Trentanove

La donna che stava attraversando il suo studio per incontrarlo era la più bella che avesse mai visto. Rapidamente pensò alle attrici, alle cantanti, alle donne della televisione, a fotografie, dipinti, statue: nessuna era come questa, che gli sorrideva porgendogli la mano. Il corpo fasciato in un abito nero semplicissimo, una sciarpa al collo, i tacchi alti. Un viso drammatico e sorridente, i capelli dorati, la pelle trasparente, la mano affusolata e morbida al contatto. Non riuscì a vedere altro ma sì, poteva confermarlo: aveva di fronte la donna più bella del mondo.

«Posso parlare in inglese?» Anche la voce era speciale, e gli sembrò di capire che fosse americana.

«Naturalmente». La fece accomodare in una delle poltroncine di fronte al tavolo delle riunioni e, contrariamente a quanto accadeva di solito, Gilardi si sedette dietro il tavolo, al suo posto. Sulla parete alle sue spalle, la grande fotografia del leone di notte. Che la donna, seduta, allentata la sciarpa su una pesante collana di perle e accavallate le gambe, rimase a fissare intensamente.

«Chi è?» domandò.

«Un leone svegliato nel cuor della notte… sa che lo uccideranno».

«Bellissimo e commovente».

L’unica persona che avesse detto quello che lui aveva pensato quando l’aveva scelto alla mostra fotografica di Roma. Bellissimo e commovente.

«Forse lei è così» aggiunse la donna. Non era una domanda.

«Temo di no…» rispose appena. Fece una pausa prima di chiedere: «Perché lei è qui?»

«Perché spero, avvocato, che lei possa aiutarmi. Lei sa chi sono?»

Gilardi diede un’occhiata rapida al foglietto che Aurora gli aveva preparato sulla scrivania con il nome, Charlize, e un cognome difficile da leggere, ma non americano.

«Temo di no» ripeté.

«Quello che voi continuate a chiamare ‘la ragazza senza nome’ era mio figlio».

Lo disse con un tono duro, innaturale.

Fu capace di non mostrarsi sorpreso. «E in che cosa posso esserle utile?» Cominciava a capire perché avesse voluto quell’appuntamento: lui era l’avvocato che si era occupato della ‘ragazza senza nome’. Era su tutti i giornali.

«Lei sa che non era una ragazza, ma un maschio. Aveva compiuto quindici anni».

«Sì, era nel rapporto dell’anatomopatologo».

Si pentì di aver usato un termine così specifico e si corresse: «Il dottor Sanfelice che ha eseguito l’autopsia ci ha fornito dati precisi a questo proposito».

«Morto di morte naturale». Era un’affermazione, non una domanda. Aveva letto il rapporto riportato dalla stampa.

«Sì, anche questo. Un’anomalia all’impulso cardiaco, morte naturale. Ereditario».

Fece di sì, muovendo appena il capo. «Mio padre è morto così, non aveva cinquant’anni. Non mi ha stupito, arrivo a dirle che me l’aspettavo, e date le circostanze quasi lo speravo».

«Difficile da capire» disse sottovoce. «Ma forse lei ha una spiegazione plausibile».

Senza rendersene conto si accorse che quella donna non gli era simpatica.

«Lei si chiederà come mio figlio sia potuto arrivare sin qui… e morire in quel modo».

«No, ma sono disposto a sentirglielo dire, se lei lo crede opportuno».

Appoggiò le spalle allo schienale della poltroncina e la fissò prima di chiedere: «Perché io?»

«I giornali hanno parlato molto di lei, del suo ruolo in questa operazione. Mi è sembrato…» esitò prima di dirlo. Poi pronunciò le parole in un soffio, abbassando il capo: «Lei mi è sembrato umano».

«Grazie, l’ascolto».

«Hanno rapito Timothy quando aveva quasi quindici anni… lei sa chi è mio marito?»

«Temo di no».

Disse il cognome vergognandosene. «È considerato l’uomo più ricco del mondo, si arrabbierebbe se sapesse che sono qui».

«Com’è finito il figlio dell’uomo più ricco del mondo a passeggiare a piedi scalzi, con una tunica rubata, nel porto di Napoli? Se può dirmelo».

«La risposta onesta è che non lo so e me lo chiedo anch’io. Ma conosco l’inizio della storia e spero che qualcuno mi aiuti a capirne la fine. Hanno rapito Timothy con un’azione quasi di guerra. E hanno chiesto un riscatto assurdo, che nessuno ha preso in considerazione. Io ho messo sul tavolo i miei gioielli. Mi hanno riso in faccia, avevano chiesto molto di più». Parlava a bassa voce, guardandosi le mani aperte sul tavolo. Mani lunghe, perfette: senza smalto né gioielli. La voce dura, emozionata: come se non sapesse come continuare.

Cercò di aiutarla. «Timothy era malato?»

«Era… sì, lo sa anche lei, l’hanno scritto».

«Deve essere terribile sentir descrivere il proprio figlio in termini medici e giornalistici, senza poter intervenire… oppure vi siete messi in contatto con la Questura di Napoli?»

