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Quando scese dall’auto, a Katherine sembrò di essere in una spedizione alla conquista del Museo Egizio. L’edificio era stato isolato: veicoli della polizia bloccavano il passaggio nelle vie del quadrilatero e agenti in divisa erano sparsi su tutto il perimetro.
«Benvenuti a casa mia!» esclamò Roger Lagrange, allargando le braccia. «Non potete immaginare quanto sia felice di avervi qui.»
Guelfi gli batté una mano sulla spalla. «Apro e chiudo parentesi: sei sempre una garanzia.»
Katherine pensò che fosse davvero una fortuna conoscere Lagrange. Data l’amicizia di lunga data, Guelfi si fidava ciecamente e non si era risparmiato in elogi sulla sua carriera. Ma anche per lui era stata una sorpresa scoprire che faceva parte del consiglio di amministrazione della Fondazione del Museo delle Antichità Egizie di Torino.
Gli aveva chiesto di raggiungerlo sull’isola per decifrare i tatuaggi di Theodore e si era dimenticato di annullare l’appuntamento una volta sparito il cadavere. Ma appena se l’era trovato in commissariato, non aveva perso l’occasione di coinvolgerlo comunque. E Katherine era convinta che fosse stata la scelta giusta. Dopo essersi confrontati, lei e Guelfi avevano deciso di metterlo al corrente dell’esistenza della parte superiore della stele di Rosetta. Lagrange non era riuscito a mascherare lo stupore e li aveva sommersi di domande. Guelfi si era limitato a spiegare il minimo necessario per avere il suo appoggio. Nemmeno una parola su coalizione e fedeli.
«Venite, faccio strada.»
Mentre Lagrange li invitava a seguirlo, lo sguardo di Katherine corse sull’articolata facciata rivestita in cotto.
«Il Collegio dei Nobili» chiarì lui. «È un palazzo di fine Seicento, nato come istituto scolastico per i rampolli dell’aristocrazia piemontese. Il progetto iniziale era molto ambizioso e avrebbe dovuto occupare tre isolati. Per mancanza di fondi ne è stata portata a termine solo una parte, ma con la signorilità di una struttura di rappresentanza dalla ricca ornamentazione.»
«Tipico da puzza sotto il naso torinese» commentò De Luca.
«L’hai detto tu» ironizzò Lagrange, in attesa tra le colonne che reggevano la balconata sopra il portale di ingresso. Lasciò passare Katherine. «Dopo di te.»
Lei gli sorrise. Le piacevano i suoi modi: era sicura che quella gentilezza pacata fosse espressione di un equilibrio interiore. E che la semplicità con cui rendeva appassionante ogni discorso derivasse da una vasta cultura.
«Stiamo per addentrarci nel più antico museo dedicato alla civiltà egizia. È stato fondato nel 1824 e da allora si sono susseguiti ristrutturazioni continue e allestimenti di nuovi spazi espositivi. L’intervento più radicale è di qualche anno fa: vi sembrerà di fare un salto nel passato camminando attraverso diecimila metri quadrati di design.»
Superate le colonne di un androne dai soffitti a volta, Katherine sbucò in una corte. L’entrata del museo era nell’avancorpo di fronte a lei, più basso rispetto ai tre piani della costruzione a ferro di cavallo.
Un giovane uomo con una cravatta blu elettrico su un completo grigio li stava aspettando. Andò loro incontro, agitando le mani.
«Vi presento il direttore del museo» disse Lagrange. «Non lasciatevi influenzare dall’aria da sbarbatello: dottore di ricerca e grande esperto di egittologia.»
«Carlo Einaudi, piacere.»
Katherine si chiese se in quel ruolo prestigioso la massa disordinata di capelli che gli oscillava sulle guance fosse dimostrazione di coraggio o di ingenuità.
«Consideratemi a vostra disposizione.»
«Lo faremo» ribatté Lagrange. «Come prima cosa dovrai spiegare alla nostra bellissima ospite perché Jean-François Champollion abbia dichiarato che la strada per Menfi e Tebe passava per Torino.»
