorne comprese che serviva a non macchiarsi e a non scomporre l’abito al momento della morte.

Serena e pronta, Mariko alzò lo sguardo verso il torrione del castello. Il sole ne illuminava ancora l’ultimo piano, scintillando sulle tegole clorate. La luce fiammeggiante saliva rapida lungo la guglia. Poi scomparve.

Appariva minuscola, seduta là da sola, una macchia bianca sul riquadro rosso. La strada era già buia e i servi stavano accendendo le torce. Appena finito, corsero via rapidi e silenziosi com’erano venuti.

Mariko si sporse in avanti e raddrizzò il pugnale, poi ancora una volta guardò verso il portone. Ma era vuoto come prima.

“Kasigi Yabu-sama!”

“Sì, Toda-sama?”

“Sembra che il Nobile Kiyama abbia rinunciato ad assistermi. Vi prego, sarei onorata se voi mi faceste da secondo.”

“Sarà un onore per me,” rispose Yabu. Si inchinò e si alzò, portandosi dietro di lei, alla sinistra. La spada vibrò quando la estrasse dal fodero. Piantò saldamente i piedi al suolo e sollevò l’arma. “Sono pronto, signora,” disse.

“Vi prego, aspettate fino al secondo taglio.”

Mariko teneva gli occhi fissi sul pugnale. Con la mano destra si fece il segno della croce sul petto, poi si chinò e prese il pugnale, senza un tremito, e lo portò alle labbra, quasi ad assaggiare il sapore dell’acciaio lucente. Quindi lo sollevò contro la gola, con mano ferma, verso sinistra. In quel preciso istante apparvero delle fiaccole in fondo alla strada. Un corteo si avvicinò, guidato da Ishido.

Mariko non allontanò da sé l’arma. Yabu era come una molla trattenuta, pronta a raggiungere il segno. “Signora,” chiese, “volete aspettare o continuare? Desidero essere perfetto per voi.”

Mariko si costrinse ad arretrare dal baratro. “Io… aspettiamo. Io…” Abbassò il pugnale. La sua mano ora tremava. Con altrettanta lentezza Yabu si rilassò. La spada scomparve sibilando nel fodero ed egli si asciugò le mani sui fianchi.

Ishido si fermò sul portone. “Non è ancora il tramonto, signora. Il sole è ancora all’orizzonte. Siete così ansiosa di morire?”

“No, Nobile generale. Solo di obbedire al mio feudatario…” Strinse le mani per trattenerne il fremito.

Un mormorio iroso passò fra i Marroni alla sgarberia arrogante di Ishido e Yabu si mosse per lanciarsi contro di lui, ma si arrestò, sentendo che Ishido dichiarava: “La Nobile Ochiba ha pregato i reggenti, in nome dell’erede, di fare un’eccezione nel vostro caso. Noi abbiamo acconsentito alla sua richiesta. Questi sono i vostri permessi per partire domani all’alba.” Li infilò tra le mani di Sumiyori, che gli si trovava vicino.

“Signore?” chiese Mariko, con un fil di voce, stentando a capire.

“Siete libera di partire. All’alba.”

“E Kiritsubo-san e la Nobile Sazuko?”

“Non rientrano anche loro nel vostro ‘dovere’? Ci sono anche i permessi per loro.”

Mariko cercò di riflettere. “E… e per il bambino?”

“Anche per lui,” la risata di Ishido risuonò sprezzante. “E per tutti i vostri uomini.”

Yabu sillabò a fatica: “Un lasciapassare per ognuno?”

“Sì, Kasigi Yabu-san,” rispose Ishido. “Voi siete l’ufficiale al comando, ne? Andate subito dal mio segretario. Sta preparando tutti i vostri permessi, anche se non capisco perché degli ospiti ben accolti e onorati debbano volersene andare. Non ne vale la pena per diciassette giorni. Ne?

