48

“I barbari vivono qui, Anjin-san,” annunciò il samurai.

Blackthorne, a disagio, cercò di scrutare nel buio. L’aria era pesante e afosa. “Dove? In quella casa?”

“Sì, quella. La vedete?”

A un centinaio di passi, un groviglio di casupole e vicoli, oltre un tratto di terreno melmoso, era dominato da una grande casa, che si disegnava imprecisa contro il cielo scuro. Blackthorne si guardò intorno per localizzare il punto in cui si trovava, agitando il ventaglio contro gli insetti. Appena lasciato il Primo Ponte si era sentito perso in un labirinto.

Avevano percorso innumerevoli vie e viuzze, prima in direzione della spiaggia, a est, su ponti e ponticelli, poi di nuovo verso nord, lungo un altro fiume che si snodava per i sobborghi, fra terre basse e umide. Più si allontanavano dal castello, più misere si facevano le strade e le abitazioni. La gente era più ossequiosa e poche luci trapelavano dagli shoji. Yedo gli appariva come una massa diffusa, composta da tanti agglomerati divisi soltanto dalle strade o dai corsi d’acqua.

Qui, al margine sudorientale il terreno era decisamente paludoso e la strada puzzava di marcio. Già da un po’ il cattivo odore andava addensandosi in modo avvertibile, un miasma proveniente da alghe e feci umane e fango, e su di esso si stendeva un altro odore, agrodolce, che non riusciva a individuare, ma gli sembrava noto.

“Puzza come Billingsgate con la bassa marea,” borbottò, ammazzando l’ennesimo insetto che gli si era fermato su una guancia. Poi udì una cantilena marinara in olandese e ogni fastidio fu dimenticato. “Ma non è Vinck?” Eccitato corse verso quel suono, con i portatori di fiaccole che gli illuminavano attentamente la via e i samurai al seguito.

Avvicinandosi vide che l’edificio a un piano era in parte giapponese, in parte europeo. Era appoggiato sui pilastri e cinto da una palizzata di bambù, isolato dal resto, e molto più nuovo delle casupole che l’attorniavano. Nella palizzata non c’era portone, solo un’apertura. Il tetto era di paglia, la porta d’ingresso robusta, le pareti di legno ruvido e le finestre chiuse con ante all’olandese. Dalle fessure, qua e là, usciva un po’ di luce. Il canto e il chiasso aumentarono, ma ancora non riuscì a riconoscere le voci. Le pietre del viottolo portavano direttamente alla veranda, attraverso un giardino incolto. Una breve asta per la bandiera era legata sul portone. Blackthorne si fermò a guardarla: ne pendeva immobile una bandiera olandese rimediata alla meglio e a quella vista sentì affrettarsi i battiti del cuore.

La porta d’ingresso era spalancata e la luce si riversava sulla veranda. Sulla soglia apparve Baccus Van Nekk, incespicando ubriaco, con gli occhi semichiusi. Si tirò da parte le brache e orinò, con un getto alto e curvo.

“Aaaahhh, non c’è niente come una pisciata!” mormorò beato.

“Davvero?” chiese in olandese Blackthorne. “Perché non usi un secchio?”

“Eh?” Van Nekk strizzò gli occhi miopi per distinguere le sagome che intravedeva tra le fiaccole. “Gesùincieloisamurai!” Con un grugnito cercò di riprendersi e s’inchinò goffamente. “Gomen nasai, samurai-sama. Ichibon gomen nasai a tutte le scimmie-sama.” Si raddrizzò, si costrinse a un sorriso penoso e mormorò fra sé: “Sono più ubriaco di quello che pensavo. Mi è sembrato che il bastardo figlio di puttana parlasse olandese! Gomen nasai, ne?” esclamò di nuovo, indietreggiando e trafficando con le brache.

“Ehi, Baccus, non sai fare altro che sporcare la tua stessa tana?”

“Come?” Van Nekk si guardò intorno e poi fissò, accecato, le fiaccole, cercando disperatamente di vederci bene. “Pilota?” balbettò. “Sei tu, pilota? Dio maledica i miei occhi… non riesco a vederci, pilota, per amor di Dio, sei tu?”

Blackthorne rise: il vecchio amico gli appariva così sperduto e nudo, così sciocco, con il pene di fuori. “Sì, sono io!” Poi si rivolse al samurai che seguiva la scena con disprezzo appena velato. “Matte kurasai.” Aspettatemi, per favore.

Hai, Anjin-san.”

Blackthorne avanzò e vide i cumuli di sudiciume sparsi per tutto il giardino. Con disgusto si sfilò le calzature e corse su per i gradini. “Salute, Baccus, sei più grasso di quando abbiamo lasciato Rotterdam!” Gli diede pacche affettuose sulle spalle.