«Semplice, Torino era egittologa prima dell’avvento dell’egittomania.» Spostandosi i capelli dalla faccia con un dito, le ammiccò per sottolineare la frase a effetto. «Il re di Sardegna e duca di Savoia acquistò una cospicua collezione di opere da Bernardino Drovetti, un piemontese arruolatosi nell’esercito francese che Napoleone nominò console generale d’Egitto. Drovetti aveva condotto parecchi scavi nella zona tebana e nel Basso Egitto: quando le casse con le migliaia di pezzi che aveva raccolto arrivarono a Torino, Champollion si precipitò qui per continuare i suoi studi sui geroglifici.»
«Si fermò quasi un anno» aggiunse Lagrange. «Aiutò a decifrare molti testi, tra cui i frammenti del Papiro dei re, con i nomi di sovrani fino al Secondo Periodo Intermedio scritti in ieratico. È grazie a quel documento se si è potuto ricostruire in parte la cronologia dell’Antico Egitto.»
«E sempre qui lavorò sulla copia della stele di Rosetta.» Katherine li guardò entrambi. «È esposta nel museo, giusto?»
«Definirla copia non è del tutto esatto» la corresse Carlo Einaudi. «Si tratta di un calco in gesso donato dal British Museum.»
«Vorrei darle un’occhiata.»
«Non è più in esposizione.»
«Comunque è possibile vederla» affermò Lagrange.
«Certo: è nell’ipogeo, non sarà un problema mostrartela.»
A Katherine non sfuggì il comportamento deferente del direttore nei confronti di Lagrange. Avrebbe potuto essere suo figlio, ma gli portava il rispetto che si ha per un maestro.
«Che ne dite, siamo pronti per iniziare il tour?» Lagrange avanzò.
«Ho fatto come mi hai chiesto: nell’edificio non c’è nessuno. Nemmeno il personale addetto alla sicurezza. È vuota anche l’ala dell’Accademia delle Scienze.»
«Bene» intervenne Guelfi. «Sono il vicequestore aggiunto della polizia di Stato incaricato di seguire il caso. La sicurezza passa in mano nostra.»
«Sono stato informato dal prefetto.»
«Avete disattivato i sistemi di sorveglianza? Nessuna telecamera deve riprendere i nostri movimenti all’interno del museo.»
«Sì.»
«Ho bisogno che indichi ai miei uomini la sala di controllo degli impianti, le uscite di emergenza e ogni punto di possibile accesso dall’esterno.»
«Come ho detto, sono a vostra disposizione.»
Guelfi fece cenno a Ferri.
«Vado.»
«Quanti reperti ci sono?» volle sapere Katherine, mentre Ferri e altri quattro agenti si incamminavano dietro il direttore.
«Circa quarantamila: dal predinastico all’epoca romana» rispose Lagrange. «È la collezione più significativa al mondo, seconda solo a quella del Cairo. La svolta l’ha data Ernesto Schiapparelli, responsabile del museo agli inizi del Novecento: ottenne l’autorizzazione di scavare a Eliopoli e nella Valle delle Regine dal direttore generale delle Antichità al Cairo. E con il contributo di quindicimila lire all’anno donato da Vittorio Emanuele III diede vita alla missione archeologica italiana. Dodici campagne in undici siti: Giza, Assiut, Gebelein, Deir el-Medina, Assuan… ogni spedizione ha portato alla luce scoperte incredibili, come la tomba di Nefertari e quella di Kha.»
«I pezzi sono tutti esposti?»
«Solo i più importanti.»
Katherine udì del vociare insistente. «Cosa sta succedendo là fuori?»
De Luca chiamò uno degli agenti sulla strada e gli chiese di avvicinarsi. «Problemi?»
«Ci sono degli uomini che dicono di avere il permesso di entrare.»
«Deve essere arrivata la mia squadra» li informò Lagrange.
