Quattro

S’era messa un vestito a pois: scollatura a punta che scendeva diritta in mezzo ai seni forti, vita stretta dalla cintura a bustino, gonna mossa a mezzo godet che arrivava al ginocchio. Si era anche pettinata, forse si era addirittura lavata i capelli e se li era tirati diritti, scuri e forti, alla nuca, lasciando scoperte le orecchie. I pomelli rosso-rosa, la matita nera a sottolineare la curva perfetta delle sopracciglia e la forma dell’occhio, e un po’ di rossetto sulle labbra a punta. Beatrice Longoni era pronta, sul portone del numero 12 di vicolo Scala. La borsa a tracolla, di tessuto bianco a piccole coste, le dava un’aria solenne, come se fosse in divisa di chissà quale corpo o battaglione.

«Sono qua» le disse Laura avvicinandosi. «Ho lasciato la macchina sul viale per non intralciare il passaggio. Possiamo andare?»

Fu allora che si accorse dei sandali con suola e tacco alti, difficili per quella stradina sconnessa, tra case e bancarelle. «Ce la fa?»

«Certo che ce la faccio, ci mancherebbe».

Non fu un’impresa facilissima, ma riuscirono a raggiungere la macchina. Laura si sedette al posto di guida. «Si allacci la cintura, per favore».

«Non c’è obbligo».

Laura pensò che non volesse sciupare il vestito. «C’è obbligo, invece, mi dispiace. E io sono più tranquilla».

Borbottando la donna tirò la cintura, fece qualche pasticcio cercando di agganciarla, ma infine riuscì a chiuderla. «Ecco la cintura» disse con rabbia. Come se la giornata fosse nata storta.

Laura infilò la chiave nel blocco di accensione. Mentre con la mano sinistra alzava la tendina parasole, con la destra girò la chiave. Fu un attimo. Un boato, una fiammata.

«Esca!» gridò, mentre con un gesto solo sganciava le cinture e apriva la portiera. Le fiamme stavano entrando dal motore, invadendo l’interno.

«Corra e si butti a terra!» Non riuscì a vedere se la donna avesse capito o se si fosse allontanata. Si ritrovò a terra, tra il muro di una casa e due tavoli che si erano rovesciati. Sentì gridare. Alle fiamme si unì il rumore del motore, come una fitta sparatoria. Una forte puzza di benzina. Urla. Qualcuno aveva assistito all’accaduto e ora stava gridando in cerca di aiuto.

Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il viso di Massimo Gilardi, chino su di lei.

Si accorse delle bende sulle braccia. Del lettino bianco e asettico. Dell’odore di disinfettante. Era in ospedale, questo percepì. Senza ricordare che cosa fosse davvero accaduto.

«Sono qui?» domandò. Senza senso.

«Sì, sei qui. La vuoi smettere di farmi stare in pena per te, porca miseria?» E intanto le sorrideva e le accarezzava la mano, quella che sporgeva dalle fasciature, l’altra era nascosta.

«Mi dispiace… che cosa è successo?»

«Ci pensiamo domani. Ora riposati e stai tranquilla. Aziz starà qui con te».

«No, perché?»

«Perché lo decido io. Non hai niente di grave, ho parlato con il professor Guidi. Soltanto qualche bruciatura alle braccia».

«E la donna?»

Gilardi si morsicò tra i denti il labbro superiore.

«Con lei ci sono riusciti».

«Morta? Ferita grave? Che cosa è successo?»

«L’obiettivo evidentemente era lei, e sono riusciti a farla tacere».

«Mi dispiace… sono stata io a insistere, lei non voleva».

«Nessuno l’ha forzata, ha deciso lei di andare da Scalzi. Evidentemente sapeva che cosa stava facendo».

«Aveva paura».

«Mi dispiace, mannaggia. Ma tu sei viva e presto ti riporteremo a casa. Sei tranquilla? Scalzi ti ha messo due agenti davanti alla porta e una camionetta della polizia è parcheggiata qua sotto. Con te resta Aziz, me l’ha chiesto lui. Sei tranquilla?»

«Sì, naturalmente». Lo guardò con un sorriso triste. «Ma è vita questa?»

«No, questa è una merda, porca miseria!» E quando Gilardi arrivava alla parolaccia significava che non era arrabbiato. Era incazzato.