“Signore Gesù Cristo, sei proprio tu?”

“Certo, sono io.”

“Ti avevamo dato per morto da un pezzo.” Van Nekk allungò una mano e lo toccò per assicurarsi di non sognare. “Oh, Gesù, le mie preghiere sono state esaudite! Che cosa ti è successo, pilota, che cosa hai fatto? È un miracolo! Ma sei davvero tu?”

“Sì. Adesso, per favore, rimettiti a posto le brache e entriamo,” gli rispose Blackthorne, conscio dello sguardo del samurai.

“Come? Oh! Oh, scusa, io…” Eseguì in fretta e intanto cominciarono a scorrergli le lacrime sulle guance. “Oh, Gesù! pilota… Ho creduto che l’alcol mi avesse giocato un altro scherzo. Vieni, lascia che ti annunci…”

Gli fece strada, e molta della sua ubriachezza era svanita per la felicità. Blackthorne lo seguì. Van Nekk gli tenne la porta aperta, poi urlò, superando le voci rauche: “Ragazzi! Guardate cosa ci ha portato Babbo Natale!” E per aumentare l’effetto sbatté la porta alle spalle di Blackthorne.

All’istante si fece silenzio. Blackthorne stentò ad adattare la vista a quella luce e l’aria fetida quasi lo soffocò. Tutti lo fissavano a bocca aperta come se fosse un fantasma, poi l’incanto si spezzò e fu un uragano di grida di gioia e benvenuto, mentre i suoi compagni lo stringevano e gli davano pacche sulla schiena, parlando tutti insieme. “Pilota, da dove vieni… Bevi qualcosa… Cristo! ma è possibile… Maledizione, che bellezza vederti… Ti avevamo dato per morto… Togliti da quella sedia, imbecille, la sedia migliore va al pilota… Ehi, del grog, con una dannata fretta, perdio! Mi caschino gli occhi se non gli stringo ancora la mano…”

Finalmente Vinck urlò: “Uno per volta, ragazzi! Dategli fiato! E dategli una sedia e da bere, in nome di Dio! Ho creduto che fosse un samurai anche lui…”

Qualcuno cacciò nelle mani di Blackthorne un boccale di legno, egli si accomodò sulla sedia traballante, tutti alzarono i boccali e il torrente di domande ricominciò.

Blackthorne si guardò intorno: la stanza era ammobiliata con delle panche e poche sedie e tavoli in rozzo legno, e illuminata con candele e lampade a olio. Un’enorme teiera di sakè stava sul pavimento sudicio. Uno dei tavoli era ingombro di piatti sporchi, con in mezzo un pezzo di carne arrosto, coperto di mosche. Sei donne piene di sudiciume gli si inchinavano, in ginocchio, schiacciate contro una parete. Gli uomini, sorridenti, aspettavano che lui parlasse: il cuoco Sonk, Johann Vinck, capocannoniere e vicenostromo, Salamon il muto, il giovane Croocq, Ginsel il velaio, Baccus van Nekk, capo mercante e tesoriere e infine Jan Roper, l’altro mercante, che sedeva in disparte come sempre, con il solito sorriso acido sulla faccia sottile e tirata.

“Dov’è il capitano-generale?” chiese.

“Morto, pilota, è morto…” risposero sei voci, confondendosi una con l’altra, finché Blackthorne alzò una mano. “Baccus?”

“È morto, pilota. Non è più uscito dal pozzo. Ti ricordi che stava male, eh? Dopo che ti portarono via, lo sentimmo come soffocare, nella notte. Vero, ragazzi?”

Un coro di sì, e van Nekk aggiunse: “Io gli stavo seduto vicino, pilota. Voleva acqua, ma non ce n’era e lui soffocava e si lamentava. Non ho un’idea chiara del tempo… eravamo tutti spaventati a morte… ma alla fine soffocò e poi, insomma, morì. Una brutta faccenda, pilota.”

“Fu terribile, sì, ma era la punizione di Dio,” intervenne Roper.

Blackthorne li osservò bene in faccia, uno per uno. “Qualcuno lo ha colpito? Per farlo tacere?”

“No, oh no! Ha tirato le cuoia e basta,” disse van Nekk. “E l’hanno lasciato nei pozzo con quell’altro, ti ricordi? il giappo, quello che cercava di annegarsi nel barile della piscia. Poi il Nobile Omi ha fatto portare fuori il corpo di Spillbergen e l’hanno bruciato. Invece quell’altro disgraziato l’hanno lasciato laggiù. Il Nobile Omi gli ha soltanto dato un coltello e lui si è tagliato il suo maledetto ventre e poi hanno riempito il pozzo. Te lo ricordi, pilota?”

