53

Blackthorne avanzava per il castello, con la sua guardia d’onore di venti vassalli, circondato da almeno duecento Grigi. Indossava con orgoglio un chimono nuovo, un’uniforme marrone di Toranaga, con i cinque stemmi, e per la prima volta portava anche il mantello da cerimonia, ad alette rigide. I biondi capelli ondulati erano raccolti in una coda perfetta. Le spade donategli da Toranaga spuntavano dalla cintura, secondo l’uso. Ai piedi i sandali e i tabi, nuovi anch’essi.

Ovunque stazionavano numerosi Grigi, a dimostrazione della forza di Ishido, poiché quella sera tutti i daimyo e i generali e anche i funzionari samurai di un certo rango erano stati invitati nel grande salone, che il Taikō aveva fatto costruire dentro la cerchia più interna delle fortificazioni. Il sole era già calato e la notte stava sopraggiungendo rapida.

La perdita di Uraga è stata terribile, pensava Blackthorne, senza avere ancora capito se l’aggressione fosse stata diretta contro di lui o contro Uraga. Ho perduto la mia migliore fonte di informazioni.

“A mezzogiorno andrete al castello, Anjin-san,” gli aveva detto Yabu, tornando a bordo quella mattina. “Verranno a prendervi i Grigi. Capite?”

“Sì, Yabu-sama.”

“Adesso è tutto tranquillo. Mi spiace dell’attacco. Shigata ga nai! I Grigi vi porteranno in un posto sicuro. Stanotte resterete al castello. Nella parte che è riservata a Toranaga. Domani andremo a Nagasaki.”

“Abbiamo il permesso?”

Yabu aveva scosso il capo, esasperato. “Fingeremo di andare a Mishima a prendere il generale Hiro-matsu. E anche il Nobile Sudara e la sua famiglia. Capite?”

“Sì.”

“Bene. Buon riposo, Anjin-san. Non preoccupatevi dell’attacco. Adesso è stato ordinato a tutte le barche di tenersi alla larga da qui. La zona è kinjiru.”

“Capisco. Scusate, prego, che cosa succede stasera? Perché io al castello?”

Yabu aveva sorriso con la sua smorfia contorta e gli aveva detto che lui era in mostra, che Ishido volevo rivederlo. “Come ospite sarete al sicuro.” E si era allontanato dalla galea.

Blackthorne era sceso sottocoperta, lasciando di guardia Vinck, ma si era appena addormentato che Vinck lo aveva chiamato e aveva dovuto correre di sopra. Una piccola fregata portoghese con venti cannoni stava entrando in porto, a vele spiegate.

“Un bastardo che ha fretta,” aveva osservato Vinck, ansioso.

“Deve essere Rodrigues. Nessun altro entrerebbe in quel modo, con tutta la velatura alzata.”

“Se fossi in te, pilota, me ne andrei di qui con la marea, e anche senza Cristo, siamo come topi in trappola! Cerchiamo di uscirne…”

“Resteremo! Non riesci a cacciartelo in testa? Resteremo finché non ci permetteranno di partire. Fino a quando Ishido non ci dirà che possiamo andarcene, anche se scendessero a terra il papa e il re di Spagna!”

Era tornato di sotto, ma il sonno non era più venuto. A mezzogiorno si erano presentati i Grigi, e lo avevano accompagnato al castello. Lungo il percorso erano passati accanto al luogo delle esecuzioni: c’erano sempre le cinque croci, e cinque corpi vi erano legati. Accanto a ogni croce stavano i due addetti con la lancia e intorno la folla. Blackthorne aveva rivissuto i momenti terribili della prigionia e neanche la mano sulla spada e la presenza dei vassalli accanto a sé avevano diminuito la sua angoscia. I Grigi lo avevano scortato fino alle stanze di Toranaga, dove abitavano Kiritsubo e Sazuko e pochi samurai. Aveva fatto il bagno e indossato i vestiti nuovi.

“La Nobile Mariko si trova qui?”

“No, signore,” aveva risposto l’inserviente del bagno.

“Dove potrei trovarla? Ho dei messaggi urgenti per lei.”

“Spiacente, non lo so, Anjin-san. Scusate.”

Nessuno dei servi poteva aiutarlo. Si era vestito, poi si era immerso nello studio del dizionario, cercando di mandare a mente tutte le parole che potevano servirgli, per prepararsi il meglio possibile. Quindi era uscito in giardino per guardare le rocce crescere. Ma non crescevano mai.

Ora stava attraversando il fossato più interno. Fiaccole e luci splendevano tutt’intorno. Scacciò l’ansia e mise piede sul ponte di legno. Altri ospiti percorrevano la stessa via ed egli ne avvertì gli sguardi su di sé. Superata l’ultima saracinesca, i Grigi lo condussero di nuovo al grande portone e qui lo lasciarono, mettendosi da parte ad aspettarlo, accanto ad altri samurai. Blackthorne entrò nelle fauci ben illuminate del leone.

Era una sala immensa con un altissimo soffitto a decorazioni d’oro, sorretto da colonne dorate. Le travature del soffitto erano in legni preziosi, lucidissimi, ben curati come le tappezzerie. Vi erano radunati cinquecento samurai con le mogli, in una fantasmagoria di colori e i profumi si mescolavano all’odore d’incenso dei legni preziosi che ardevano in piccoli bracieri lungo le pareti. Blackthorne cercò tra la folla un volto conosciuto, Mariko o Yabu, ma non li scorse. Da un lato si allineava una piccola folla di ospiti in attesa di inchinarsi davanti alla piattaforma rialzata che sorgeva all’estremità della sala. Là stava in piedi il cortigiano, il principe Ogaki Takamoto. Blackthorne riconobbe Ishido — alto, magro, dall’aria prepotente — anch’egli accanto alla piattaforma e ricordò la forza del colpo ricevuto da lui in piena faccia e poi le proprie dita intorno a quel collo.

Sulla piattaforma, da sola, sedeva la Nobile Ochiba, su un comodo cuscino. Anche da lontano vide la ricchezza squisita del chimono, in fili d’oro intrecciati a una seta del più raro azzurro cupo, quasi nero. “La eccellentissima” l’aveva chiamata Uraga, con timore, raccontandone la storia durante il viaggio.Era sottile e snella, come una fanciulla, con una chiara pelle luminosa. Gli occhi erano pesantemente truccati, i capelli acconciati così da sembrare un elmo alato.

Il corteo degli ospiti avanzava lentamente. Blackthorne si teneva da una parte, e superava in altezza tutti i vicini. Gentilmente si spostò per dare il passo ad alcuni ospiti e vide Ochiba guardarlo. Anche Ishido si volse verso di lui. Si dissero qualcosa e la donna agitò il ventaglio. Di nuovo i loro occhi si posarono su di lui ed egli a disagio cercò di ritirarsi contro una parete, ma un Grigio glielo impedì. “Dozo,” gli disse con cortesia, indicandogli la fila in attesa.

“Hai, domo,” rispose Blackthorne e si unì agli altri. Quelli davanti e quelli che si andavano aggiungendo dietro di lui, si inchinarono, l’inglese rispose e ogni conversazione si spense. Tutti lo guardavano: gli invitati che lo precedevano, imbarazzati, si fecero da parte ed egli si trovò davanti alla piattaforma. Per un attimo rimase immobile, irrigidito. Poi avanzò, nel più assoluto silenzio. Giunto alla piattaforma si inginocchiò e si inchinò, ritualmente, prima a lei, poi a Ishido, come aveva visto fare agli altri. Si rialzò, col terrore che le spade cadessero o un piede gli scivolasse. Tutto andò bene ed egli cominciò a ritirarsi.

