Trentadue

Stava tornando a riva, diede tre o quattro bracciate e si alzò in piedi, sotto sentì la sabbia sottile come seta. Un ragazzo gli stava facendo segno di tornare. Dai gesti più che dalle parole capì che il cellulare che aveva lasciato nella tasca dei jeans stava suonando.

Il ragazzo, che era rimasto di guardia, gli indicò i calzoni.

«Sì, grazie». Si asciugò la mano e prese il telefono. «Amore, che cosa c’è?» Ascoltò corrugando la fronte. «Sono in una baia, sono venuto in barca a nuotare… sì, bello. Ma che cosa succede? Che cosa?» Strinse le labbra. «La polizia? Sì. Ho capito. Mi ci vorrà una mezz’ora… vuoi passarmelo? Va bene, diglielo tu… Aspettami lì, sì ho capito, mandami un messaggio con il nome e l’indirizzo del negozio. Arrivo».

Con un salto risalì sul gommone che l’aveva portato a metà strada tra Bitez e Ortakent, in un angolo di spiaggia dove il mare era verde e appena increspato. E dove aveva finalmente nuotato, scacciando ogni pensiero, con la gioia di quando era ragazzo.

Fu allora, come una morsa improvvisa, che gli tornò in mente una frase di Jean-Claude Izzo: Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice.

Quella massa verd’azzurra si ricomponeva, davanti ai suoi occhi, oltre la striscia di schiuma bizzarra e imprecisa lasciata dal gommone. E capì che per lui la felicità non sarebbe mai stata un’idea semplice. Ma un continuo dolore rimandato.

In inglese domandò al ragazzo se poteva andare più in fretta. Gli rispose di no. Da quello che capì ci avrebbero messo mezz’ora.

Ripensò a quello che gli aveva detto Olga. Calma, serena e precisa come era nel suo stile, gli aveva detto che era in un negozio dove aveva mostrato la famosa tunica, chiedendo se ne vendevano di simili. Per risposta, il proprietario aveva chiamato la polizia. Si erano fermati quando lei aveva detto di essere la moglie di un avvocato, che ora sarebbe venuto a chiarire il possesso di quella tunica.

Mentre aspettava, per dimostrarsi assolutamente tranquilla e serena, aveva scelto le tuniche e i sandali per le sorelle. Era riuscita a ridere con la ragazza che la serviva.

«Ma lei è italiana? Ho sentito che prima parlava al telefono in italiano».

«Siamo italiani, sì…»

«Anch’io, pensi un po’… sono di Brescia, ma ormai sono qui da sei anni. Lei di dov’è?»

«Siena. Mio marito è di Napoli».

«Oh, Napoli!» Siena non l’aveva colpita, ma Napoli sì. Lo disse in inglese al gruppo di persone, con quello in divisa della polizia, che stavano aspettando. «Sono di Napoli, italiani».

Stavano facendole il conto, quando di colpo Olga vide tutte le teste girarsi verso la porta: stava entrando Massimo Gilardi.

Dopo aver messo un braccio intorno alle spalle di Olga, Gilardi si scusò per i suoi jeans e la maglietta di cotone, in fretta disse dov’era stato e guardò l’ora.

«Mi dispiace, non abbiamo potuto andare più in fretta. Che cosa succede?»

Sul bancone della cassa mise la carta d’identità e il biglietto da visita.

«Avvocato del tribunale di Napoli» lesse il tenente di polizia. Fece la smorfia che di solito accompagna una notizia importante. E in inglese domandò come avesse avuto quella tunica.

La difficoltà di capirsi.

«Io sono italiana, se vuole» s’intromise la ragazza di Brescia che aveva servito Olga.

Il poliziotto scosse la testa. Evidentemente non volevano testimoni. In cattivo inglese domandò: «Lei può gentilmente seguirmi al commissariato?»

«Certo, andiamo». Gli fece cenno con la mano di fermarsi, perché doveva prima chiedere a Olga che cosa volesse fare. «Continui con gli acquisti e ci vediamo a colazione?»

«Non credo che mi vogliano con te. Ti aspetto in albergo». Lo baciò ridendo. «Fagli vedere chi sei!»

«Ciao, amore».

«Sposini?» domandò la ragazza di Brescia, quando Gilardi e i poliziotti furono usciti.

«No, innamorati».