Scosse appena il capo con una smorfia. «Cose da uomini. Certamente mio marito attraverso i suoi legali l’avrà fatto. Avrà confermato l’identità di quel ragazzo. Non so che altro abbia chiesto e ottenuto. Dubito che abbia chiesto la salma». Si morsicò il labbro inferiore. «Mio marito si vergognava di questo figlio, non ne era orgoglioso. Per gli altri suoi figli avrebbe smosso la flotta aerea che possiede. Per Timothy non gli sembrò che valesse la pena. Un’operazione infelice gli aveva danneggiato le corde vocali, non parlava correttamente. Aveva avuto un tumore in gola».

«Ma non sapeva neppure scrivere, mi hanno detto. A quindici anni».

Suo malgrado sembrò scandalizzato, come se le rimproverasse di aver avuto poca cura di questo figlio strano.

La donna scosse la testa e alzò gli occhi alla finestra. Non voleva piangere. «No, non sapeva scrivere. Io ho messo al mondo un mostro». E strinse le labbra tra i denti. «Non riuscivamo a insegnargli niente. Mi hanno detto cose assurde: era dislessico, disgrafico e discalculico… sa di che cosa parlo? Un mostro».

«Sono disturbi che creano difficoltà, non mostri».

«Mi sta rimproverando, avvocato? Crede che non abbia fatto abbastanza per lui? Per lui ci sarebbe voluto un miracolo». Sorrise, ma le tremavano le labbra. «So di sicuro che mio marito non chiederà di riavere la salma…»

«Sinceramente stento a crederci».

«Perché Timothy non è suo figlio».

Le tremò la voce. «Mi ha sposata che ero incinta. Lo sapeva. Mi ha voluta ugualmente. Era stato l’amore di una sola notte… non ho voluto abortire, gli ho detto la verità. Io ero hostess di aerei intercontinentali e Rodriguez il mio comandante. Una sola notte. È stato un amore furioso, sembrava che non dovesse mai finire».

Si guardò le mani a labbra strette.

«Una sola notte» continuò. «Lui era sposato e dopo quell’unica notte è sparito, io non ho voluto abortire. La giovinezza è eroica».

Gilardi si accorse che le tremavano le labbra. «In un viaggio Londra-Parigi ho conosciuto Micha, mio marito. Mi invitò al ristorante dell’Hotel Ritz, che era di sua proprietà, voleva stupirmi: io ero decisa a cenare e ad andarmene, sapevo chi era. Invece mi chiese di sposarlo, con tanto di brillante grande come un bottone pronto nella tasca della giacca».

Gli sorrise in modo triste e riabbassò gli occhi sulle mani inerti che teneva strette sul grembo, come se non le appartenessero.

«Naturalmente gli ho detto di no, che non potevo accettare, e gli ho raccontato la verità. Pensavo che si sarebbe alzato per andarsene, invece mi ha messo l’anello al dito e ci siamo sposati poche settimane dopo. Cinque mesi più tardi è nato Timothy. Micha ha dato il suo nome a mio figlio, ma non l’ha mai accettato. Ecco la ragione per cui sono sicura che mi farà fare quello che voglio senza interferire».

«Complice del rapimento?»

«No, questo no: lo escludo tassativamente». Sembrò scandalizzata che solo si potesse pensare. «Ha seguito personalmente le trattative per mesi, poi i sequestratori hanno interrotto i contatti, evidentemente Timothy era riuscito a fuggire, come ora sappiamo tutti. Allora ho temuto che l’avessero ucciso».

Da qualche tempo Laura aveva deciso di dotare lo studio di Gilardi di un piccolo frigorifero come quelli che si trovano nelle stanze degli alberghi di lusso: ghiaccio, bicchieri, acqua normale e speciale, bevande alla frutta e whiskey, quello che Gilardi considerava l’unico possibile: il Macallan scozzese.

Quasi senza muoversi, allungò un braccio e dal frigo che aveva alle spalle prese, senza voltarsi, due bicchieri e la bottiglia. Ne versò per entrambi e con un gesto lento fece scivolare uno dei due bicchieri verso la donna.

«Grazie… e mi scusi. Queste cose non le ho mai dette a nessuno. Perché a lei?»

«Perché sono un avvocato».

Scosse la testa, con quella massa di capelli biondi, morbida e compatta. Stava sorridendo. «All’inizio ho pensato che lei fosse un uomo duro e taciturno».

«So ascoltare».

Gli rispose con un sorriso. E tornò subito seria. «Che cosa le hanno detto di Timothy quelle persone che l’hanno ospitato?»

«Una cosa che forse per lei ha un significato e che mi aveva colpito. Accarezzava la regina delle carte da gioco. Con tenerezza, mi hanno raccontato».

Si morsicò le labbra. «Facevamo quel gioco per insegnargli che lui era il fante, mio marito il re e io la regina… se ne è ricordato, tesoro… povero figlio mio. Davvero è morto di morte naturale?»

«Di questo sono assolutamente sicuro. Gli hanno sparato quando era già morto da almeno un paio d’ore. Non abbiamo capito la ragione».