“Aspettate, Anjin-san, vi prego,” disse Ochiba.

Blackthorne attese. La luminosità e la femminilità di lei parvero più intense, ed egli avvertì l’aura di sensualità che ne emanava, senza che lei neppure lo volesse.

“Mi hanno riferito che parlate la nostra lingua…” La sua voce era unica, inimitabile.

“Vi prego di scusarmi, altezza,” cominciò Blackthorne, con la sua frase-chiave mandata a memoria, incespicando lievemente per il nervosismo. “Sono molto spiacente, ma devo usare parole brevi e pregarvi rispettosamente di ricorrere a parole molto semplici, così che io abbia l’onore di capirvi.” Sapeva che la sua vita poteva dipendere dalle risposte che avrebbe dato. L’attenzione di tutti era concentrata su di loro. Con la coda dell’occhio scorse Yabu avanzare tra la folla, per avvicinarsi. “Posso rispettosamente complimentarmi per il vostro compleanno e pregare che viviate tanto da goderne altri mille?”

“Queste non sono parole semplici, Anjin-san,” osservò Ochiba.

“Scusatemi, altezza. Studiato notte scorsa. Modo giusto di dire, ne?”

“Chi ve l’ha insegnato?”

“Il mio vassallo, Uraga-noh-Tadamasa.”

Ochiba aggrottò lievemente la fronte e guardò Ishido, che si chinò a parlarle, troppo in fretta perché Blackthorne cogliesse altro che la parola “frecce”.

“Ah, il prete cristiano rinnegato che è stato ucciso questa notte sulla vostra nave…”

“Altezza?”

“L’uomo… il samurai che è stato ucciso, ne? La notte scorsa sulla nave. Capite?”

“Scusate. Sì, lui.” Blackthorne gettò un’occhiata a Ishido, poi di nuovo a lei. “Perdonate, altezza, permesso salutare il Nobile generale?”

“Sì, avete il permesso.”

“Buonasera, Nobile generale,” disse Blackthorne con studiata cortesia. “Al nostro ultimo incontro io terribilmente pazzo. Molto spiacente.”

Ishido gli ricambiò l’inchino, freddamente. “Sì, lo eravate. E molto scortese. Spero che non impazzirete di nuovo stasera o in futuro.”

“Molto pazzo quella sera. Scusatemi, vi prego.”

“È una pazzia frequente fra i barbari, ne?”

Una simile sgarberia in pubblico era molto grave. Blackthorne colse la sorpresa anche sul volto di Ochiba e rischiò. “Ah, Nobile generale, avete tutte le ragioni. Barbari sempre stessa pazzia. Ma, scusate, adesso io sono samurai — hatamoto — questo un grande, immenso onore per me. io non sono più un barbaro.” Parlava con la voce che usava sul cassero della nave, che senza essere alta giungeva però in ogni angolo della sala. “Adesso io capisco le maniere dei samurai e un poco il bushido. E il wa. Non più barbaro, scusate. Ne?” Pronunciò l’ultima parola come una sfida, senza timore. Sapeva che i giapponesi capivano l’orgoglio e la virilità e li tenevano in onore.

Ishido rise. “Dunque, il samurai Anjin-san!” esclamò allegro. “Accetto le vostre scuse. Le voci sul vostro coraggio sono fondate. Bene, molto bene. Anch’io dovrei scusarmi. Terribile che degli sporchi ronin abbiano potuto compiere quell’attacco nella notte. Capite?”

“Sì, capisco, signore. Grande male. Quattro morti: uno dei miei e tre Grigi.”

“Sentitemi, è stato molto male, ma non vi preoccupate, Anjin-san. Non più.” Ishido osservò la folla: tutti lo sentivano benissimo. “Adesso io ho messo delle guardie. Capito? Guardie molto attente. Niente più attacchi di assassini. Siete molto ben custodito adesso, qui nel castello.”

“Grazie. Spiacente del disturbo.”

“Nessun disturbo. Siete importante, ne? Siete un samurai e avete un posto importante presso il Nobile Toranaga. Io non lo dimentico… non temete.”

Blackthorne lo ringraziò di nuovo e si rivolse a Ochiba. “Altezza, al mio paese ha una… abbiamo una regina. Scusate il mio cattivo giapponese… Sì, nel mio paese regna una regina. Al mio paese abbiamo usanza di dover sempre offrire a signore dono di compleanno. Anche alla regina.” Dalla manica trasse un fiore di camelia rosa, che aveva colto in giardino. Lo depose davanti a lei, timoroso di esagerare. “Scusate, prego, se non offerto con buone maniere.”

Ochiba guardò il fiore. Cinquecento persone aspettavano, con il fiato sospeso, di vedere come avrebbe reagito all’audacia e alla galanteria del barbaro e alla trappola che, forse inconsapevolmente, le aveva aperto davanti.

“Io non sono regina, Anjin-san,” rispose Ochiba lentamente. “Sono solo la madre dell’erede e la vedova del Taikō. Non posso accettare il vostro dono come una regina, perché non lo sono, non lo potrò mai essere, e non pretendo né desidero essere una regina.” Poi sorrise a tutta la sala e, rivolta ai presenti, aggiunse: “Ma come una signora nel giorno del suo compleanno, forse voi mi darete il permesso di accettare il dono dell’Anjin-san?”

Il pubblicò scoppiò in un applauso. Blackthorne si inchinò e la ringraziò, comprendendo soltanto che il dono era stato accettato. Quando la folla si fu calmata, Ochiba esclamò a voce alta: “Mariko-san, il vostro allievo vi rende davvero onore, ne?”

Mariko stava avvicinandosi, accompagnata da un giovanetto. Vicino a lei Blackthorne riconobbe Kiritsubo e Sazuko. Vide il giovanetto soffermarsi a sorridere a una fanciulla, poi raggiungere Mariko. “Buonasera, Nobile Toda.” E, inebriato dal successo, avventatamente aggiunse in latino: “La serata è resa più bella dalla tua presenza.”

“Grazie, Anjin-san,” rispose Mariko, con un lieve rossore. Si accostò alla piattaforma, mentre il ragazzo restava indietro, fra gli spettatori. Mariko si inchinò a Ochiba. “Io ho fatto ben poco, Ochiba-sama. È tutta opera dell’Anjin-san e del libro di parole che gli hanno dato i padri cristiani.”

“Ah, sì, il libro di parole!” esclamò Ochiba e chiese a Blackthorne di mostrarglielo e di spiegarglielo, con l’aiuto di Mariko. Ne fu affascinata, e così pure Ishido. “Dobbiamo averne delle copie, generale. Ordinate loro di darci cento copie di questo libro. Così i nostri giovani potranno imparare la loro lingua, ne?”

“Sì. È una buona idea, Ochiba-sama. Più presto avremo i nostri interpreti, meglio sarà.” Ishido rise. “Che i cristiani rompano da sé il loro monopolio, ne?”

Un samurai sui sessantanni, che stava in prima fila, intervenne. “I cristiani non hanno nessun monopolio, Nobile generale. Siamo noi a chiedere ai padri cristiani — anzi insistiamo su questo — di farci da interpreti e mediatori perché sono i soli che sappiano parlare entrambe le lingue e di cui entrambe le parti si fidino. Fu il Nobile Goroda a iniziare questo sistema, ne? E il Taikō continuò.”

“Certo, Nobile Kiyama, non intendevo mancare di rispetto ai daimyo e ai samurai che sono diventati cristiani. Mi riferivo solo al monopolio dei preti cristiani,” replicò Ishido. “Per noi sarebbe meglio se fosse il nostro popolo a controllare il commercio con la Cina, e non dei preti cristiani, o dei preti in genere.”