“Sì. E Maetsukker?”

“Meglio che racconti tu, Vinck.”

“Faccia di topo marciva, pilota,” cominciò Vinck e gli altri si misero a gridare i particolari, finché lui urlò: “Baccus ha detto a me di parlare, Cristo! Toccherà a tutti!”

Le voci si calmarono e Sonk lo esortò fraternamente: “Parla tu adesso, Johann.”

“Pilota, il braccio ha cominciato a marcirgli. Era stato colpito durante lo scontro… ti ricordi, quando hanno colpito anche te? Cristo, sembra passato tanto tempo! Comunque, il braccio andava male. Il giorno dopo io gli ho cavato sangue, e poi ancora il giorno dopo, poi è diventato nero. Gli ho detto che era meglio inciderlo, altrimenti gli sarebbe caduto, gliel’avrò detto dieci volte, tutti lo dicevamo, ma lui non ha voluto. Al quinto giorno la ferita puzzava. L’abbiamo tenuto fermo e io ho tagliato via quasi tutto il marcio, ma non è servito. Io lo sapevo già, che non serviva, ma qualcuno pensava che valesse la pena di tentare. Quel bastardo di dottore giallo è venuto un paio di volte, ma non ha potuto far niente neanche lui. Faccia di topo ha resistito uno o due giorni, ma il marcio era troppo profondo e lui delirava. Verso la fine abbiamo dovuto legarlo.”

“Proprio così, pilota,” confermò Sonk, grattandosi con foga. “Abbiamo dovuto legarlo.”

“Che ne è stato del cadavere?”

“L’hanno portato sulla collina e l’hanno bruciato, anche quello. Volevamo dargli, a lui e al capitano-generale, una sepoltura cristiana, ma non ce l’hanno permesso. Li hanno bruciati e basta.”

Cadde di nuovo il silenzio. “Non hai bevuto, pilota!”

Blackthorne alzò il boccale alle labbra e assaggiò. Era sporco e gli venne quasi da vomitare. L’alcol gli bruciò la gola. La puzza dei corpi non lavati e dei vestiti sudici stava per vincerlo.

“Com’è il grog, pilota?” domandò van Nekk.

“Buono, buono.”

“Raccontagli, Baccus, forza!”

“Eh, l’ho distillato io, pilota,” dichiarò van Nekk molto orgoglioso, e anche gli altri sorrisero. “Adesso lo facciamo a barili. Riso, frutta e acqua, e li lasci fermentare, aspetti una settimana, più o meno, e poi con l’aiuto di un po’ di magia…” rise e si grattò felice. “Naturalmente sarebbe meglio lasciarlo stagionare per un anno, ma noi lo beviamo prima…” Le parole gli morirono sulle labbra. “Non ti piace?”

“Oh, scusa, è buono… buono.” Blackthorne scorse dei pidocchi fra i radi capelli di van Nekk.

In tono di sfida Jan Roper chiese: “E tu, pilota? Stai bene, non è vero? Che ci dici di te?”

Un altro fiume di domande, finché di nuovo Vinck gridò: “Dategli fiato!” E poi, con la sua faccia color cuoio accesa di gioia, aggiunse: “Cristo, quando ti ho visto sulla porta ti ho preso per una delle scimmie, lo giuro!”

Altro coro di assensi, interrotto da van Nekk: “È vero. Maledetti stupidi chimoni… sembri una donna, pilota… o uno di questi mezzi-uomini! Un sacco di giappi sono finocchi, perdio! Uno si era messo intorno a Croocq…” scoppiò una serie di risate e di oscenità rumorose, poi van Nekk riprese: “Vorrai dei vestiti decenti, pilota. Li abbiamo qui i tuoi, sai. Siamo venuti a Yedo con l’Erasmus. L’hanno messa all’ancora qui e abbiamo avuto il permesso di portarci a terra i nostri vestiti. Nient’altro. Abbiamo preso anche i tuoi… ce l’hanno permesso, di conservarli per te. Li abbiamo portati tutti. Valli a prendere, Sonk, eh?”

“Certo, ma più tardi, Baccus… non voglio perdere niente, eh?”

“Va bene.”

Il sorriso di Jan Roper era provocatorio. “Spade e chimono: come un vero pagano! Forse adesso preferisci i sistemi pagani, pilota?”

“I vestiti sono freschi, meglio dei nostri,” rispose Blackthorne, a disagio, “e mi ero dimenticato di essere vestito così. Tante cose sono accadute… Non avevo che questi, così mi sono abituato a portarli. Non ci ho mai riflettuto molto. Senza dubbio sono più comodi.”

