Trenta
Laura Licasi entrò nella saletta e un appuntato chiuse la porta alle sue spalle. L’avvocato Creatini le andò incontro sorridendo come se fossero in un salotto.
«Buongiorno» rispose asciutta e si mise a sedere di fronte a Ezio Volpi, che aveva steso la gamba ingessata su una sedia e appoggiato al tavolo la stampella.
Laura guardò la situazione, e aprendo i fascicoli davanti a sé si rivolse all’agente che era rimasto accanto alla porta.
«La stampella…» disse sottovoce.
«Sì, scusi, avvocato». L’agente prese la stampella e l’appoggiò al muro. Accese il registratore e si mise sull’attenti accanto alla porta.
«Aveva paura che gliela dessi in testa?»
Nessuno rise della battuta e il giovanotto incrociò le braccia sul tavolo. «Che cosa vuole sapere da me? Io ho già detto tutto al mio avvocato… questo qui».
«Le sue generalità».
Mentre le ripeteva cantilenando come se recitasse uno scioglilingua, Laura Licasi le confrontava con il foglio che le aveva dato l’avvocato Creatini.
Alla fine disse di sì e chiuse la cartellina.
«Abbiamo finito?» domandò Ezio Volpi ridendo.
«Il suo avvocato le consiglierà di essere poco spiritoso, lei rischia trent’anni di galera, gliel’hanno detto? Penseremo noi a fare in modo di lasciarla in galera tutto il tempo necessario, stia tranquillo. Quindi ora risponda seriamente, altrimenti mi alzo e me ne vado e il suo avvocato le dirà…»
«Ma queste cose le ho già dette, quante volte dovrò ripeterle?»
«Tutte le volte che sarà necessario e che le verranno richieste».
Diventò sbruffone, alzando il mento. «Quali cose vuole, la morte della ragazza?»
Intuì che si riferiva alla ragazza senza nome. Disse di sì e lo ascoltò ripetere per filo e per segno tutto quello che aveva detto Annagloria nella versione che aveva dato a Gilardi. Quindi ammise il suo intervento, l’arrivo a casa delle Longoni, il trasporto della ragazza da casa alla roggia dopo essersi accertato che fosse morta.
«Morte naturale, io non ho visto nessuno che le ha messo un cuscino sulla bocca».
«Nessuno gliel’ha chiesto».
«Non voglio prendermi responsabilità… poi mi sono fatto una doccia, rivestito e sono tornato a casa».
«Perché la Longoni e dopo Annagloria hanno detto che la ragazza era scappata?»
Il giovanotto sorrise con una faccia da schiaffi. «Gliel’avete chiesto? Forse non volevano mettermi di mezzo. Ma non c’era niente di male, era morta».
«Lei dove vive?»
«A Sondello, nella casa comune di don Carlo. Dobbiamo essere pronti se arriva un’altra scossa. Io ora vivo lì, quello faccio…»
«Lei non ha sparato alla ragazza?»
«Può darmi del tu…»
«Risponda».
«No, non ho sparato. Che sparavo a fare, era già morta. E io di morti me ne intendo».
«Sa chi è stato?»
Si confuse, guardò via. Poi abbassò la testa verso Creatini. «Ma devo rispondere? Questo non riguarda me».
«Rispondi, vuoi che ti accusino di reticenza? Rispondi, avanti».
«Ma era già morta, che sparavo a fare?»
«Rispondi all’avvocato, te l’ho detto: devi rispondere all’avvocato».
«Ci sono tornati dopo».
«Chi?»
«Ma lei, signora avvocato, ha idea di che cosa mi faranno se sanno che faccio i loro nomi?»
«Io so che cosa le farà il tribunale se non collabora, scelga».
«Allora, come vuole lei. Ma poi lo dice che ho sempre risposto, mi aiuta. Torno a Sondello e lo racconto a quei due. Loro prendono la moto, tornano a Napoli, vanno alla roggia, sparano e tornano con la pallottola. Sa lei perché? Io non ci ho capito, ma volevano mandarla a qualcuno, come prova. Sono fuori di testa, quei due. Uno ha sparato a una morta e l’altro per aria…»
‘Ecco l’altra pallottola’ pensò. Ma ormai era sicura che Scalzi l’avesse riconosciuta, confrontandola con quella che aveva ucciso il barista del porto.
«I nomi».
Li aveva scritti sul documento che stava consultando, ma voleva sentirli dire da lui.