“Non si è mai verificato un caso di frode, Nobile generale. I preti sono onesti, il commercio facile e ben organizzato e i padri hanno in pugno la loro gente. Senza i barbari meridionali non c’è seta, né commercio con la Cina. Senza i padri potremmo andare incontro a gravi fastidi. Molto gravi, mi spiace dirlo. Scusatemi se ne ho accennato.”

“Ah, Nobile Kiyama,” intervenne Ochiba, “sono certa che il Nobile Ishido è onorato che voi lo abbiate corretto. Non è vero, Nobile generale? Che farebbe il Consiglio senza l’illuminato parere del Nobile Kiyama?”

“Certamente,” rispose Ishido.

Kiyama si inchinò rigidamente, abbastanza compiaciuto. Ochiba osservò il giovanetto e agitò il ventaglio. “E voi, Saruji-san? A voi piacerebbe imparare il barbaro?”

Il ragazzo arrossì sotto quello sguardo. Era sottile e di bell’aspetto e cercava disperatamente di apparire più maturo dei suoi quindici anni. “Spero di non doverlo fare, Ochiba-sama, no… ma se mi fosse ordinato, proverei. Proverei in ogni modo.”

Risero della sua ingenuità e Mariko disse con orgoglio, in giapponese: “Anjin-san, questo è mio figlio, Saruji.” Blackthorne aveva seguito con la massima concentrazione lo scambio di frasi, ma erano troppo rapide e non aveva capito. Però aveva colto il nome “Kiyama” e un brivido di allarme lo aveva percorso. Si inchinò a Saruji e questi gli rispose con un altro inchino. “È un bel giovane. Fortunata avere bel figlio, Mariko-sama. ” Lo sguardo nascosto sotto le palpebre era fisso sulla mano destra del ragazzo, rattrappita e deforme. Ricordò che Mariko gli aveva raccontato come il parto fosse stato travagliato e lungo. Povero ragazzo, pensò. Come potrà usare la spada? Distolse lo sguardo, che nessuno aveva notato, tranne Saruji. E sul suo viso Blackthorne lesse dolore e imbarazzo.

“Fortuna avere figlio bello,” ripeté a Mariko. “Ma certo impossibile, Mariko-san, avere figlio così grande… non abbastanza anni, ne?”

“Siete sempre così galante, Anjin-san?” chiese Ochiba. “Dite sempre frasi così abili?”

“Prego?”

“Ah, sempre così abile? Complimenti? Capite?”

“No, scusatemi.” Gli faceva male la testa per lo sforzo di concentrarsi, ma quando Mariko gli ebbe riferito le parole di Ochiba, riuscì ugualmente a rispondere con finta gravità: “Scusate, Mariko-sama, se Saruji-san è proprio vostro figlio, dite alla Nobile Ochiba che non sapevo che qui le dame si sposassero a dieci anni.”

Lei tradusse, aggiungendo qualcosa che li fece ridere.

“Che cosa avete detto?”

“Ah!” Mariko notò lo sguardo iroso di Kiyama fisso su Blackthorne. “Scusatemi, signore, posso presentarvi l’Anjin-san?”

Kiyama ricambiò cortesemente l’inchino perfetto del pilota. “Si dice che voi affermiate di essere cristiano.”

“Prego?” Kiyama non si degnò di ripetere e Mariko tradusse.

“Scusatemi, Nobile Kiyama,” rispose Blackthorne in giapponese. “Sì, sono cristiano, ma di un’altra setta.”

“La vostra setta non è ben accetta nelle mie terre. Né a Nagasaki… né a Kyushu, suppongo… né in nessuna terra appartenente a un daimyo cristiano.”

Mariko continuò a sorridere. Stava chiedendosi se Kiyama avesse ordinato personalmente l’assassinio al sicario Amida, e anche l’aggressione della notte precedente. Tradusse, smussando la dura scortesia di Kiyama e tutti nella sala ascoltarono attenti.

“Io non sono un prete,” replicò Blackthorne, rivolto a Kiyama. “Se nella vostra terra… solo commercio. Non discorso o insegnamento da preti. Rispettosamente chiedo solo commercio.”

“Io non voglio il vostro commercio e non voglio voi nelle mie terre. A voi esse sono vietate, pena la morte. Capite?”

“Sì, capisco. Mi spiace.”

“Bene.” Kiyama si voltò altezzosamente verso Ishido. “Dovremmo escludere totalmente questa setta e questi barbari dall’impero. Lo proporrò al Consiglio nella prossima riunione. E devo dichiarare apertamente che ritengo che il Nobile Toranaga sia stato sconsiderato nel fare samurai uno straniero, e in particolare quest’uomo. Rappresenta un precedente molto pericoloso.”

“Ma certo ha poca importanza! Tutti gli errori dell’attuale signore del Kwanto verranno corretti ben presto. Ne?”

“Tutti commettono errori, generale,” ribatté puntigliosamente Kiyama, “Dio soltanto è onniveggente e perfetto. L’unico vero errore del Nobile Toranaga è di aver anteposto i propri interessi a quelli dell’erede.”

“Infatti,” rispose Ishido.

“Scusatemi, vi prego,” intervenne Mariko, “ma questo non è vero. Siete entrambi in errore sul mio padrone.”

Kiyama si rivolse a lei, con cortesia. “È giustissimo che voi prendiate questo atteggiamento, Mariko-san. Ma, vi prego, non parliamone stasera. Dov’è dunque il Nobile Toranaga, in questo momento, generale? Quali sono le ultime notizie?”

“Ho saputo che ieri si trovava a Mishima. E ricevo rapporti ogni giorno sul suo viaggio.”

“Bene. Quindi entro due giorni uscirà dai suoi confini?”

“Sì. Il Nobile Ikawa Jikkyu è pronto ad accoglierlo degnamente.”

“Bene.” Kiyama sorrise a Ochiba, che gli era molto cara. “In quel giorno, signora, per celebrare l’occasione, vorrete forse chiedere all’erede se permetterà ai reggenti di rendergli omaggio?”

“L’erede ne sarà onorato, signore,” rispose Ochiba, suscitando un applauso. “E forse essere tutti suoi ospiti per una gara poetica. Acconsentirebbero i reggenti a fungere da giudici?”

Altri applausi.

“Grazie, ma forse dovreste essere voi e il principe Ogaki e qualche dama i giudici.”

“Va bene, se lo desiderate.”

“Quale ne sarà il tema, signora? E quale il primo verso?” Kiyama era molto soddisfatto perché andava famoso per l’abilità di verseggiatore quanto per la crudeltà e le capacità di spadaccino.

“Vi prego, Mariko-san, volete rispondere voi al Nobile Kiyama?” disse Ochiba e molti l’ammirarono di nuovo, perché lei era una mediocre poetessa, mentre Mariko era celebre.

Mariko fu lieta che fosse venuto il momento di cominciare. Rifletté un istante, poi propose: “Dovrebbe essere sul presente, Nobile Ochiba. E il primo verso dovrebbe essere: ‘Su un ramo spoglio.’ ”

Ochiba e tutti si congratularono per la scelta. Kiyama, ora di ottimo umore, osservò: “Eccellente, ma dovremo essere bravissimi per gareggiare con voi, Mariko-san.”

“Spero che mi scuserete, signore, ma io non entrerò in gara.”

“Ma certo che dovete partecipare!” rise Kiyama. “Siete uno dei poeti migliori del regno! Non sarebbe la stessa cosa se voi mancaste.”