“Quelle sono spade vere?”

“Naturale. Perché?”

“A noi le armi non sono permesse. Nessuna arma!” ringhiò Jan Roper. “Perché a te le permettono? Come a un samurai pagano?”

Blackthorne rise, seccamente. “Non sei cambiato, Jan Roper, vero? Ancora più santo del solito? Bene, a suo tempo parleremo anche delle mie spade, ma prima la notizia migliore. Sentite, entro un mese pressappoco, riprenderemo il mare.”

“Gesù! dici sul serio, pilota?” esclamò Vinck.

“Sì.”

Un ruggito di gioia e un’altra serie di domande e risposte. “Vi avevo detto che ce ne saremmo andati… che Dio era dalla nostra parte… Lasciatelo parlare… lasciate parlare il pilota…” finché Blackthorne alzò la mano.

Accennò alle donne, che ancora stavano da parte in ginocchio, e che, sentendosi osservate da lui, si prosternarono ancora di più. “Chi sono?”

Sonk scoppiò a ridere. “Le nostre pupe, pilota. Le nostre puttane, e a buon mercato. Cristo, costano meno di un bottone la settimana! Ne abbiamo una casa intera qua accanto… e un sacco di altre nel villaggio…”

“Squittiscono come donnole,” commentò Croocq, e Sonk annuì. “È vero, pilota. Naturalmente sono basse e con le gambe storte, ma sono piene di energia e senza sifilide. Ne vuoi una, pilota? Noi abbiamo le cuccette, non siamo come queste scimmie, abbiamo le cuccette e le nostre camere…”

“Prova Maria la Culona, pilota, è fatta per te,” propose Croocq.

La voce di Jan Roper li sovrastò. “Il pilota non vuole le nostre meretrici. Ha le sue. Vero, pilota?”

Le loro facce si accesero. “È vero, pilota? Hai delle donne? Raccontaci, avanti! Queste scimmie sono le migliori che abbiamo mai trovato, no?”

“Parlaci delle tue pupe, pilota!” E Sonk si grattò di nuovo, energicamente, i pidocchi.

“C’è molto da raccontare,” rispose Blackthorne. “Ma in privato. Meno orecchi ci sono, meglio è, vero? Mandate via le donne, poi parleremo.”

Vinck fece un cenno alle donne col pollice. “Filare, via! Hai?”

Le donne si inchinarono e mormorando scuse e ringraziamenti fuggirono, chiudendo la porta senza rumore.

“Prima parliamo della nave. È incredibile. Voglio ringraziarvi e congratularmi con voi per tutto il lavoro. Quando arriveremo a casa, insisterò perché riceviate il triplo del premio, per tutta quella fatica, e poi ci sarà un premio…” Vide che gli uomini si guardavano l’un l’altro, imbarazzati. “Che succede?”

Van Nekk, agitandosi, disse: “Non siamo stati noi, pilota. Sono stati gli uomini del Nobile Toranaga. Hanno lavorato loro. Vinck gli ha mostrato come fare.”

“Come?”

“Non ci hanno più permesso di salire a bordo. Nessuno ci è più andato tranne Vinck, e lui ci va ogni dieci giorni, pressappoco. Noi non abbiamo fatto niente.”

“Lui è stato l’unico,” intervenne Sonk, “e gli ha insegnato come fare.”

“Ma come ti sei spiegato con loro, Johann?”

“Un samurai parla portoghese e riusciamo a capirci. Questo samurai, si chiama Sato-sama, è stato messo al comando, quando siamo arrivati qui. Ha chiesto quali di noi erano ufficiali e marinai. Gli abbiamo risposto che c’era Ginsel, ma era soprattutto cannoniere, poi c’ero io e c’era Sonk che…”

“Che è il cuoco più schifoso…”

“Chiudi la tua dannata boccaccia, Croocq!”

“State zitti, tutti e due!” intervenne Blackthorne. “Continua, Johann.”

Vinck riprese. “Sato-sama mi ha domandato che cosa non funzionava sulla nave e io gli ho detto che bisognava carenarla e strofinarla e ripararla. Insomma, gli ho detto tutto quello che sapevo e loro ci si sono messi. L’hanno carenata bene, hanno pulito le sentine, le hanno lustrate come la casa di un principe di merda… o almeno, i samurai facevano i padroni e le altre scimmie lavoravano come diavoli, a centinaia. Porca miseria, pilota, non si sono mai visti operai come loro!”

“È vero,” confermò Sonk, “come diavoli!”

“Io ho fatto del mio meglio, in previsione del giorno… Gesù, pilota, dici davvero che possiamo andarcene?”