«Gianni Rosmini e Romeo Ricci… e adesso io sono bell’e fregato».
Fece l’atto d’alzarsi, ma la posizione e l’ingessatura gli vietarono qualsiasi movimento.
«Perché hanno sparato a una ragazza già morta?»
Ezio Volpi alzò le spalle. «Per vantarsi, che ne so? Senza sapere che il dottore, quello dell’autopsia, avrebbe capito che era già morta, di solito nei film è così. Ma quei due sono fuori di testa. Pensano solo ai soldi».
«Sono già a disposizione della squadra investigativa» le suggerì Creatini. «Se guarda il resoconto del RIS, l’Uomo C del rapporto è questo Gianni Rosmini e l’Uomo D è l’altro, il Ricci. Sono a disposizione, interrogati hanno negato ogni addebito».
«Normale».
Si rivolse ancora a Volpi.
«Chi ha sparato a Fred, il barista del porto?»
«Mannaggia, ma anche questo? Perché lo chiede a me?»
«Rispondi» gli ordinò a bassa voce il suo avvocato.
«Ma lei difende me o che cosa? Mi vuole morto? Quei due mi ammazzano, lo volete capire, sì o no? Mi ammazzano».
«Stia tranquillo, questo è un posto sicuro. Anche per gli assassini».
«Seee, lo dice lei che non li conosce. Io ho paura…»
«Ha ammazzato lei Fred al porto?»
«No, no che non l’ho ammazzato io. Guardate le pallottole, fate il vostro mestiere… No che non l’ho ammazzato io! Mi era pure simpatico».
«Le rifaccio la domanda: chi ha ammazzato Fred al porto?»
«Loro, l’hanno ammazzato. Loro, mannaggia».
«I nomi?»
«Sempre quei due, gli stessi: Gianni Rosmini e Romeo Ricci».
«Andiamo avanti».
«C’ero anch’io, ma io non ho sparato. Giuro!»
«Perché gli hanno sparato?»
«Perché su un giornale che aveva quello, un giornale americano, c’era la storia di quella tunica. Che era stata rubata da non so dove e che valeva un sacco di soldi. L’abbiamo riconosciuta, lui ci traduceva… noi avevamo perduto la ragazza e la tunica. Ce l’avevamo lì e non lo sapevamo. Sembrava uno straccio, chi andava a pensare che valeva qualcosa quel brutto straccio. Io sono tornato subito a casa della Longoni, ma la tunica non c’era più, Annagloria aveva portato via tutto. Allora abbiamo capito che forse era arrivata in casa della zia, a Sondello. Quei due si erano montati la testa, parlavano della tunica… insomma, si erano messi in testa di diventare milionari… Io avevo paura, ma l’americano faceva il cretino e loro l’hanno tolto di mezzo».
«Come interpreto l’espressione ‘faceva il cretino’?»
«Diceva che lui avrebbe saputo a chi dirlo… l’ambasciatore, che ne so».
«L’ambasciatore americano?»
«Quello… Che gli poteva scrivere dov’era la ragazza…»
«Ma la ragazza era già morta…»
Fece di sì con la testa. «Sì, ma lui ne parlava come se fosse ancora viva e allora abbiamo capito che si riferiva a Annagloria. La ragazza che aveva la tunica era lei. Fred continuava a dirci che sarebbe diventato ricco… Senta, avvocato: io le racconto queste cose, ma lei sa che cosa rischio? Questi mi ammazzano».
«La proteggeranno. Credo di aver capito. Hanno ammazzato Fred perché non volevano spartirsi con lui la tunica: possiamo dire così?»
«Magari sì, avvocato. Così». E guardò Creatini molto soddisfatto, come se fosse stato assolto. «Proprio così. Ma ormai tutti sapevamo che la tunica l’aveva Annagloria».
«Andiamo con ordine. Prima pensiamo alla madre: chi ha sparato a Beatrice Longoni?»
Il giovanotto si agitò sulla sedia per quanto gli permetteva l’ingessatura, e sbuffò. «Ma anche questo?»
Incrociò le braccia sul tavolo con aria scontenta.