“Mi dispiace, signore, spero che mi scuserete, ma io non sarò qui.”

“Non capisco.”

“Che cosa intendete dire, Mariko-san?” chiese Ochiba.

“Scusatemi, Ochiba-sama,” rispose Mariko, “ma lascerò Osaka domani… con le Nobili Kiritsubo e Sazuko.”

Il sorriso di Ishido scomparve. “Partite per dove?”

“Andiamo incontro al nostro feudatario, signore.”

“Lui… il Nobile Toranaga sarà qui entro pochi giorni, ne?”

“Sono mesi che la Nobile Sazuko non lo vede e il mio signore non ha ancora avuto la gioia di conoscere il suo nuovo nato. Naturalmente la Nobile Kiritsubo ci accompagnerà. È da altrettanto tempo che egli non vede la decana delle sue dame, ne?”

“Toranaga-sama sarà qui tanto presto che non è necessario andargli incontro.”

“Ma io lo ritengo necessario, generale.”

Ishido ribatté irritato: “Siete appena arrivata e noi aspettavamo il piacere della vostra compagnia, Mariko-san. In particolare la Nobile Ochiba. E sono d’accordo con il Nobile Kiyama: naturalmente dovete partecipare alla gara poetica.”

“Mi dispiace, ma non sarò qui.”

“Evidentemente siete stanca. Siete appena arrivata, e questo non è il momento di discutere di argomenti così personali.” Ishido si rivolse a Ochiba. “Forse, signora, dovreste salutare gli altri ospiti…”

“Sì, certo,” rispose Ochiba, arrossendo. Subito si formò la fila in attesa e una serie di conversazioni riprese, per interrompersi bruscamente quando Mariko disse: “Grazie, Nobile generale. Sono d’accordo con voi, ma questo non è un argomento personale e non c’è niente da discutere. Partirò domani per rendere omaggio al mio feudatario, insieme alle sue signore.”

“Voi siete qui, Mariko-san,” rispose freddamente Ishido, “per invito personale del Figlio del Cielo, con il benvenuto dei reggenti. Abbiate pazienza. Il vostro feudatario sarà ben presto qui anche lui.”

“Certo, signore, ma l’invito di sua maestà è per il ventiduesimo giorno del mese. Non ordina a me — né a nessun altro — di restare confinato a Osaka fino a quel momento. O forse sì?”

“Dimenticate la vostra educazione, Nobile Toda.”

“Scusate, sarebbe l’ultima mia intenzione. Perdonate, vi chiedo scusa.” Mariko si rivolse al cortigiano Ogaki. “Signore, l’invito dell’imperatore esige che io stia qui fino al suo arrivo?”

Ogaki rispose con un sorriso stereotipato. “L’invito è per il ventiduesimo giorno di questo mese, signora. Esige la vostra presenza per allora.”

“Grazie.” Mariko si inchinò e si voltò di nuovo a fronteggiare Ochiba e Ishido. “Esige la mia presenza per quel giorno, generale, e non prima. Per cui domani partirò.”

“Siate paziente, vi prego, Mariko-san. I reggenti vi hanno accolto con piacere e vorremmo il vostro aiuto per completare i preparativi prima dell’arrivo del Figlio del Cielo. Ora, Nobile Ochi…”

“Spiacente, signore, ma gli ordini del mio feudatario hanno la precedenza. Domani devo partire.”

“Non partirete domani, e vi si ord… vi si prega, Mariko-san, di partecipare alla gara di poesia della Nobile Ochiba. Ora, Nobile…”

“Allora sono confinata qui… contro la mia volontà?”

“Mariko-san, non parliamone adesso, vi prego!” esclamò Ochiba.

“Chiedo scusa, Ochiba-sama, ma io sono una persona semplice. Ho dichiarato esplicitamente di avere degli ordini da parte del mio feudatario. Se non posso obbedire, voglio sapere perché. Nobile generale, sono confinata qui fino al ventiduesimo giorno? E se è così, per ordine di chi?”

“Siete un’ospite onorata,” replicò Ishido, misurando le parole, e deciso a che lei si sottomettesse. “Vi ripeto, signora, il vostro feudatario sarà qui ben presto.”

Mariko sentì il potere di Ishido e lottò per resistere. “Certo, ma di nuovo chiedo rispettosamente: sono confinata a Osaka per i prossimi diciotto giorni? E se così, per ordine di chi?”

Ishido la inchiodava con lo sguardo. “No, non siete confinata.”

“Grazie, generale. Scusatemi, vi prego, se ho parlato in modo così diretto.”

Molte signore nella sala si girarono verso i vicini e qualcuna espresse a parole quanto andavano pensando molte di quelle trattenute a Osaka contro la loro volontà: “Se può andarsene lei, lo posso anch’io, e anche tu, ne? Domani me ne vado… oh, che felicità!”

La voce di Ishido tagliò quei sussurri come una lama. “Ma, Nobile Toda, poiché avete voluto parlare con tanta presunzione, sento che è mio dovere chiedere ai reggenti di porre un rifiuto ufficiale… nel caso altri condividano l’equivoco.” Sorrise malevolo al pubblico raggelato. “Fino a quel momento vi terrete pronta per rispondere alle loro domande e ricevere i loro ordini.”

“Ne sarei onorata,” rispose Mariko, “ma il mio dovere è verso il mio feudatario.”

“Naturalmente. Ma si tratterà solo di pochi giorni.”

“Spiacente, signore, ma per i prossimi giorni il mio dovere è di rispettare gli ordini del mio feudatario.”

“Vi dominerete con la pazienza. Ci vorrà poco tempo. La questione è chiusa. Ora, Nobile Ki…”

“Spiacente, ma io non posso rinviare la partenza.”

“Vi rifiutate di obbedire al Consiglio dei reggenti?” abbaiò Ishido.

“No, signore,“ ribatté con fierezza Mariko, “se questo non ostacola il mio dovere verso il mio feudatario, che è il primo dovere di un samurai!”

“Vi-terrete-a-disposizione-dei-reggenti-con-pazienza-filiale!”

“Spiacente, ho l’ordine del mio feudatario di accompagnare incontro a lui le sue signore. Immediatamente.” Trasse dalla manica una pergamena, e la porse a Ishido con atteggiamento formale.

Egli l’aprì con un gesto brusco e la scorse in fretta, poi alzò gli occhi. “Anche così, aspetterete gli ordini dei reggenti.”

Mariko guardò Ochiba con speranza, ma incontrò uno sguardo di assoluta disapprovazione. Si volse verso Kiyama, il quale non aprì bocca, con aria altrettanto dura.

“Prego, scusatemi, Nobile generale, ma non siamo in guerra,” esordì. “Il mio padrone sta mostrando la sua obbedienza ai reggenti, perciò per i prossimi diciotto giorni…”

“La questione è chiusa!”

“La questione sarà chiusa, Nobile generale, quando mi avrete lasciato finire, secondo le buone maniere. Non sono una contadina da calpestare. Sono Toda Mariko-noh-Buntaro-noh-Hiro-matsu, figlia del Nobile Akechi Jinsai, della famiglia Takashima. Siamo samurai da mille anni e io dichiaro che non sarò mai prigioniera né ostaggio né confinata. Per i prossimi diciotto giorni e fino al giorno decretato dall’imperatore, io sono libera di andarmene dove voglio… come ogni altro.

“Anche il nostro… il nostro padrone il Taikō era un contadino. Molti, moltissimi samurai sono o sono stati contadini. Ogni daimyo è stato, in passato, un contadino. Anche il primo dei Takashima. Ascoltatemi bene: voi-aspetterete-la-decisione-dei-reggenti.”