“Sì, se siamo pazienti e se…”

“Se Dio lo vuole, pilota. Solo allora.”

“Sì. Forse hai ragione,” rispose Blackthorne, pensando: che importa se Jan Roper è un fanatico? Ho bisogno di lui… di tutti loro. E dell’aiuto di Dio.

“Sì. Ci occorre l’aiuto di Dio,” disse e si rivolse di nuovo a Vinck. “Come va la chiglia?”

“Solida e pulita, pilota. Hanno lavorato meglio di quanto mi sarei mai aspettato. Come carpentieri, quei bastardi sono bravissimi, e come maestri d’ascia e funai… valgono qualunque olandese. Il sartiame e tutto… è perfetto.”

“Le vele?”

“Ne hanno fatto una serie di seta… robusta come la tela. Con una serie di riserva. Hanno tirato giù le nostre e le hanno copiate alla perfezione, pilota. I cannoni sono a posto nel miglior modo possibile… tutti di nuovo a bordo, e c’è una quantità di polvere e munizioni. È pronta a partire anche stanotte, se si volesse. Naturalmente non ha preso il mare, quindi delle vele non possiamo sapere finché non ci troveremo in una tempesta, ma ci giocherei la vita che sono solide come quando l’hanno varata nello Zuider-zee… anzi meglio, perché il legno si è stagionato, grazie a Dio!” Vinck riprese fiato. “Quando partiremo?”

“Fra un mese, circa.”

Si diedero di gomito l’un l’altro, eccitati al massimo e inneggiarono a gran voce al pilota e alla nave.

“E le navi nemiche? Ce ne sono qui intorno? E i premi?” domandò Ginsel.

“In abbondanza… oltre ogni speranza. Saremo tutti ricchi.”

Un’altra esplosione di giubilo. “Sarebbe ora.”

“Ricco, eh? Mi comprerò un castello.”

“Oh, Dio onnipotente, quando sarò a casa…”

“Ricchi! Evviva per il pilota!”

“Abbondanza di papisti da uccidere, anche?” s’informò calmo Jan Roper.

“Qual è il piano, pilota?” domandò van Nekk e tutti tacquero.

“Ci arrivo fra un minuto. Avete delle guardie? Potete muovervi liberamente, quando volete? Quante volte…”

Vinck rispose in fretta: “Possiamo muoverci nel villaggio, forse per una lega intorno. Ma non ci è permesso entrare a Yedo né…”

“Né attraversare il ponte,” interruppe allegramente Sonk. “Digli del ponte, Johann!”

“Oh, per l’amor di Dio! ci stavo arrivando, Sonk. Perdio, non continuare a interrompere! Pilota, c’è un ponte a mezzo miglio a sudovest, con una quantità di cartelli. Quello è il limite che ci è permesso toccare. Non dobbiamo superarlo. ‘Kinjiru’ dice il samurai. Tu capisci ‘kinjiru, pilota?”

Blackthorne annuì e non parlò.

“A parte quello, possiamo andare dove vogliamo, ma solo fino alle barriere. Ci sono barriere tutt’intorno, per mezza lega. Signore Gesù, chi ci crede? Presto a casa!”

“Digli del dottore e del…”

“Il samurai manda un dottore ogni tanto, pilota, e dobbiamo toglierci i vestiti e lui ci guarda…”

“Sì. Da vomitare, avere un bastardo pagano che ti guarda nudo come sei fatto.”

“A parte quello, pilota, non ci infastidiscono, salvo…”

“Ehi, non ti dimenticare che il dottore ci dà delle schifose erbe marce, ridotte in polvere per il ‘char’, che dovremmo mettere nell’acqua bollente. Ma noi le gettiamo via. Quando stiamo male, il vecchio Johann ci cava sangue e poi stiamo bene.”

“Sì, il char lo buttiamo via,” confermò Sonk.

“A parte quello, salvo…”

“Qui siamo fortunati, pilota, non com’era in principio.”

“È vero. In principio…”

“Digli dell’ispezione, Baccus!”

“Ci stavo arrivando, per amor di Dio, un po’ di pazienza, datemi fiato. Come posso raccontargli tutto con voi che strillate? Versatemi da bere!” Poi van Nekk riprese: “Ogni dieci giorni viene un samurai e noi ci mettiamo fuori in fila e lui ci conta. Ci danno dei sacchi di riso e delle monete di rame. Ce n’è abbastanza per tutto, pilota. Cambiamo il riso con carne e altra roba, frutta e tutto il resto. C’è roba in quantità e tutte le donne che si vogliono. In principio…”

“Non era così in principio. Diglielo, Baccus!”

Van Nekk si mise a sedere per terra. “Che Dio mi dia la forza!”

