Venti
«Se le mangia sì, povera creatura, aveva fame… Ancora ne vuoi?» E fece il gesto di versarle altra pasta nel piatto. La ragazza sorrise e disse di no, muovendo la testa. «Vedi che capisce? È che parla un’altra lingua… se tu vai in Africa saresti come lei…»
«Col cavolo, io me la sbrigo con l’inglese… questa non ne sa una».
La madre le versò nel piatto un po’ di uovo strapazzato con il pomodoro e le mise in mano un pezzo di pane. «Insieme» le disse, più a gesti che a parole.
Mangiò anche quello e poi una pesca divisa a metà con Annagloria.
«E tu, ma’?»
«Niente, niente. Ho dell’uva ma la teniamo per domani che siamo sole. Mangia, io mi faccio nu cafè, m’abbasta».
Dopo aver messo via piatti e tegami, si sedettero davanti al televisore, regalo – si fa per dire – della signora Cristina del primo piano che se n’era comperato uno nuovo, grande il doppio, e questo l’aveva dato a lei, invece dei soldi di un mese.
«Me la sono comperata, questa televisione, che regalo» si vantava Beatrice Longoni. Lo ripeté anche quella sera, per la ragazza che non capiva. Ma che rideva, come se la televisione non l’avesse mai vista. Si alzava, andava a toccare lo schermo e rideva.
«Grrr… grrr…»
«Chissà che dice e che cosa le passa per la testa. Domani in ospedale vedranno che c’ha in quella testa… quanti anni può avere?»
«La mia età. Ma che cosa dirai quando ti chiederanno da dove viene, come si chiama… non è un gatto randagio: che gli dici?»
«La verità, che devo dire? Non l’ho portata stasera perché era tardi… che devo dire? Mi ringrazieranno, magari c’è anche una ricompensa…»
«Che aspettava te… sono giorni che gira per il porto, e arrivi tu. Io ce la porterei subito in ospedale. Chiamiamo un tassì e ci facciamo ridare i soldi dall’ospedale».
«Subito, come no? L’ospedale ti dice che dovevi chiamare e venivano loro… ma non ce li voglio qui… domani ce la porto io, qui al Policlinico… Dico che l’ho trovata per strada, ho fatto bene?»
Era quasi mezzanotte quando la ragazzina fece capire che aveva bisogno di un gabinetto: l’aiutarono a lavarsi e poi ad andare a letto.
«Ora vengo anch’io… dormi, sai? Ora vengo anch’io». E alla figlia aggiunse di aver usato un solo lenzuolo per non sporcarne due.
Batté le mani, una contro l’altra. «E domani è tutto finito».
Si rimisero, madre e figlia, davanti alla TV. «Ma quello… ha detto che è un avvocato? È lui che difende la Percuoco? E ci credo… che bello è? Ho letto che l’assolvono… forse. Come si chiama, l’ha detto?»
«Aspetta e statti calma, che ti succede? Non sposa di certo una come te, chissà che moglie ha, quello… Gilardi, ecco è scritto sotto. Massimo Gilardi, avvocato».
«Scrivimelo un po’…»
«Ma ti dà di volta il cervello, che ci vuoi fare?»
«Saprei io…» e scoppiò a ridere. «Magari non ha serva e ci vado io… scrivimelo un po’, che con questa testa, magari mi scappa… Massimo. ’n attore, sembra. Bello, madre santa. Quanti anni può avere?»
«Sai che me ne importa? Ma mi fai sentire?»