“No. Mi dispiace, ma il mio primo dovere è verso il mio signore.”

Ishido, infuriato, accennò a muoversi verso di lei. Ma proprio in quell’attimo si vide dell’agitazione alla porta del salone; una cameriera in lacrime si fece strada tra la folla e corse presso la Nobile Ochiba. “Scusatemi, vi prego, padrona,” singhiozzò, “ma è per Yodoko-sama… ha chiesto di voi, è… Dovete affrettarvi. L’erede si trova già da lei.”

Ochiba osservò preoccupata Mariko e Ishido, poi tutti gli altri, che la fissavano. S’inchinò agli ospiti e se ne andò in fretta. Ishido esitò. “Ne riparleremo più tardi, Mariko-san!” esclamò e seguì Ochiba, con passo pesante.

Alle sue spalle ricominciò il diffuso mormorio, come una marea che saliva e scendeva. Blackthorne si accostò a Mariko. “Che cosa succede, Mariko-san?”

Mariko era ancora con lo sguardo fisso sulla piattaforma vuota. Kiyama tolse la mano dall’elsa della spada e la mosse per sgranchirla.

“Posso consigliarvi, signora, di tornare a casa? Forse mi permetterete di parlare con voi più tardi… diciamo all’ora del Cinghiale?”

“Sì, certo. Prego… scusatemi, ma dovevo…” la sua voce si affievolì.

“Questa è una cattiva giornata, Mariko-san. Possa Dio vegliare su di voi.” Kiyama si girò verso la sala e parlò con piglio autorevole. “Propongo che tutti torniamo a casa e aspettiamo… aspettiamo e preghiamo l’Infinito di accogliere nella Sua pace la Nobile Yodoko, senza dolore e senza affanno, se è venuto il suo momento.” Diede un’occhiata a Saruji, che era rimasto immobile. “Voi verrete con me.” Si avviò verso l’uscita e Saruji accennò a seguirlo, combattuto fra l’obbedienza e il desiderio di restare accanto alla madre, e insieme intimidito dal sentire su di sé l’attenzione generale.

Con un mezzo inchino alla sala, Mariko si avviò anche lei verso l’uscita. Kiri si inumidì le labbra inaridite, ferma accanto a Sazuko, che tremava, piena di apprensione. Poi Kiri la prese per mano e insieme seguirono Mariko. Yabu si affiancò a Blackthorne e anch’essi uscirono, consapevoli di essere gli unici samurai con la divisa di Toranaga.

Fuori li aspettavano i Grigi.

“Ma, in nome di tutti gli dei, che cosa vi ha preso, per mettervi in una simile situazione? Sciocco, ne?” esplose Yabu.

“Mi dispiace,” rispose Mariko, nascondendogli la ragione vera e augurandosi che Yabu se ne andasse, invece di esasperarla con la sua maleducazione. “È accaduto, e basta, signore. Non era che una festa di compleanno e poi… Non lo so. Scusatemi, Yabu-sama, e anche voi, Anjin-san…”

Blackthorne cominciò a parlare, ma Yabu lo prevenne ed egli si appoggiò allo stipite della finestra, distrutto dallo sforzo di capire.

“Scusate, Yabu-sama,” ripeté Mariko, pensando: quanto sono pesanti gli uomini con questo bisogno di farsi spiegare tutto. Non vedono neppure quello che gli sta davanti agli occhi.

“Avete scatenato una tempesta che ci travolgerà tutti! È stupido!”

“Sì, ma non è giusto che ci tengano rinchiusi qua dentro e Toranaga-sama mi ha dato ordini…”

“Sono ordini pazzeschi! Deve essere caduto in preda ai diavoli! Dovrete chiedere scusa e tirarvi indietro. E la sorveglianza intanto diventerà anche peggiore… Certamente Ishido ritirerà il nostro permesso di partire e voi avrete rovinato tutto.” Si voltò verso Blackthorne. “Che facciamo, adesso?”

“Prego?”

Erano appena entrati nel salone di Mariko. La casa di lei sorgeva all’interno dell’ultima cerchia di mura. I Grigi li avevano scortati fin lì e stazionavano fuori dalla porta, più numerosi del solito. Kiri e Sazuko erano tornate nei loro alloggi con un’altra scorta di Grigi, e Mariko aveva promesso di raggiungerle dopo la visita di Kiyama.

“Ma le guardie non vi lasceranno uscire,” aveva detto Sazuko, angosciata.

“Non preoccupatevi,” aveva risposto lei. “Niente è cambiato… dentro il castello possiamo muoverci liberamente, anche se con la scorta.”

“Vi fermeranno! Oh, perché…”

“Mariko-san ha ragione, bambina,” era intervenuta Kiri, impassibile. “Niente è cambiato. A tra poco, Mariko-san.” Poi si erano ritirate negli appartamenti, i Marroni avevano chiuso il portone e Mariko aveva tirato un gran respiro, avviandosi verso casa con Yabu e Blackthorne.

In quel momento stava ripensando a come con la coda dell’occhio avesse visto Blackthorne preparare il pugnale da lanciare, mentre lei sosteneva i propri diritti e come per quel gesto si fosse sentita più forte. Sì, Anjin-san, pensò, sapevo che saresti stato l’unico su cui potessi contare. Tu eri lì, quando ho avuto bisogno di te.

Il suo sguardo si posò su Yabu, che sedeva di fronte a lei, con una smorfia feroce. L’aveva meravigliata il fatto che Yabu l’avesse spalleggiata in pubblico, uscendo dietro di lei. A causa di quell’appoggio e anche perché perdere la pazienza con lui sarebbe stato vano, ignorò la sua insolenza e cominciò a placarlo. “Scusate la mia stupidità, Yabu-sama, vi prego,” esordì con voce tremante per il pianto, “naturalmente avete ragione. Mi dispiace tanto, non sono che una stupida donna.”

“Appunto! Sciocco opporsi a Ishido nel suo stesso nido di vipere, ne?”

“Sì, vi prego di scusarmi. Posso offrirvi del sakè o del cha?” Batté le mani e subito apparve Chimmoko, con i capelli scomposti e la faccia gonfia per il pianto e spaventata. “Porta cha e sakè per i miei ospiti, e qualcosa da mangiare. E renditi presentabile! Come osi venirci davanti in questo stato? Credi di trovarti in una capanna di contadini? Mi copri di vergogna davanti al Nobile Kasigi!”

Chimmoko fuggì in lacrime. “Scusatemi, Yabu-sama. Perdonate la sua insolenza.”

“Ma non ha nessuna importanza! Che si fa con Ishido? Eh, signora… il vostro accenno ai contadini ha colpito nel segno e può aver ferito a fondo il generale. Adesso vi siete fatta un nemico sul serio! Lo avete colpito in pieno, davanti a tutti!”

“Oh, lo credete? Scusatemi, ma io non volevo insultare lui.

“Già, ma lui è un contadino, lo è sempre stato, lo sarà sempre, e ha sempre odiato tutti quelli di noi che sono veri samurai.”

“Oh, come siete stato intelligente a capirlo! Grazie per avermelo detto.” Mariko s’inchinò e parve asciugarsi una lacrima. “Posso dirvi che ora mi sento molto protetta… dalla vostra forza… Se non fosse stato per voi. Nobile Kasigi, credo che sarei svenuta.”

“Sciocco aggredire in quel modo Ishido davanti a tutti,” ripeté Yabu, un po’ raddolcito.

“Sì, è vero. È un tale peccato che tutti i nostri capi non siano forti e intelligenti come voi, signore… il nostro padrone non si troverebbe in un tale guaio.”

