Diciannove

Entrando sentì che nello studio di Aurora stavano ridendo. Ne fu infastidito. Mise dentro la testa, socchiudendo la porta, e a labbra strette disse: «Laura». E richiuse.

Laura fece segno a Annagloria e a Aurora di tacere. «Ha la luna… qualcosa deve essere andato storto, mannaggia. Vado a sentire, e tu tienti pronta. Hai capito?»

Annagloria mosse appena la testa. Che era ben pettinata, con i capelli raccolti dal nastro bianco a foglioline verdi, lo stesso disegno del vestito a due pezzi, corpetto a girocollo, senza maniche, e gonnellina pantaloni a pieghe che le arrivava sopra il ginocchio.

«Ma davvero te l’hanno regalato?»

«Sì… perché ho aiutato quelle ragazze americane a scegliere… hanno speso un sacco di soldi».

«Sei una personal shopper

«Che?»

«Una di quelle che fanno comperare i vestiti e guadagnano sulle vendite… che aiutano a scegliere… ma non li leggi i giornali? Non ce l’hai un computer? Io non potrei mai farlo perché con i vestiti sono un disastro, ma mi piacerebbe».

Aveva alzato la testa di colpo verso la porta. «Non so» disse. Poi andò verso Laura che la stava chiamando: e aveva perduto la voglia di ridere.

«Che cosa vuole?» domandò in corridoio.

«Non lo so. Ma tu di’ sempre la verità. Gilardi odia i furbi, quelli che vogliono imbrogliarlo… tanto non ci riescono mai, perché lui è più furbo e più intelligente di tutti. Ti prego, Annagloria… me l’hai promesso».

«Sì, certo… a mentire non ho nessuna convenienza. Sai se hanno interrogato lui?»

«Suppongo di sì, avrà un avvocato d’ufficio».

«Chissà che cosa ha raccontato…»

«Fregatene, tu devi dire sempre la verità. Questo è il tuo avvocato: puoi fare la furba con chi vuoi, mai con il tuo avvocato. Ricordati quello che ti ho detto: anche se tu fossi un’assassina… no, dico in generale, parlo per Gilardi. Lui sarà sempre dalla tua parte. E se sei sincera, se lui saprà la verità, saprà difenderti e aiutarti meglio. Ti ricordi gli esempi che ti ho portato? Ti ricordi le storie?»

«Sì, certo… Voi avete tanta pazienza, e io ho tanta paura».

«Non di Gilardi. Mai. Li hai conosciuti i suoi figli. Tu sei come una figlia e lui ti aiuterà… È l’uomo migliore del mondo, tua madre ti ha fatto un gran regalo».

«Sì, la mia mamma… se mi vedesse ora». Strinse le labbra e deglutì. La voglia di piangere. A labbra strette disse di sì, muovendo soltanto la testa.

Era pronta.

Rimasero in piedi davanti alla scrivania sino a quando Gilardi spense il cellulare.

«Buongiorno».

«Ciao… ma come sei elegante».

Anche a lui raccontarono, accavallando voci e parole, delle americane che nel negozio di abbigliamento lei aveva aiutato a scegliere vestiti, scarpe, borse. «E il direttore le ha regalato la sua spesa…»

«Bene, cominciamo». Appoggiò la schiena alla poltrona e incrociò le braccia. «Ora mi dici tutto quello che riguarda i tuoi rapporti con questa ragazza, dalla prima volta che l’hai vista…»

«È stato al porto… stava con Fred. Ma quando siamo arrivati noi s’è nascosta e Fred ci ha raccontato che non sapeva da dove era arrivata… aveva fame e camminava scalza con quel camicione verde e viola… Poi qualche giorno dopo, che poi è il giorno che nella notte è morta…» Si confuse e tossì. «Devo raccontare anche questo?»

«Sì, tutti i particolari».

«Ma il mio… Ezio, insomma, avrà detto…»

«Questo Ezio non è mio cliente, tu sì. E da te voglio la verità. O la dici a me o la vai a dire in Questura».

«Sì… Io arrivo a casa verso le sei, sei e mezza. Per entrare in casa nostra si passa dalla scala a un terrazzino coperto… Mia madre ci aveva tirato delle corde e ci stendeva la biancheria, la nostra e anche quella delle signore di sotto, dove faceva le pulizie. Quel giorno entro e vedo appesa la palandrana di quella ragazza, la tocco e sento che è bagnata. Allora capisco che mia madre se l’è portata in casa e gliel’ha lavata…»

«Non è questo che ci hai raccontato, qual è la verità? Eri a casa a fare i compiti o sei arrivata e la ragazza era già lì?»