“Ti senti male, povero amico?” chiese premuroso Sonk. “Meglio che non beva più o ti torneranno i diavoli, eh? Una volta la settimana si presentano i diavoli, pilota. A tutti noi.”

“Volete stare zitti, mentre spiego le cose al pilota?”

“Chi, io? Non ho aperto bocca. Non ti interrompo. Tieni, qui c’è da bere!”

“Grazie, Sonk. Dunque, pilota, prima ci avevano messo in una casa in città, nella zona ovest…”

“Era giù, vicino ai campi.”

“Maledizione, allora parla tu, Johann!”

“Va bene. Cristo, pilota, era terribile! Niente grog né alcol e quelle dannate case di carta che sembra di vivere all’aperto… non puoi pisciare o grattarti il naso senza che ti stiano a guardare! E al minimo rumore arrivavano i vicini e i samurai piombavano sulla porta, e chi li vuole intorno quei bastardi? Ci agitavano sotto il naso le loro maledette spade, urlando di stare tranquilli. Bene, una notte qualcuno ha inciampato in una candela e le scimmie si sono trovate nei guai insieme a noi… Gesù, dovevi sentirle! Sono arrivate come sciami di api, come matti, sibilando e inchinandosi… Era bruciata solo una schifosa parete di carta… e loro a centinaia per la casa, bastardi! Tu…”

“Continua!”

“Vuoi parlare tu?”

“Continua, Johann, non dargli retta, è solo uno schifo di cuoco.”

“Che cosa?”

“Oh, sta’ zitto, per amor di Dio!” Van Nekk riprese il racconto in fretta. “Il giorno dopo, pilota, ci hanno portato via di là e ci hanno messo in un’altra casa, vicino ai moli. Ma erano gli stessi guai. Poi, qualche settimana dopo, Johann è capitato qui. A quel tempo era l’unico di noi che potesse muoversi, per via della nave. Lo venivano a prendere ogni giorno e lo riportavano al tramonto. Era fuori a pesca — siamo a un centinaio di metri dalla foce del fiume — e… meglio che lo dica tu, Johann.”

Blackthorne sentì un prurito sulla gamba nuda e distrattamente si grattò. Il prurito aumentò e vide il segno del morso di una pulce. Intanto Vinck riprendeva, con orgoglio. “Come dice Baccus, pilota, e io ho chiesto a Sato-sama se potevamo traslocare e lui ha risposto: ‘Perché no?’ Mi lasciavano pescare in una barchetta per passare il tempo. È stato il mio naso che mi ha guidato qui, pilota. Il mio vecchio naso ha detto: sangue!”

“Un macello! Macello e conceria! Ecco…” Blackthorne s’interruppe e impallidì.

“Che cosa c’è?”

“Questo è un villaggio degli eta? Gesù, questa gente… sono eta?”

“Che c’è di male?” domandò van Nekk. “Naturale che sono eta.

Blackthorne scacciò con la mano le miriadi di zanzare e si sentì accapponare la pelle. “Maledetti insetti! Sono… sono infetti, no? C’è una conceria, qui, vero?”

“Sì, poche strade più su. Perché?”

“Niente. Non avevo riconosciuto l’odore, ecco tutto.”

“Che cos’hanno gli eta?”

“Io… io non mi ero reso conto, stupido che sono. Se avessi visto uno degli uomini l’avrei riconosciuto dai capelli corti. Con le donne non si capisce. Continua la tua storia, Vinck.”

“Bene, hanno detto…”

Jan Roper lo interruppe. “Aspetta un momento, Vinck! Che cosa c’è di male negli eta, pilota?”

“Solo che i giapponesi li giudicano diversi. Sono i loro boia e lavorano le pelli e maneggiano i cadaveri.” Sentì pesare i loro sguardi su di sé, specie quello di Roper. “Gli eta lavorano le pelli,” ripeté, cercando di mantenere un tono indifferente, “e ammazzano tutti i vecchi cavalli e buoi e si occupano dei cadaveri.”

“Ma cosa c’è di male in questo, pilota? Ne hai seppelliti una dozzina anche tu, li hai avvolti nei teloni, li hai lavati… tutti lo abbiamo fatto, no? E noi macelliamo la nostra carne. Lo abbiamo sempre fatto. Ginsel, qui, ha impiccato… che c’è di male in questo?”

“Niente,” rispose Blackthorne, sapendo che era vero, ma sentendosi ugualmente contaminato.

Vinck brontolò: “Gli eta sono i migliori pagani che abbiamo trovato qui. Più simili a noi degli altri bastardi. Siamo maledettamente fortunati a trovarci qui, pilota, la carne non è un problema, e neanche il sego… e non ci danno nessun fastidio.”