“D’accordo. Ma voi ci avete messi nei guai fino al collo.”

“Perdonatemi. È colpa mia, sì!” Mariko finse di lottare coraggiosamente con il pianto. Poi sussurrò: “Grazie di aver accettato le mie scuse, signore. Siete molto generoso.”

Yabu annuì, convinto di meritare gli elogi, di essere unico e impareggiabile e di dover giustamente vedere Mariko ai propri piedi. E di nuovo lei si scusò e lo placò con parole dolci e suadenti, finché fu calmo del tutto.

“Posso spiegare la mia stupidità all’Anjin-san? Forse lui potrebbe suggerirci una via d’uscita…” lasciò la frase in sospeso con espressione pentita.

“Sì, va bene.”

Mariko si inchinò con gratitudine e si rivolse in portoghese a Blackthorne. “Ascoltatemi bene, Anjin-san, vi prego, e per ora non fate domande. Scusate, ma prima ho dovuto calmare questo bastardo irascibile… voi dite così, vero?” In fretta gli riepilogò l’accaduto e gli spiegò perché Ochiba se ne era andata in fretta.

“È un grosso problema,” commentò lui, scrutandola indagatore.

“Sì. Yabu-sama chiede il vostro parere. Come si potrebbe fare per rimediare al guaio combinato dalla mia stupidità?”

“Quale stupidità?” Blackthorne continuava a guardarla, e lei si sentì inquieta. Lui si rivolse direttamente a Yabu. “Non sapevo, signore. Adesso capisco… adesso penso.”

“Cosa c’è da pensare?” replicò acido Yabu. “Siamo chiusi qui dentro.”

Mariko tradusse, senza alzare lo sguardo dal tatami.

“È vero, Mariko-san. Ma è stato sempre vero, no?” disse Blackthorne.

“Sì, mi spiace.”

Egli si girò a contemplare la notte. Lungo il muro del giardino erano infisse delle fiaccole e la luce giocava sulle foglie e sui rami, che erano stati appositamente innaffiati. A ovest alcuni Marroni sorvegliavano il portone.

“Senti,” aggiunse Blackthorne, senza guardarla, “devo parlare con te in privato.”

“Sì, tu e io,” rispose lei, ma non si voltò, temendo che il suo viso la tradisse davanti a Yabu. “Stanotte verrò da te.” Si rivolse a Yabu.

“L’Anjin-san, purtroppo, è d’accordo con voi riguardo alla mia stupidità. Mi dispiace.”

“Ma a che serve ormai?”

“Anjin-san,” riprese Mariko con voce normale, “più tardi andrò da Kiritsubo-san. So dove alloggiate e vi raggiungerò.”

“Sì. Grazie,” rispose lui, sempre voltandole le spalle.

“Yabu-sama, più tardi mi recherò da Kiritsubo-san,” disse Mariko in tono umile, “forse lei troverà una soluzione.”

“Non ce n’è che una,” replicò Yabu, con gli occhi ardenti e con una decisione che la scoraggiò. “Domani chiederete scusa. E resterete qua.”

Kiyama si presentò all’ora fissata. Con lui c’era Saruji e Mariko si sentì mancare il cuore. Finiti i convenevoli, Kiyama le disse, con gravità: “E ora, Mariko-san, spiegatemi il motivo.”

“Non siamo in guerra, signore. Non dovremmo essere confinati… né essere trattati come ostaggi… quindi io posso andare dove voglio.”

“Non c’è bisogno di essere in guerra per trattenere degli ostaggi. Lo sapete bene. La Nobile Ochiba è stata in ostaggio a Yedo, per garantire la salvezza del vostro padrone a Osaka, e nessuno era in guerra. Oggi il Nobile Sudara è in ostaggio con la famiglia presso suo fratello eppure non sono in guerra. Ne?” Mariko tenne gli occhi bassi. “Qui ci sono molti ostaggi che devono garantire la doverosa obbedienza dei loro signori al Consiglio dei reggenti, cioè al governo legale del paese. E questo è saggio. È un uso consueto, ne?”

“Sì, Kiyama-sama.”

“Bene. E ora ditemi la ragione vera.”

“Signore?”

Irritato Kiyama ribatté: “Non mettetevi a giocare con me! Neppure io sono un contadino! Voglio sapere il motivo del vostro contegno di stasera!”

Mariko alzò gli occhi. “Scusatemi, ma è semplice: il Nobile generale mi ha esasperato con la sua arroganza. Io ho degli ordini, signore. Non c’è niente di male ad accompagnare Kiri-san e Sazuko-san dal nostro padrone, per pochi giorni.”

“Capite bene che è impossibile e Toranaga deve saperlo altrettanto bene.”

“Scusatemi, ma il mio padrone mi ha dato degli ordini. E un samurai non discute gli ordini del suo signore.

“Certo, ma li discuto io, perché sono insensati. E il vostro padrone non commette insensatezze né errori. E insisto sul fatto che ho il diritto di interrogarvi in proposito.”

“Scusatemi, vi prego, ma io non ho niente da aggiungere.”

“Invece sì. Per esempio, bisogna parlare di Saruji. E del fatto che vi conosco da sempre e da sempre vi stimo. Hiro-matsu-sama è il mio più caro amico e vostro padre è stato un carissimo amico anche lui, e un mio onorato alleato, fino alle due ultime settimane della sua vita.”

“Un samurai non mette in discussione gli ordini del suo signore.”

“Adesso voi non avete che due strade, Mariko-chan: o chiedete scusa e restate, o tentate di andarvene. Se lo tentate, vi fermeranno.”

“Sì, me ne rendo conto.”

“Domani chiederete scusa. Io convocherò una riunione dei reggenti e loro emetteranno un verdetto su tutta la questione. Poi vi sarà permesso di partire con le Nobili Kiritsubo e Sazuko.”

“Scusatemi, quanto tempo ci vorrà?”

“Non lo so. Qualche giorno.”

“Mi dispiace, io ho l’ordine di partire subito.”

“Guardatemi!” Mariko obbedì. “Io, Kiyama Ukon-noh-Odanaga, signore di Higo, Satsuma e Osumi, un reggente del Giappone, della famiglia dei Fujimoto, primo daimyo cristiano del Giappone, io vi dico di restare.”

“Mi dispiace. Il mio feudatario mi proibisce di restare.”

“Non capite quello che vi dico?”

“Sì, signore, ma non ho scelta, perdonatemi.”

Kiyama indicò Saruji. “Il fidanzamento tra mia nipote e Saruji… non potrà essere rispettato se voi cadrete in disgrazia.”

“Sì, signore, lo so,” replicò Mariko, con gli occhi pieni di infelicità, tanto più vedendo la disperazione sul volto del ragazzo. “Mi dispiace, figlio mio. Ma devo compiere il mio dovere.”

Saruji accennò a parlare, si trattenne, poi si decise. “Perdonatemi, madre, ma… il vostro dovere verso l’erede non è maggiore di quello verso il Nobile Toranaga? L’erede è il nostro vero feudatario, ne?”

Lei rifletté. “Sì e no, figlio mio. Il Nobile Toranaga è quello che ha giurisdizione su di me, non l’erede.”

“Allora vuol dire che il Nobile Toranaga ha giurisdizione anche sull’erede?”

“No, scusami.”

“Perdonate, madre, non capisco. Ma mi sembra che se l’erede dà un ordine egli debba avere la precedenza sul Nobile Toranaga.” Mariko tacque.

“Rispondetegli,” le impose Kiyama.

