Undici

La telefonata arrivò in studio in un momento decisamente sbagliato: Massimo Gilardi stava rispondendo a un testimone che in aula aveva cambiato versione alla propria deposizione.

«Questo è un problema suo…» e guardò Laura che gli stava facendo segno che c’era una telefonata urgente sull’altra linea. «Va bene, ci vediamo in tribunale… ora devo lasciarla… non lo dica a me, ci vediamo domani… va bene, prendo atto… d’accordo, saluti… sì, va bene…»

Chiuse la comunicazione sbuffando. «Ma tutti con me? Sono solo in questo studio?»

«È la ragazza, avvocato. Sta piangendo…»

«Quale ragazza?»

«La Longoni, avvocato. Annagloria».

«E io? Non ci puoi parlare tu?»

«Vuole lei, sembra grave… avanti, la senta e poi me la passa…»

Sbuffando prese il ricevitore e se lo portò all’orecchio, togliendosi contemporaneamente gli occhiali che depose sulla scrivania. «Gilardi».

«Lei è l’avvocato, quello che era in televisione e ha visto mia madre?» Era vero, stava piangendo.

«Sì, sono io. E tu sei Annagloria?»

«Sì… mia madre voleva lei, io non so a chi dirlo».

«Sono qui, che cosa c’è? Ma non sei a Sondello da tua zia?» Parlava leggendo le frasi che Laura velocemente gli scriveva su un foglio per ricordargli la situazione.

«Mi venga a prendere, aiuto! Ho paura… di lei mi devo fidare».

«Ma non sei da tua zia?» ripeté la domanda.

«Sì… ma mi venga a prendere. Qualcuno mi venga a prendere, ho paura… non posso parlare, venite a prendermi!» Ora stava urlando.

«Va bene, stai calma».

«Viene lei?»

«No, sono troppo evidente. Ti mando a prendere… da una donna».

«Quell’avvocata che ha fatto ammazzare mia madre?»

«Troppo conosciuta. Stai tranquilla… Sei a casa di tua zia?»

«Sì, l’indirizzo…»

«Non mi occorre». Sapeva che l’aveva portata lì il tenente Elisa Forte, si sarebbe fatto dare l’indirizzo da lei.

«E chi viene?»

«Una donna che non hanno mai visto e neppure tu. Sai come mi chiamo?»

«Certo. Massimo Gilardi».

«No… Max Gilardi. Io mi chiamo Max Gilardi, ripetilo…»

«Max Gilardi».

«Ecco…» Guardò Laura e le fece un gesto che Laura comprese. «Tra un’ora… il tempo che ci vuole, verrà a prenderti una persona che ti dirà il mio nome, Max Gilardi. Non Massimo… Max. Hai capito? Di lei dovrai fidarti perché viene a nome mio e ti porterà qui da me. Allora mi dirai perché hai paura e che cosa possiamo fare insieme. Hai capito?»

«Non sono mica scema, certo che ho capito. Sono sola, perché zia è al lavoro e aspetto fuori dalla porta. Fate presto, ho paura».

«L’hai detto a qualcuno che ci avresti chiamato?»

«Manco a zia l’ho detto. No, a nessuno… fate presto».

«Niente bagaglio, Annagloria. Ricordatelo. Dovrà sembrare un rapimento, come se quella persona che verrà a nome mio ti volesse rapire… non portarti neppure il telefonino, lascialo a casa... hai capito la scena?»

«La vedo anch’io la tivù, certo che l’ho capita. Devo urlare?»

Gilardi premette le labbra tra i denti per non ridere. «No, meglio di no. Noi stiamo qui sino a quando arrivi tu. Tutto chiaro?» Fece una pausa breve. «Sì, certo, che hai capito. Ciao, ti aspetto».

«Ciao, Max Gilardi… sei quello lungo due metri?»

«Sì, tranquilla, tra poco ci vediamo». E riattaccò il telefono. «Roba da pazzi, ma che giornata è oggi, maledizione… Hai parlato con la Forte?»

«Sì, ho l’indirizzo, anche la foto della ragazza e il numero della casetta della zia».

«E Giacomo?»

«Mi richiama. Credo che stia cercando la moglie di Arturo Tosi, il suo socio. L’ha conosciuta anche lei quella Elsa Bruni, la rossa».

Gilardi si alzò e tese le braccia per sgranchirsi. «Tanto per passare inosservata. Non è quella che legge i pensieri della gente?» cercò di ridere. «Però ha ragione lui, Elsa Bruni è in gamba».

