Dodici
Decisero di lasciare la macchina nel garage dello studio di Gilardi e di salire tutti e tre con l’ascensore.
In corridoio Annagloria riconobbe Max Gilardi che le veniva incontro.
«È lei…» Non era una domanda.
«Sì, Annagloria» e le strinse la mano.
«Ha bisogno di una toilette» suggerì Elsa Bruni.
La ragazza le regalò un sorriso. «Lei è proprio forte».
Mentre Annagloria con Aurora si serviva della toilette e poi accettava un’aranciata e un cornetto, Elsa Bruni raccontò del finto rapimento.
«Ci ha viste uno, che ha gridato. Ma ho cambiato la targa, non ci ha seguito nessuno… Non ho visto nessuno neppure qui, ma c’era già Giacomo quando siamo arrivate».
Laura Licasi tese il cellulare a Gilardi, mentre si incamminavano in fila indiana verso lo studio. «Scalzi» disse a bassa voce.
«Gilardi».
«Hanno rapito la ragazza». Non sembrava la voce di uno che stesse bluffando, sembrava serio e preoccupato.
«Perché lo dici a me?»
«Laura ha chiesto al tenente Forte foto e indirizzo…»
«Per la documentazione…»
«Le cose si complicano, mannaggia. Ti avevo detto che ho parlato con un ragazzo americano che faceva servizio in un bar sulla banchina al porto? L’hanno trovato ammazzato stamattina, davanti al bar… Aveva conosciuto la morta senza nome. E ora sparisce questa… Non ci capisco più niente, mannaggia».
«Perché non vieni qui e ne parliamo? Dove sei?»
«Dalle tue parti, vengo dal tribunale… Sì, grazie. Tra dieci minuti sono lì. Grazie, sai».
In studio Gilardi mise una sedia dietro la scrivania e fece cenno a Annagloria di sedere accanto a lui.
«Sta arrivando Scalzi» disse.
«Oh, no…» Annagloria si coprì il viso con le mani. «Quello mi odia, non crede che dico la verità… io non so parlare, ma ho paura… Hanno ammazzato mia madre, ammazzeranno anche me».
«Intanto sei qui e qui non ti odia nessuno, neppure Scalzi. Sei superprotetta. E ora vediamo di capire che cosa sta succedendo. Ci aiuterai e noi ti proteggeremo, va bene?»
La ragazza accettò il fazzolettino che Laura le porgeva e disse di sì.
«Noi andiamo».
«Sì, Giacomo, grazie. Non prendete la macchina, lasciatela in garage. La targa è cambiata ma la macchina la riconoscono».
«Sì, sono in scooter».
«Ciao». Elsa Bruni alzò il pollice verso Annagloria e le strizzò l’occhio. «Ciao, bella».
«Ciao, va’…»
«Durante il terremoto dov’eri?» le chiese Gilardi, quando finalmente rimasero soli con Laura Licasi che era al telefono.
«A Sondello dov’ero? Eravamo a letto. La prima scossa è come se il letto ti scivolasse da sotto la schiena. Mia madre ha urlato. Poi ci è caduta addosso una parte dell’armadio che era di fronte… poi un pezzo di soffitto con il filo della lampada penzoloni… e tutto tremava e tu sembravi fermo, invece tremavi anche tu e cadevi. Tutti urlavano e urlavi anche tu. Vai dove ti portano i calcinacci, i pezzi di muro… tu non puoi fare niente. Ti ripari la faccia e urli finché hai fiato. E tutti urlano, e allora sai che sono vivi. Io sono rimasta impigliata in un pezzo di pavimento crollato al piano di sotto, mia madre era sparita. La sentivo urlare… Era tutto buio, poi un filo di luce, urla, grida… Allora ho gridato anch’io. Non so quanto sia durato, ora mi sembra una cosa da poter raccontare in fretta… non so quanto sia durato. Quattro mani mi hanno afferrata e mi hanno tirata fuori dai calcinacci e dai pezzi di muro, mi faceva male una gamba, la schiena, la mano, ma non avevo più la forza di urlare. Erano tutti gentili, facevano piano… Urla venivano da altre parti, muri e tetti che cadevano, i cani… Mi sollevarono come se fossi stata vuota, forse ero svenuta. Uno era lui».
«Lui, chi?» chiese Gilardi. Voleva sentirglielo dire.
«Ezio, il mio ragazzo… Mi ha baciata. Mia madre l’hanno mandata all’ospedale, era viva ma si era rotta una spalla. Io non mi ero fatta niente di grave e mi hanno mandata in chiesa con mia zia, che era rimasta senza casa. Ecco, è così che ci siamo conosciuti».
«E volete sposarvi».
Annagloria non rispose. «Quando avrai finito la scuola» insistette Laura Licasi.
«Tanto a scuola non ci vado più. E ora ho paura».
Non fecero in tempo a sentire, e comunque non glielo avrebbero chiesto, che cosa la spaventava: sulla porta era apparso Roberto Scalzi ed era rimasto interdetto a fissare la ragazza, Gilardi, poi Laura.
«Che cosa succede?» domandò. Tra sé dandosi del cretino.
«Siediti, Roberto. Tu conosci Annagloria… Non è stata rapita, l’abbiamo condotta qui perché ce l’ha chiesto lei. Ci ha detto di avere paura».
«Paura di chi?» Un’occhiata di Gilardi lo fece tacere.
Intanto Aurora era entrata con caffè, bicchieri e qualche bibita fresca. Le lasciarono il tempo di sistemare ogni cosa con ordine sulla scrivania, di raggiungere la porta e di dire, prima di richiuderla: «Nessuna telefonata, okay».
Gilardi mise davanti a Annagloria un bicchiere di aranciata e un tovagliolino. Fu in quel momento e in quel gesto che un pensiero gli attraversò la mente facendogli quasi male: quella ragazzina avrebbe potuto essere sua figlia.
Sua figlia. Che cosa avrebbe fatto se fosse stata sua figlia? Scartò senza vergognarsi scazzottature, revolver, incidenti… Scartò la violenza che non sarebbe servita. Riconobbe la sua mano che accarezzava la fronte sudata di quella ragazzina.
«Annagloria Longoni, per ogni evenienza relativa a questo caso è sotto la nostra custodia legale».
Scalzi fece di sì. «Prendo atto». Deglutì. «Perché hai paura?»
Annagloria lo guardò come se quella domanda avesse avuto di colpo la maledizione di riportarla alla realtà. Era tutto passato, tutto finito: la donna con i capelli rossi, la macchina, la strada, quell’uomo alto e gentile che le aveva fatto una carezza.
Ecco, questa era la realtà. Quella domanda.
No, dentro di sé la chiamò in un altro modo. Che non avrebbe detto.
Ma era quella la domanda. Perché hai paura?
«Ci stanno ammazzando tutti». A bassa voce. Poi lo disse di nuovo, urlando. «Ci stanno ammazzando tutti».