“Questo pensiero è tuo, figlio mio? O qualcuno te lo ha ispirato?”

Saruji aggrottò la fronte, cercando di ricordare. “Noi… ne abbiamo parlato… con il Nobile Kiyama e la sua Nobile Signora. E con il padre visitatore. Non ricordo. Credo di averlo pensato io, e il padre visitatore ha detto che avevo ragione, non è vero, signore?”

“Ha affermato che l’erede è più importante del Nobile Toranaga nel regno. Legalmente. Rispondetegli, Mariko-san.”

“Se l’erede fosse adulto, se fosse il Kwampaku, legale padrone del regno come il Taikō suo padre, obbedirei in questa situazione a lui più che al Nobile Toranaga. Ma Yaemon è un bambino, nella realtà e per la legge, e quindi legalmente senza autorità. Ti soddisfa questa risposta?”

“Ma… ma è pur sempre l’erede, ne? I reggenti lo ascoltano e il Nobile Toranaga gli rende onore. Che significa qualche anno, madre? Se voi non chiederete… perdonatemi, ma ho paura per voi.” Gli tremarono le labbra.

Mariko avrebbe voluto abbracciarlo e proteggerlo, ma non si mosse.

Io non ho paura, figlio mio. Non ho paura di niente sulla terra. Temo soltanto il giudizio di Dio,” dichiarò, rivolta a Kiyama.

“Questo lo so,” rispose lui. “E possa la Madonna benedirvi per questo.” Dopo una pausa riprese. “Mariko-san, chiederete pubblicamente scusa al generale?”

“Sì, volentieri, purché lui pubblicamente ritiri i soldati dalla mia strada e ci dia un permesso scritto di partire domani.”

“Obbedirete a un ordine dei reggenti?”

“Perdonatemi, signore, ma in questa questione, no.”

“Accetterete con rispetto una loro richiesta?”

“Perdonatemi, ma in questa questione, no.”

“Accetterete una richiesta dell’erede e della Nobile Ochiba?”

“Quale richiesta, scusatemi?”

“Di andare a visitarli, e restare qualche giorno con loro, fino a quando non avremo risolto questo problema.”

“Perdonatemi, signore, ma che problema c’è da risolvere?”

Kiyama perse ogni controllo e gridò: “Il futuro e l’ordine del regno, innanzi tutto, e poi il futuro della Madre Chiesa, e il vostro atteggiamento per ultima cosa! È chiaro che gli stretti rapporti con il barbaro vi hanno contaminata e vi hanno confuso la mente, come io prevedevo!”

Senza rispondere, Mariko lo fissò. Con uno sforzo, Kiyama si riprese.

“Scusate… la mia collera. E le cattive maniere,” disse rigidamente. “La mia unica giustificazione è che sono fortemente preoccupato.” Si inchinò con dignità. “Vi chiedo scusa.”

“È stata colpa mia, signore. Perdonate se ho distrutto la vostra armonia e vi ho causato preoccupazione. Ma non ho scelta. ”

“Vostro figlio ve ne ha offerta una, e io ve ne ho date molte.”

Mariko non rispose. L’aria era soffocante, nonostante la frescura notturna e la brezza che agitava le luci delle fiaccole.

“Allora siete decisa?”

“Non ho scelta, signore.”

“Benissimo, Mariko-san. Non c’è altro da dire. Se non ripetervi che io vi ordino di non andare agli estremi… e che ve lo chiedo.”

Lei chinò la testa.

“Saruji-san, per favore, aspettatemi fuori,” aggiunse Kiyama.

Il ragazzo sconvolto fu appena in grado di parlare. “Sì, signore. Perdonatemi, madre,” mormorò inchinandosi.

“Che Dio ti protegga per l’eternità.”

“E protegga anche voi.”

“Buonanotte, figlio mio.”

“Buonanotte, madre.”

Rimasti soli, Kiyama riprese il colloquio. “Il padre visitatore è molto angustiato.”

“Per me, signore?”

“Sì, e per la santa Chiesa… e il barbaro. E per la nave del barbaro. Prima parlatemi di lui.”

“È un uomo unico, molto forte e molto intelligente. In mare è… egli appartiene al mare, sembra diventare parte del mare e della nave e non esiste nessuno che possa eguagliarlo in coraggio e abilità.”

“Nemmeno Rodrigues-san?”

“L’Anjin-san gli si è dimostrato superiore per due volte: una volta qui e una volta durante il viaggio verso Yedo.” Gli raccontò della visita notturna di Rodrigues, presso Mishima, e delle armi nascoste e di quanto lei aveva sentito del colloquio. “Se avessero navi pari, l’Anjin-san vincerebbe. Ma, secondo me, vincerebbe in ogni caso.”

“Parlatemi della nave.” Mariko obbedì.

“Parlatemi dei suoi vassalli.” Mariko gli riferì quanto era avvenuto.

“Perché Toranaga gli ha dato nave, denaro, vassalli e libertà?”

“Non me lo ha mai spiegato, signore.”

“Ditemi la vostra opinione.”

“Per dare via libera all’Anjin-san contro i suoi nemici,” rispose subito Mariko, e aggiunse, senza scusarsi: “Poiché me lo chiedete, in questo caso i nemici dell’Anjin-san sono anche quelli del mio padrone: i portoghesi, i santi padri che istigano i portoghesi, e i Nobili Harima e Onoshi, e voi stesso, signore.”

“Perché l’Anjin-san dovrebbe considerarci suoi nemici particolari?”

“Per Nagasaki, il commercio e il vostro dominio sulle coste di Kyushu, signore. E perché siete i maggiori daimyo cristiani.”

“La Chiesa non è nemica di Toranaga, né lo sono i santi padri.”

“Mi spiace, ma credo che il Nobile Toranaga ritenga che i padri appoggino il generale Ishido, come fate voi.”

“Io difendo l’erede. Sono contro Toranaga-sama perché lui non lo fa e perché distruggerà la nostra Chiesa.”

“Scusate, questo non è vero. Il mio padrone è tanto superiore al generale, signore! Avete combattuto venti volte come suo alleato e sapete di potervene fidare. Perché schierarsi con un suo nemico dichiarato? Toranaga-sama ha sempre favorito il commercio e non è anticristiano come il generale e la Nobile Ochiba.”

“Scusatemi, Mariko-san, ma davanti a Dio io sono convinto che Toranaga in segreto detesti la Chiesa, che in segreto odii la Vera Fede e in segreto voglia con tutte le forze distruggere la successione, l’erede e la Nobile Ochiba. La sua meta è lo Shōgunato… questo soltanto! In segreto mira a diventare Shōgun, si prodiga per diventare Shōgun e tutti i suoi gesti tendono a quest’unico fine.”

“Davanti a Dio, io vi giuro che non ci credo.”

“Lo so, ma non per questo avete ragione.” La osservò un momento, poi aggiunse: “Per vostra stessa ammissione questo Anjin-san e la sua nave rappresentano un grave pericolo per la Chiesa, ne? E Rodrigues è d’accordo con voi: se l’Anjin-san si scontrasse in mare con la Nave Nera, sarebbe un gran male.”

“Ne sono convinta anch’io, signore.”

“Questo danneggerebbe gravemente la nostra Madre Chiesa, ne?”

“Sì.”

“Eppure, ugualmente, voi non aiuterete la Chiesa contro un tale uomo?”

“Lui non è contro la Chiesa, signore, né veramente contro i padri, anche se non si fida di loro. È contro i nemici della sua regina. E il suo obiettivo è la Nave Nera, per guadagno.”

“Però si oppone alla Vera Fede, e quindi è un eretico.”