«Io avevo saputo da Annagloria che sua madre era andata a far chiacchiere con un avvocato. Pensavo che nessuno avrebbe dato retta a una come quella, figuriamoci se un avvocato ci avrebbe perso tempo. Non ci pensavo, ma quando Annagloria mi disse che la madre sarebbe andata alla polizia a raccontare la storia della notte e della morta, e magari a parlare di me che le avevo aiutate a sbarazzarsi del cadavere, mettendomi di mezzo, allora mi sono spaventato». Si passò una mano sulla fronte, era sudato. «Io non mi sto mai zitto, mai mi faccio gli affari miei. L’ho detto a quei due, e mi sono saltati addosso: che bisognava fermarla. Se la polizia veniva a cercare me, avrebbe messo il naso anche negli affari loro, se m’ero bevuto il cervello… insomma, hanno deciso di farle cambiare idea, e siamo tornati a Napoli… devo continuare?»
«Sin qui lo sapevamo anche noi. Dopo che cosa è successo?»
«Arriviamo alla casa della Longoni, sapevo che Annagloria non c’era perché era a una festa scolastica… insomma, con le compagne di scuola. Volevamo spaventarvi, non uccidervi… Romeo è un bravo elettrauto, ha messo una roba nel motore che non vi avrebbe ammazzato… glielo ripeto, anche se io non c’entro: non volevamo ammazzarvi. Dovete tenerne conto…»
«Non è compito mio. Dopo?»
«Vi mettete in macchina, lei accende il motore e scoppia la scintilla… lì c’è la benzina… partono le fiamme, roba da poco… lei apre le portiere, la Longoni esce e quelli sparano…»
Lisciò con le mani sudate il pezzo di tavolo che aveva davanti e si passò la lingua sulle labbra.
«È così» disse, come se la faccenda potesse considerarsi chiusa.
«Perché le hanno sparato se non era loro intenzione ucciderci?»
«E lo chiede a me? A loro, si accomodi… io che c’entro? Io non avevo neanche la pistola. Lo chieda a loro…»
«Lo faremo» disse asciutta. «E ora veniamo a Annagloria e alla sera del…»
«Lasci stare, avvocato». Con voce rotta e le mani sulla faccia, come se volesse nascondersi. «Lasci stare» ripeté angosciato.
«Lei sa che dobbiamo parlarne, invece».
«Cara collega, non è stato lui a sparare».
Laura Licasi lo fulminò con lo sguardo. «Sentiamolo da lui».
«Eravamo d’accordo che io dovevo chiamarla, farla ragionare e farmi dare ’sta famosa tunica… solo questo. L’avevamo seguita, dentro e fuori da una boutique, ma c’era gente e c’era lei» e le puntò un dito contro. «Poi siete andate dall’avvocato e l’abbiamo aspettata. L’idea era di prenderla e io ho detto che dovevano lasciar fare a me, sapevo come trattarla. Era cocciuta, ma mi amava, andavamo d’accordo…»
«Avevate già cercato la tunica?»
«Sì, dalla zia… c’erano andati quei due… Ma c’era stata anche una della polizia e la zia a me aveva detto che non aveva trovato niente. Si parlava di quella tunica, tutti la cercavano ma nessuno sapeva dov’era finita».
«Lei sapeva per certo che quella tunica l’aveva Annagloria?»
«Sì, mi lasci dire. C’erano andati, avevano frugato, ma non l’avevano trovata. Io dovevo farmi dire dov’era… eravamo lì per quello. Annagloria mi ha detto di andarmene, con una voce che non la riconoscevo…» Si passò una mano sulla fronte. «Non era più lei, ho perso la testa. Ho alzato la mano con la pistola, ma non ho sparato, glielo giuro. Sono stati loro, io non ero neanche in posizione giusta per sparare. Quando quello… ho letto che è stato l’avvocato: ma non va in galera un avvocato per avermi sparato addosso?… Quando quello m’ha sparato addosso, io ero sullo scooter, sono andato contro il muro e mi sono rotto la gamba… quei due sono scappati a tutto gas. Ma non ho sparato io… confrontate le pallottole, confrontatele…»
«Già fatto».
«Non sono un assassino… e mai avrei sparato alla mia ragazza».
Laura Licasi si era alzata e stava raccogliendo le sue carte, il registratore e il tablet. «Ci vediamo in tribunale».
«Tutto a posto, vero collega?»
«Se la vedrà con l’avvocato Gilardi».
«Non mi mettete in cella con quei due, mi ammazzano».
Laura girò appena la testa. «Difficile da credere per uno come lei, ma qui sanno quello che fanno. Buongiorno».
Il saluto era per l’avvocato Creatini, che era rimasto a guardarla senza parole. Quando Laura Licasi chiuse la porta, inebetito rispose «Buongiorno».