“È vero. Se avessi vissuto con gli eta, pilota…”

“Cristo, il pilota ha dovuto vivere con quegli altri bastardi per tutto il tempo! Non può saperlo. Che ne diresti di chiamare Maria la Culona, Sonk?”

“Oppure Cosciacorta?”

“Merda, no, non quella vecchia puttana. Il pilota ne vuole una speciale.” “Ci scommetto che muore per un po’ di carne sul serio! Sonk, tagliane una fetta!”

“Ancora un po’ di grog…”

“Tre evviva per il pilota!”

Nel tumulto van Nekk, felice, batté la mano sulla spalla di Blackthorne. “Sei a casa, mio vecchio amico. Adesso che sei tornato, le nostre preghiere sono esaudite e tutto va bene. Sei a casa, amico mio. Senti, prendi la mia cuccetta, insisto…”

Blackthorne agitò la mano in segno di allegro saluto per l’ultima volta e un grido gli rispose dal buio, all’estremità del ponticello. Poi voltò le spalle, la forzata gaiezza svanì ed egli girò l’angolo, circondato dai dieci samurai della guardia.

Tornando al castello, si sentiva in preda alla confusione. Non c’era niente che non andasse negli eta, ma niente andava bene, affatto. Quello è il mio equipaggio, la mia gente, e questi sono pagani e stranieri e nemici…

Strade e ponti e vicoli passavano senza che li vedesse. Poi notò che aveva una mano dentro il chimono, e che si stava grattando. Si fermò di botto. “Maledetti sporchi…” sciolse la cintura, si strappò di dosso il chimono madido di sudore e, per quanto fosse infetto, lo gettò in un fosso. “Dozo, nan desu ka, Anjin-san?” chiese un samurai.

Nani mo!” Niente, perdio. Blackthorne riprese il cammino, tenendo in mano le spade.

Ah! Eta! Wakarimasu! Gomen nasai!” I samurai parlottavano fra loro, ma egli non prestò attenzione. Così va meglio, pensò sollevato, senza badare alla sua quasi totale nudità. Sapeva solo che la sua pelle si era distesa ora che si era liberato dal chimono infestato di pulci.

Dio, come vorrei un bagno immediatamente!

Aveva raccontato agli uomini le sue avventure, ma non di essere samurai e hatamoto, né di essere un protetto di Toranaga, e neanche di Fujiko, né di Mariko. Non aveva neppure annunciato che sarebbero sbarcati in forze a Nagasaki e si sarebbero impadroniti della Nave Nera con un assalto, né che lui sarebbe stato a capo dei samurai. Glielo posso dire più tardi, quello e il resto. Ma potrei mai parlare loro di Mariko? I suoi zoccoli risuonarono sull’assito del Primo Ponte. Le sentinelle samurai, seminude anche loro, rimasero sedute finché lo riconobbero, poi si inchinarono al suo passaggio, fissandolo attente, perché lui era l’incredibile barbaro incredibilmente favorito da Toranaga, a cui incredibilmente Toranaga aveva concesso l’onore-mai-concesso-a-un-barbaro di diventare hatamoto e samurai.

Al portone sud lo aspettava una nuova guida, che lo scortò al suo alloggio, dentro la cerchia interna. Gli avevano assegnato una stanza in una delle case per gli ospiti, eleganti e ben fortificate, ma egli non volle entrare subito. “Prima bagno, prego,” disse al samurai.

“Ah, capisco. Molto giusto da parte vostra. La casa del bagno è da questa parte, Anjin-san. È una notte calda, ne? E ho sentito che siete stato fra gli Sporchi. Gli altri ospiti apprezzeranno molto la vostra premura. Grazie.”

Blackthorne non capì tutte le parole, ma ne afferrò il senso. Gli Sporchi! Così è giusto definire la mia gente e me… noi, non gli altri, poveracci.

“Buonasera, Anjin-san,” lo salutò il capo inserviente del bagno, un omone di mezza eta, dal ventre e dai bicipiti enormi. Lo aveva appena svegliato la cameriera, per annunciargli quel tardo cliente. Al suo battere di mani, accorsero le cameriere. Blackthorne le seguì nella prima stanza e si fece strofinare, e lavare i capelli, due volte. Poi entrò nella vasca incassata, nell’acqua piacevolmente calda, e si abbandonò al suo abbraccio riposante per il corpo e per la mente.

Più tardi mani robuste lo aiutarono a uscire e lo massaggiarono sciogliendogli i muscoli e ammorbidendo la pelle con olio profumato, poi gli consegnarono, nella stanza di riposo, un chimono fresco e pulito. Egli si sdraiò con un respiro di beatitudine.