“E io, Nobile generale?” chiese fievolmente la vecchia Nobile Etsu, col cuore che le batteva, e timorosa di mettere in pericolo la vittoria di Mariko. “Io… posso partire anch’io?”

“Naturalmente, Nobile Maeda. Perché dovremmo trattenere qualcuno contro la sua volontà? Siamo forse dei carcerieri? Certamente no! Se l’ospitalità dell’erede vi appare così offensiva da volervene andare, andate, anche se dovete percorrere quattrocento ri fino a casa e altri quattrocento per tornare entro diciassette giorni. Io non capisco.”

“Vi prego… scusatemi… l’ospitalità dell’erede non è offens…”

Ishido la interruppe gelido. “Se volete partire, chiedete un permesso per le vie normali. Ci vorrà un giorno circa, ma provvederemo perché partiate in tutta sicurezza.” Poi si rivolse alle altre. “Tutte le signore, tutti i samurai, possono chiedere il permesso. Come ho già detto, è stupido andarsene per tornare entro diciassette giorni, è insultante verso l’erede, verso l’ospitalità della Nobile Ochiba e quella dei reggenti…” Il suo sguardo irrequieto tornò a posarsi su Mariko. “È insultante esercitare pressioni su di loro con minacce di seppuku, che una dama dovrebbe comunque fare in privato e non trasformarlo in un arrogante spettacolo pubblico. Ne? Io non vado cercando la morte delle donne, solo quella dei nemici dell’erede, ma se le donne gli sono dichiaratamente nemiche, sono pronto a sputare anche sui loro cadaveri.”

Girò sui tacchi, urlò un ordine ai Grigi e si allontanò. I capitani ripeterono l’ordine e tutti i Grigi si raccolsero in squadre e se ne andarono, salvo pochi che rimasero per rendere onore ai Marroni.

“Signora,” sussurrò rauco Yabu, asciugandosi di nuovo le mani sudate, e con in bocca un sapore amaro di bile, per non aver raggiunto l’acme dell’estasi di uccidere, “Signora, è finita. Avete… vinto. Avete vinto.”

“Sì… sì…” rispose lei. Le mani senza più forza cercarono di sciogliere i nodi della corda. Chimmoko andò ad aiutarla, le tolse il lenzuolo bianco e si ritirò dal tappeto rosso. Tutti fissavano Mariko, aspettando di vedere se sarebbe stata in grado di alzarsi e andarsene.

Mariko cercò di rizzarsi, ma non ci riuscì. Provò di nuovo e di nuovo non riuscì. Kiri, impulsivamente, avanzò per aiutarla, ma Yabu scosse il capo. “No, è un suo privilegio,” disse, e Kiri, ansante, tornò a sedere.

Blackthorne, accanto al cancello, era fuori di sé per la gioia di vederla liberata dalla condanna e ricordò la notte in cui anch’egli aveva sfiorato la morte, quando aveva dovuto alzarsi da uomo e da uomo tornarsene a casa senza aiuto, ed era diventato samurai. Continuò a fissarla, disprezzando il fatto che si ritenesse necessario quel tipo di coraggio, eppure comprendendone e rispettandone la necessità. Vide Mariko appoggiare di nuovo le mani sul tappeto rosso. Questa volta riuscì a sollevarsi. Si mise dritta, vacillò e quasi cadde, poi i piedi si mossero e lentamente, barcollando, lei uscì dal quadrato rosso, dirigendosi verso il portone del castello. A quel punto Blackthorne decise che Mariko aveva agito abbastanza, aveva sopportato abbastanza, aveva dimostrato abbastanza coraggio e le andò incontro, accogliendola fra le braccia proprio mentre sveniva.

Per un attimo rimase solo nello spiazzo, dritto, orgoglioso di essere solo e di avere deciso lui. Mariko giaceva fra le sue braccia come una bambola rotta. Egli la portò dentro il castello e nessuno si mosse né gli sbarrò il passo.