«Squadra?» Guelfi lo scrutò. «Mi avevi parlato di un paio di persone.»
«Sono pochi di più. Ho pensato che ci potessero servire esperti e attrezzature. E chi meglio di validi collaboratori abituati a lavorare su reperti e manufatti antichi?»
«Falli passare.»
Dopo qualche secondo comparvero sei uomini in t-shirt bianca e pantaloni cachi. Avevano borse, valigette, trolley. Nessuno era a mani vuote.
«Lui è Fabio.» Lagrange presentò un uomo sulla trentina dalla barba folta, scura come i capelli. «Il mio braccio destro.»
Katherine notò che sotto la montatura rotonda guizzava uno sguardo acuto.
«Appoggiate tutto per terra» ordinò De Luca.
«Perché?» Lagrange si mostrò seccato.
«Non entra niente nel museo che non sia stato controllato.»
«State scherzando?»
«Negativo.»
«Cosa credete che ci sia dentro?»
«Non crediamo, ispezioniamo.» De Luca era scostante.
«Allora ve lo dico io: c’è un portatile con una copia dell’archivio dei pezzi in dotazione al museo e le schede di ognuno di essi, vista la richiesta di non avere personale nell’esposizione. Ci sono tablet da collegare a sensori di immagine 3D per vedere attraverso le superfici e rilevare eventuali spazi e oggetti all’interno di pannelli, muri, pavimenti, elementi strutturali. Ci sono dei sistemi a raggi X portatili che servono più o meno per lo stesso scopo. Fibre ottiche, endoscopi. Ma anche scanner tridimensionali di ultima generazione e una serie di altri dispositivi utili per ciò per cui sono stato interpellato. Siamo studiosi, non terroristi!»
«Tutto per terra, o rimanete fuori.»
Lagrange afferrò Guelfi per un braccio. «Tommaso, non è accettabile. Mi è forse sfuggito qualcosa?»
«Non è mancanza di fiducia, ma ci siamo dati delle regole e dobbiamo rispettarle. È questione di minuti.»
Katherine non capiva perché Lagrange fosse così alterato. Mentre gli agenti aprivano le borse, osservò le facce dei suoi uomini. Le trovò impenetrabili.
In quell’istante vide spalancarsi una delle porte a vetri coperte con il logo del museo. Spuntò Ferri insieme al direttore.
«Otto agenti all’interno sono sufficienti.»
«Okay» convenne Guelfi.
«Teniamo aperta questa uscita di sicurezza perché dà accesso allo scalone che conduce ai vari piani. Passare da qui è più comodo.»
«Meglio che dall’ingresso principale?» domandò Katherine.
«Sì, a meno che tu non voglia attenerti al percorso previsto, transitando dalla biglietteria e salendo tre livelli di scale mobili.»
«Il percorso è cronologico e si snoda dall’alto verso il basso» fece notare Carlo Einaudi.
Se solo sapessi dove cercare.
Guelfi sembrò indovinare i suoi dubbi. «Fatti un giro, ci vediamo dentro.»
Katherine pensò che avesse ragione: da sola avrebbe potuto ascoltare l’istinto. Senza influenze esterne sarebbe stato più facile intuire dove suo zio le avesse lasciato il prossimo indizio. Di sicuro Theodore ha dato per scontato che io seguissi l’itinerario consigliato. Si avviò verso l’entrata ufficiale.
Mentre metteva i piedi sulla scala mobile che la portava in basso, sentì De Luca chiedere spiegazioni su cosa fosse una delle apparecchiature. Non udì la risposta di Fabio.
Quando si trovò nel piano interrato, iniziò a rendersi conto degli spazi. Non aveva molto tempo prima che gli altri la raggiungessero: decise di sfruttarlo per farsi un’idea, sperando che qualcosa catturasse la sua attenzione.