«Psicologa, vero?»

Il telefono squillò. «Sì, Giacomo, è qui, te lo passo. Ciao».

Poche parole e soltanto quelle indispensabili, come era loro abitudine sin da quando erano ragazzi e giocavano a guardie e ladri. «Tutto chiaro?»

«Sì, Max. Le passo indirizzo e foto, di lei mi fido».

«Anch’io, grazie. Vuoi venire qui ad aspettarla, così cerchiamo di capire che cosa succede? Va bene, ciao. Credo che avremo bisogno di te, non ci sto capendo molto ma temo di esserci dentro sino al collo».

«… ’ndiamo bene, ciao».

Arrivata davanti alla casetta bianca e rosa con le persiane lucide, Elsa Bruni salì con la macchina sul marciapiede. La ragazza, che riconobbe dalla foto, la stava guardando. Un operaio in tuta arancione che era poco lontano in mezzo alla strada, dove stavano facendo dei lavori, le gridò, accompagnando alla voce i gesti, di spostarsi.

Restando al posto di guida, Elsa Bruni aprì la portiera del passeggero. «Max Gilardi» disse in fretta. La ragazza si avvicinò e lei la prese per un braccio, obbligandola a sedersi, e richiuse la portiera.

Mentre faceva retromarcia, azionò un dispositivo che aveva installato suo marito per evenienze come quella che stavano affrontando, che permetteva di cambiare le targhe dell’auto.

La ragazza stava tremando.

Due tornanti, poi l’uscita dal paese. Un gruppo di operai si scostò per lasciarle passare.

«Lo conoscevi?»

«Quello che urlava? Sì, non lo sta a sentire nessuno. Dirà che sono stata rapita… Lei è la moglie dell’avvocato?»

Una risata. «No… Lavoro in uno studio di investigatori, sono psicologa. E indovino i pensieri».

«Figuriamoci… a che cosa sto pensando ora?»

«Che ti scappa la pipì».

«No, avanti, non è vero…»

«Non pensavi a quello? In ogni caso non posso fermarmi». Rispose al telefono, due o tre volte disse di sì e chiuse la comunicazione.

«Stai pensando al numero sette, ma pensate sempre a quello?»

«Mannaggia, ma come ha fatto?»

«Fidati. Non arrivo ai pensieri segreti».

Stettero in silenzio per tutto il tratto di strada che avevano ricavato ai piedi della collina e raggiunsero l’autostrada. Fu un viaggio rugginoso, come se non si fidassero l’una dell’altra, o temessero un pericolo. Come se si aspettassero qualcosa che avrebbe dovuto succedere. Un paio di volte a Elsa sembrò di essere seguita: accelerò, poi si mise dietro un pullman tedesco. Alla variante per Roma la Ford nera che le stava alle costole girò a destra. Allora allungò la mano e sentì la pistola nella tasca della giacca: era sudata, ma ebbe voglia di ridere.

Annagloria si sentì coraggiosa e prese l’iniziativa.

«Non è vero che pensavo al gabinetto…»

«Lo so, volevo farti restar male. Siamo quasi arrivate…»

«Mannaggia, ma questa è Napoli?»

«Sì, questa è una parte di Napoli, quella dei palazzi. Il mare è là in fondo, vedi dove quel nuvolone nero si allunga e scolora verso l’azzurro? Là c’è il mare».

«Com’è grande! Questa Napoli io non l’ho mai vista, noi abitiamo alle rocce… figuriamoci, una come lei quella Napoli non la conosce nemmeno».

Due semafori, una piazza trafficata con macchine in coda dietro a un autobus e la strada leggermente in salita tra case di pietra, i tetti a mansarda e piante già verdi con il vento che ne smuoveva appena i rami per farle sembrare vive.

«Abita qui?»

«Gilardi? Qui ha lo studio». Fermò la macchina davanti al cancello e Giacomo aprì la portiera dalla parte della ragazza. «Tutto bene?»

«Sì, un operaio ci ha viste mentre lei saliva, ha urlato… ho cambiato la targa. Ora la rimetto a posto».

«Tu sei Annagloria? Io sono Giacomo, lavoro con Max Gilardi: vieni, ti aspetta».

La ragazza non sembrò confusa. Rimise la testa dentro la macchina. «Grazie, sa? Mannaggia se è forte! È vero che mi scappa la pipì, mannaggia…»