«Forse hanno inviato il proiettile a mio marito per annunciargli la morte di Timothy. Forse era stata richiesta una prova. Volevano dei soldi… Non so dirle…»

«Lei ha un’idea di come suo figlio abbia vissuto in questo ultimo periodo? Di come sia arrivato dall’America…»

«No, mi scusi. Non eravamo in America. Mio marito stava concludendo un grosso affare a Bodrum… Mio marito è di origine turca, io vengo dalla Scandinavia, ma abbiamo vissuto da sempre in America».

«Ecco la tunica» disse a labbra strette.

«Come ha detto, scusi?»

«Timothy indossava una tunica che era stata rubata… preziosa perché apparteneva al Museo di Bodrum. Quella tunica è arrivata a me, ed è stata restituita al Ministero della cultura per il Museo… di Zeki Müren».

«Sì, ho letto… senza capire il nesso tra la tunica e Timothy. Ed ecco perché ho chiesto di vedere lei, mi è sembrato coinvolto in questa brutta storia».

«Professionalmente».

«Certo». Finì il suo whiskey e depose il bicchiere sul tavolo cercando di non far rumore. «Mi scusi». Restò a fissarlo come se guardasse qualcosa al di là dei confini della realtà. Le sue mani stavano tremando. «Io voglio il corpo di mio figlio. Voglio seppellirlo» disse risoluta. «Non posso immaginarlo in una tomba anonima… è mio figlio!»

«Suo marito…»

«Lasci stare, avvocato. Gli altri figli sono nostri, Timothy è figlio mio. La prego».

«Posso assisterla, se lo desidera. È una richiesta più che legittima se lei può provare di essere sua madre».

«Sì… si può fare senza pubblicità?»

«Tenteremo, purtroppo non dipende né da me né dalla polizia. Ora la notizia non è più in primo piano, forse riusciremo a nascondere l’operazione. Tuttavia non gliel’assicuro, c’è sempre il reporter informatissimo, e non si sa mai informato da chi. Mi dispiace».

«Va bene». Alzando le braccia dietro la nuca si slacciò la collana di perle e la depose sul tavolo. «Io posso pagare intanto con questa» e con gesto lento la spinse verso Gilardi.

Che le sorrise. «Sta meglio al suo collo, signora. Se la rimetta».

«Mi dispiace, probabilmente dovrò fare questa cosa di nascosto da mio marito… dove potrò seppellirlo? Io qui non conosco nessuno… dove, per piacere?» Aveva congiunto le mani, stringendole contro il petto. «Solo seppellirlo, io non ho bisogno di una tomba per piangere. Solo seppellirlo, avvocato. Dove è possibile?»

«Immagino che lei abbia fretta».

La donna fece di sì muovendo appena il capo.

«Devo telefonare in Questura a un ispettore che conosco e che si è occupato di Timothy, e ottenere i permessi necessari per avere la salma. Interpellare una casa di cerimonie funebri per l’occorrente e il trasporto…»

«Il trasporto, dove? Non in America».

«No, l’avevo capito. Abbiamo seppellito da non molto a Sondello, uno dei paesi colpiti dal terremoto, la donna e la ragazza che hanno ospitato Timothy l’ultima notte della sua vita. È morto a casa loro. Forse, se c’è posto in quel cimitero, in un angolo accanto a loro, soltanto con il nome. Sono stati legati da uno strano destino, perché no in quest’ultimo viaggio?»

«Crede sia possibile?»

«Ci provo». E le sorrise.

«Mi scusi, le sto facendo perdere molto tempo».

«Non lo considero tempo perso».

«Grazie…» Esitò un attimo, poi si fece coraggio. «Chi ha ucciso quelle due donne?»

«La polizia sta ancora indagando, quindi non ho una risposta certa e provata. Si pensa che gli assassini cercassero la famosa tunica e sospettassero…»

«Chi sono? Li hanno arrestati?»

«Sì, li hanno arrestati. Come le dicevo, probabilmente cercavano questa famosa tunica alla quale nessuno aveva dato peso e valore. Era sembrata una veste brutta e bizzarra. Quando un giornale americano ha pubblicato la notizia del furto, il valore della tunica e la ricompensa a chi l’avrebbe riportata a Bodrum, si è scatenata questa caccia insensata. Che è costata la vita a un ragazzo americano che aveva letto e raccontato la notizia, alla donna che stava recandosi alla polizia a testimoniare della morte di Timothy, e alla figlia, sospettata di aver nascosto la famosa tunica. La ragazza aveva sedici anni e stava imparando a ridere».

«Ne parla… Lei è davvero una strana persona, avvocato. Considero un privilegio… una fortuna, averla incontrata. Grazie per avermi aiutata a parlare, a dirle tutto quello che avevo bisogno di dire… a qualcuno che capisse senza giudicarmi».

Erano in piedi, una di fronte all’altro, e si stavano guardando.

«Non sono Dio».

E finalmente la sentì ridere.

Quella sera, rientrando in casa, baciò Olga. «Sei andata a rischio di avere una collana di perle a tre giri. Perle grandi come nocciole».

«Rischio superato, spero. Io non amo le perle».

«E io amo te».