“Sì. Ma io non credo che sia vero tutto quello che ci hanno detto i padri. E molte cose non ce le hanno mai dette. Tsukku-san ha dovuto ammetterlo. Il mio feudatario mi ha ordinato di diventare amica e confidente dell’Anjin-san, di insegnargli la nostra lingua e le nostre usanze e di apprenderne quanto avrebbe potuto esserci utile. E ho trovato…“

“Utile a Toranaga, intendete dire?”

“Signore, l’obbedienza al proprio feudatario è il perno della vita di un samurai. Non la esigete forse da tutti i vostri vassalli?”

“Sì, ma l’eresia è terribile e sembra che voi ne siate stata infettata dal barbaro, e siate sua alleata contro la Chiesa. Prego Dio che vi apra gli occhi, Mariko-san, prima che restiate dannata. E infine, un’ultima cosa: il padre visitatore mi ha detto che avete delle informazioni da darmi, di carattere personale.”

Mariko non se l’aspettava. “Signore?”

“Ha detto di aver ricevuto giorni fa un dispaccio da Tsukku-san, con un messaggero speciale giunto da Yedo. Voi avete delle informazioni sui… sui miei alleati.”

“Io ho un appuntamento domani mattina con il padre visitatore.”

“Sì, me l’ha riferito. Ebbene?”

“Scusatemi, domani, dopo averlo visto…”

“Non domani. Adesso! Mi ha comunicato che tutto ciò aveva a che fare con Onoshi e che riguardava la Chiesa, e che voi dovevate parlarmene subito. Vi giuro davanti a Dio che così mi ha detto. Siamo arrivati al punto che non vi fidate di me?”

“Perdonate. Io avevo fatto un accordo con Tsukku-san e mi aveva chiesto di parlare apertamente con il padre visitatore. Ecco tutto.”

“Il padre visitatore vuole che mi informiate subito.”

Mariko comprese di non avere alternativa. Doveva giocare le sue carte. Gli riferì del complotto ordito contro di lui. Anche Kiyama si mostrò incredulo, finché non gli ebbe rivelato da quale fonte erano arrivate le notizie.

Il suo confessore?

“Sì.”

“Mi dispiace che Uraga sia morto,” mormorò Kiyama, ancora più afflitto per quel secondo fiasco contro l’Anjin-san. E per di più era rimasta uccisa l’unica persona in grado di provare che il suo nemico Onoshi era un traditore. “Uraga brucerà per sempre all’inferno per un tale sacrilegio. È terribile quello che ha fatto. Meritava la scomunica e le fiamme eterne, però mi ha reso un servigio… se è vero.” Kiyama la guardò, e a un tratto apparve vecchio e logoro. “Non posso credere che Onoshi arriverebbe a questo passo, né che Harima ne sia al corrente.”

“Potreste… potreste domandare al Nobile Harima se è vero?”

“Sì, ma non lo rivelerebbe mai. Io non lo farei… e voi? Triste, ne? Sono terribili le vie degli uomini.”

“È vero.”

“Non ci credo, Mariko-san. Uraga è morto, e non potremo mai averne le prove. Prenderò delle precauzioni, ma… non ci credo.”

“Sì. Una riflessione, signore. Non è strano che il generale abbia messo una guardia intorno all’Anjin-san?”

“Perché strano?”

“Perché proteggerlo? Dato che lo odia tanto… Non sarà forse che anche il generale adesso vede nell’Anjin-san una possibile arma contro i daimyo cattolici?”

“Non vi seguo.”

“Se, Dio non voglia, voi moriste, signore, Onoshi diventerebbe il più grande capo di Kyushu, ne? Come potrebbe allora piegarlo il generale? Forse soltanto usando l’Anjin-san.”

“È possibile,” disse lentamente Kiyama.

“C’è una ragione sola per cui lui vuole proteggere l’Anjin-san: usarlo. Dove? Solo contro i portoghesi… e quindi i daimyo cristiani di Kyushu.”

“È possibile.”

“Io credo che l’Anjin-san, vivo, possa essere utile a voi quanto a Onoshi o a Ishido o al mio padrone. Il suo sapere è enorme. E solo il sapere può proteggerci dai barbari, anche dai portoghesi.”

Con disprezzo Kiyama replicò: “Possiamo schiacciarli o buttarli fuori quando vogliamo. Sono come mosche su un cavallo, nient’altro.”

“E se la santa Madre Chiesa vince e tutto il paese diventa cristiano come noi desideriamo, allora? Sopravviveranno le nostre leggi? Sopravviverà il bushido? Di fronte ai Comandamenti? Io penso di no — com’è avvenuto nel resto del mondo, dove i santi padri hanno prevalso — se noi non saremo preparati.”

Kiyama non le rispose. Mariko insisté: “Vi prego, signore, chiedete all’Anjin-san che cosa è avvenuto in altri paesi.”

“No, non lo chiederò. Io credo che vi abbia stregato, Mariko-san. Ho fiducia nei santi padri e sono convinto che il vostro Anjin-san sia ispirato da Satana. Vi scongiuro di rendervi conto che già vi ha contaminata con la sua eresia. Avete detto più volte ‘cattolico’ invece di ‘cristiano’. Non significa che voi ammettete, con lui, che esistano due fedi, due versioni della Vera Fede? La vostra minaccia di stasera non è un coltello puntato contro l’erede? E contro gli interessi della Chiesa?” Si alzò in piedi. “Grazie delle vostre informazioni. Dio sia con voi.”

Mariko estrasse dalla manica una piccola pergamena arrotolata. “Il mio padrone mi ha ordinato di consegnavela.” – Kiyama ne osservò il sigillo intatto. “Sapete cosa dice?”

“Sì. Ho avuto l’ordine di distruggerla, se necessario, e riferirvi il messaggio a voce.”

Kiyama ruppe il sigillo. Il messaggio ribadiva che Toranaga desiderava la pace fra loro due, sostenendo come sempre l’erede e la successione e riferiva brevemente la notizia riguardante Onoshi. Così concludeva:

Non ho prove, ma Uraga-noh-Tadamasa le avrà ed è stato mandato appositamente da voi a Osaka, perché possiate interrogarlo, se volete. Comunque, ho le prove che anche Ishido ha tradito il patto concluso con voi, di dare il Kwanto ai vostri discendenti dopo la mia scomparsa. Il Kwanto è stato promesso a mio fratello Zataki, a patto che mi abbandonasse, come ha già fatto. Mi dispiace, mio vecchio compagno d’armi, ma anche voi siete stato tradito. Dopo la mia morte, voi e i vostri sarete isolati e distrutti, insieme alla Chiesa cristiana. Vi prego di rifletterci. Avrete presto le prove della mia sincerità.

Kiyama rilesse il messaggio e Mariko lo sorvegliò attenta, come le era stato ordinato. “Osservatelo bene, Mariko-san,” aveva detto Toranaga. “Non sono sicuro del suo accordo con Ishido per il Kwanto. Lo hanno riportato le spie, ma non sono sicuro. Lo saprete da quello che fa — o non fa — se gli darete il messaggio nel momento giusto.”

Vide che Kiyama reagiva. Dunque è vero, pensò. Il vecchio daimyo alzò lo sguardo su di lei. “E siete voi la prova della sua sincerità, ne? L’offerta sacrificale, l’agnello sull’altare?”

“No, signore.”

“Non vi credo. E non credo a lui. Il tradimento di Onoshi, forse… Ma il resto… Toranaga ricomincia con i suoi vecchi trucchi, mescolando mezze verità con miele e veleno. Ho paura che siate voi a essere stata tradita, Mariko-san.”