Dozo gomen nasai… cha, Anjin-san?”

Hai. Domo.

Il cha arrivò ed egli annunciò alla cameriera che si sarebbe fermato a passare la notte lì, senza disturbarsi a raggiungere il suo alloggio. Poi, solo e tranquillo, sorseggiò il cha, sentendosene purificato. Erbe marce per il char… pensò con disgusto.

“Sii paziente, non turbare la tua armonia,” disse a voce alta. “Non sono che degli sciocchi ignoranti, non capiscono. Anche tu eri così, una volta. Non importa, glielo insegnerai.” Li allontanò dalla mente e prese il suo dizionario, ma poi — per la prima volta da quando lo possedeva — lo mise da parte e spense la candela. Sono troppo stanco, si confessò. Ma non tanto da non rispondere a una domanda semplice, gli disse la sua mente: sono davvero degli sciocchi ignoranti, o tu ti stai prendendo in giro?

Risponderò un’altra volta, quando sarà il momento. Adesso è una domanda senza importanza. Adesso so soltanto che non li voglio vicino.

Si girò su un fianco, accantonò il problema in uno scompartimento e si addormentò.

Si svegliò in perfetta forma. Chimono pulito, perizoma e tabi gli erano già stati preparati. I foderi delle spade erano lustri. Si vestì in fretta. Alcuni samurai lo aspettavano all’esterno e gli si inchinarono.

“Siamo la vostra guardia, oggi, Anjin-san.”

“Grazie. Andare nave adesso?”

“Sì. Qui c’è il vostro lasciapassare.”

“Bene, grazie. Posso chiedervi come vi chiamate?”

“Musashi Mitsutoki.”

“Grazie, Musashi-san. Andare adesso?”

Si recarono alla banchina. L’Erasmus era ben ormeggiato in acque profonde cinque-sei metri, con fondo sabbioso. Le sentine erano pulitissime. Blackthorne si tuffò ed esaminò la chiglia: pochissime alghe e solo qualche cirripede. Il timone era saldo. Nel magazzino, asciutto e immacolato, trovò una pietra focaia e provò ad accendere una piccolissima quantità di polvere da sparo, che si accese immediatamente. Tutto era in perfette condizioni.

Arrampicatosi sull’albero di trinchetto cercò crepe rivelatrici: nessuna. Né ce n’erano altrove. Numerose funi e sagole e sartie non erano annodate alla maniera giusta, ma sarebbe bastato poco tempo per sistemarle.

Tornato sul cassero si concesse un ampio sorriso. “Sei solida come… come…” non riuscì a trovare un termine di paragone e con una risata scese sottocoperta. Nella sua cabina si sentì estraneo e molto solo. Sulla cuccetta giacevano le sue spade. Le toccò, poi estrasse dal fodero Venditore d’olio: era mirabile di fattura, con la lama come un rasoio. Gli diede piacere guardarla, perché era una vera opera d’arte. Ma portatrice di morte, pensò, come sempre. Quante morti hai dato nei tuoi duecento anni di vita? Quante altre ne darai prima di essere distrutta tu stessa? È vero che alcune spade hanno una vita propria, come dice Mariko? Mariko. Che sarà… A quel punto vide riflesso nell’acciaio il suo baule da marinaio, e si strappò alla malinconia.

Rimise Venditore d’olio nel fodero, attento a non sfiorarne la lama, perché si diceva che ciò potesse macchiarne la perfezione. Appoggiato alla cuccetta, osservò il baule vuoto.

“Dove saranno finiti i rutter? E gli strumenti per la navigazione?” chiese alla sua immagine, riflessa nella lanterna di rame, lustrata a dovere come tutto intorno a lui. E si rispose: “Li comprerai a Nagasaki, insieme al resto dell’equipaggio. E prenderai Rodrigues. Lo agguanterai prima dell’attacco, proprio.” Si guardò sorridere. “Sei molto sicuro che Toranaga ti lascerà partire per la spedizione, vero?” “Sì,” si rispose con assoluta sicurezza. “Che lui vada o no a Osaka, io otterrò quello che voglio. Anche Mariko.”

Soddisfatto, infilò le spade nella cintura, tornò in coperta e attese che le porte venissero di nuovo sigillate.

Fu di ritorno al castello prima di mezzogiorno, perciò andò al suo alloggio a mangiare. Gli servirono del riso e due piatti di pesce cotto alla griglia sul carbone, come lui aveva insegnato al suo cuoco, con salsa di soia. Una bottiglia piccola di sakè, e poi cha.

“Anjin-san?”

Hai?”

Lo shoji si aprì e Fujiko si inchinò con un timido sorriso.