Annagloria abbassò la testa. «Questa qui».

«Allora cancelliamo che eri già a casa a fare i compiti?» Gli rispose un verso che poteva sembrare un sì. «Tua madre ti aveva già parlato di lei?»

«Sì… che aveva incontrato una ragazza straniera, che non parla e non capisce, e che le aveva chiesto un caffè».

«Ti ricordi quando?»

«Un paio di giorni prima… e io avevo capito che si trattava della ragazza di Fred… avevo riconosciuto il vestito». Alzò gli occhi verso Gilardi. «Va bene?» domandò.

«Va’ avanti».

Uno sguardo di sfuggita a Laura, poi abbassò ancora gli occhi alle sue mani, ai pugni stretti sulle ginocchia. «Allora entro in casa pronta a esplodere…»

«Ma che ci fa…»

La ragazza, che ora indossa uno dei suoi abiti bianchi di cotone a fiori, è seduta al tavolo di cucina e ride.

«E questa?»

«Ti ricordi… te l’ho detto di quella ragazza che mi ha chiesto un caffè… non è italiana, non parla la nostra lingua e non capisce».

«E il mio vestito?»

«Le ho lavato quella tunica che portava, era lercia… dopo te lo lavo e te lo stiro. Vuoi anche tu un pezzo di ciambella con il latte?»

«No… e quando se ne va?»

«Quando s’asciuga la tunica… intanto la facciamo mangiare. Guarda com’è magra, sembra un uccellino caduto dal nido».

Si era seduta al tavolo di cucina, di fronte alla ragazza.

«Come ti chiami?»

Risatina di risposta.

«What’s your name?»

Altra risata.

Si girò verso sua madre. «Ma non capisce o è scema?»

«Magari s’è persa».

«Sta girando al porto… l’abbiamo vista che camminava laggiù, ho riconosciuto il camicione verde e viola».

Prese il mazzo di carte che era in mezzo al tavolo e mise, una accanto all’altra e scoperte, le figure del re e della regina.

La ragazza si fece improvvisamente seria, poi accarezzò la figura della regina e sorrise.

«Quando se ne va? Io qui in casa non ce la voglio, non sappiamo chi è, da dove viene… come ci è arrivata dal porto a qua, che mestiere fa, che lingua parla?»

«Allora, stammi a sentire». Anche la madre si mise a sedere. «Senza fare tante storie e senza tanti requiem… la facciamo mangiare, le ho preparato il letto…»

«Il mio?»

«Macché… ho preso uno dei miei materassi, gliel’ho messo in terra e le ho preparato una cuccia. Solo per stanotte. Domattina la porto in ospedale».

«Perché in ospedale?»

«Perché forse è malata… è strana, lo vedi anche tu. Ci penseranno loro a chiamare la polizia… la mia opera di bene finisce lì. Quindi ora calmati, gioca un po’ con lei, metti tre piatti in tavola che tra un po’ mangiamo… sempre che mangi anche lei. Ho fatto la pasta con le sarde, è così magra».

«Ora chiamo Ezio».

«E lui che c’entra? Questa è casa sua? Questa è casa mia e ci porto chi voglio, devo chiederlo a questo chi ci devo portare? Lascialo dov’è, che avrà il suo daffare con i terremotati. Qui la casa è solida». E senza una pausa aggiunse: «Lascialo stare, qui ora non ce lo voglio».

A gesti, sorridendo, cercò di spiegare alla ragazza che Annagloria era sua figlia. La ragazza rideva, da sembrare scema. Con il cucchiaio picchiava sul tavolo e rideva. Diventava seria soltanto quando passava due dita sulla figura della regina.

«Vuoi vedere che sua madre è davvero una regina e ci danno un premio perché l’abbiamo trattata bene?»

«Mamma, sveglia! Questa ti pare la figlia di una regina? Sembra quel film, come si chiamava? Che lei era figlia di un orango…»

«Ma dai, questa è carina… chissà da dove è scappata».

«Era in porto… Come c’è finita da ’ste parti?»

«Loro ci devono pensare, loro… Io le do da mangiare e da dormire, amen…se lo facciano dire da lei… dammi il piatto, il suo, sì… magari se ne vuole gliene do ancora, vediamo se la mangia…»