La visita si apriva con una sezione dedicata alla storia del museo e agli uomini e alle donne che lo avevano reso famoso. Mentre la attraversava, individuò i frammenti del Papiro dei re, disposti come pezzi di un puzzle sotto una lastra di cristallo. Se lo lasciò alle spalle per imboccare di nuovo le scale mobili. La salita era accompagnata da una gigantesca installazione creata con sacchi di iuta incollati su tela: l’azzurro del Nilo si ramificava nel deserto fino a sfociare nel mare.
Appena scese al piano più alto, mise Tremilla a terra. Le bastò un’occhiata per capire cosa intendesse Lagrange per “ambiente in cui passato e presente si fondono”: i reperti sembravano galleggiare all’interno di teche trasparentissime. Fasci di luce facevano risplendere i colori dell’antichità tra rivestimenti eterei e linee pulite. La parola d’ordine era “essenziale”. Una disposizione studiata degli elementi consentiva allo sguardo di vagare senza ostacoli: niente distraeva i sensi dal respiro di quei pezzi unici.
Katherine si emozionò. Non per l’uomo mummificato in posizione fetale risalente a oltre cinquemila anni prima. Nemmeno per il sarcofago di pietra del principe Duaenra, figlio di Chefren. Ma per come le più avanzate tecnologie rendessero tangibile l’immortalità degli egizi.
Ammirò la tela di Gebelein, dove si distinguevano due imbarcazioni: quella più in basso presentava vogatori e remi dipinti di un rosso intenso. Era la più primitiva pittura su lino mai rinvenuta. Si sentì privilegiata di potere assaporare l’energia di un tempo tanto remoto.
Il percorso piegava verso un lungo corridoio il cui filo conduttore era rappresentato da una serie di pitture parietali a tempera collocate in modo scenico su uno sfondo fotografico. La colpì vedere che per la loro cappella funeraria, Iti e sua moglie Neferu avessero scelto momenti di vita quotidiana, come se volessero continuare il viaggio verso l’aldilà accompagnati dalle piccole felicità di tutti i giorni.
Quando il cellulare squillò, stava osservando l’immagine di un levriero.
«Ispettore Norris, buongiorno. Ti ho inondato di messaggi.»
«Sì, ma preferisco verificare a voce che tu stia bene. Sei già al museo?»
«Sto fluttuando tra millenni di storia.»
«Non mi sembra una novità.»
«Senti, se tu volessi nascondere qui dentro qualcosa, dove lo metteresti?»
«Nel posto più impensabile: davanti agli occhi di tutti. Voglio dire, dietro o sotto uno dei reperti più famosi, dove la gente si ferma per guardare, fotografare, commentare.»
«E se quel qualcosa fosse un enorme pezzo di stele di oltre mezza tonnellata?»
«Sei in un museo egizio, le stele non mancano.»
«Cioè?»
«Nasconderei il pezzo di pietra fra altre pietre.»
«Interessante…»
«Prendo il primo aereo?»
«No, però tieni il telefono acceso.»
Era arrivata alla scritta sul pannello blu che indicava l’ingresso nella sezione dedicata al Medio Regno. Fu attratta dalle numerose riproduzioni in miniatura che raccontavano le attività lungo le sponde del Nilo. Alle pareti troneggiavano lastre di pietra. Riflettendo sulle considerazioni di Norris, le esaminò: alcune erano tavole d’offerta, altre blocchi di edifici, altre ancora stele funerarie. Ma nessuna aveva la forma della parte superiore della stele di Rosetta.
Tremilla abbaiò verso la porta a vetri.
«Cosa c’è?»
La raggiunse di corsa e vide che l’uscita dava su un’ampia scalinata di marmo, con colonne e balaustre. La luce che entrava dai finestroni illuminava i soffitti a volta e gli stucchi sui muri. Si affacciò. Al piano terra gli uomini di Lagrange si stavano muovendo in mezzo ai poliziotti. Senza farsi notare, scese due rampe per visitare indisturbata anche il piano di sotto.
L’ambiente era simile ai precedenti: ariose scatole di cristallo permettevano di girare attorno agli oggetti custoditi, creando l’illusione di poterli toccare. Nella galleria alla sua sinistra erano schierati sarcofagi lignei. Davanti a tutti spiccava il coperchio del sarcofago esterno dello scriba reale Butehamon. Il rituale per rianimare la mummia era inciso in ieratico all’interno del falso coperchio.
Katherine proseguì il percorso tra letti, sgabelli, vasellame, monili e cibi fossilizzati. Rallentò per leggere la didascalia della statua di calcare bianco dei coniugi Pendua e Nefertari, prima di accedere alla sala accanto. Sentì chiamare il proprio nome mentre stava contemplando il papiro più lungo che avesse mai visto: il libro dei morti rinvenuto nella tomba di Kha.
«Katherine?»
Guelfi apparve insieme a Lagrange.
«Sono qui.»
«Quel De Luca è un mastino, ma alla fine ce l’abbiamo fatta a superare l’esame.»
Katherine percepì risentimento nel tono di Lagrange.
«Trovato qualcosa?» le chiese Guelfi.
«No, può essere ovunque. Lo spazio non manca e i nascondigli neppure. Vedi le teche? Ogni reperto poggia su un basamento più o meno spesso. Potrebbe essere in uno di quelli…»
«E ce ne sono a decine.»
«Ma potrebbe anche essere dentro un muro, occultata dietro altre stele.»
«Messaggi di Theodore?»
«Non so dove sbattere la testa.»
«Abbi pazienza» la rincuorò Lagrange. «Siamo appena arrivati.»
«Lo so, è che…» Katherine sbuffò. «Sono senza idee.»
«Non correre.» Lui le strizzo l’occhio. «Fai un bel respiro e lasciati aiutare. Del resto, noi siamo qui per questo. Dico bene, Carlo?»
Il direttore annuì, soffiando verso l’alto per allontanare un ciuffo dalle ciglia.
«Propongo una ripartizione dei compiti: mentre la mia squadra segue le tue intuizioni e prova a usare le attrezzature in giro, noi ti accompagniamo tra i reperti per illustrarteli. E magari ti viene in mente qualcosa.»
«Okay.»
«Oppure svaligiamo il bar per fare colazione. Carlo, hai le chiavi della dispensa?»
«So anche preparare un ottimo caffè.»
Katherine rise. «Ci sto…»
«Però?» la stuzzicò Guelfi.
«Però dopo: mi manca il piano terra. Se non vi spiace, darei un’occhiata veloce anche lì. Poi mi metto nelle vostre mani.»
«Mi pare un buon compromesso» ammise Lagrange. «Faccio strada.»
Katherine sperava di poter visitare gli ultimi locali da sola, ma non osò contraddirlo.
«Sei mai stata in uno statuario?»
«No.»
«Sappi che ciò che vedrai non ha paragoni.»
Katherine scese le scale con lui.
«Chiudi gli occhi.»
Lei esitò.
«Forza, di cosa hai paura?»
Non si fece pregare. Appena abbassò le palpebre, sentì il braccio di Lagrange sotto il suo.
«Due passi avanti… adesso giriamo a sinistra… brava… conto fino a tre e ci siamo: uno, due… tre.»
Katherine aprì gli occhi. Anche la bocca le si schiuse.
Nel buio trafitto da luci soffuse prendevano vita colossi di pietra. Gli specchi amplificavano le ombre e il silenzio dava loro la voce.
«Toglie il fiato, vero?»
«Tanta roba» sussurrò Guelfi.
«Una meravigliosa assemblea di re e divinità» disse Lagrange. «Così la definì Champollion. Fra i re abbiamo Thutmosi III, Amenofi II, Tutankhamon, Ramses II, Sethi II… e fra gli dei Ptah, Amon, Hathor e Sekhmet, della quale ci sono ventun statue in tutto il museo.»
Katherine colse il peso della devozione che quei faraoni e quelle divinità avevano ispirato a chi li aveva resi immortali. Meditò su quante ginocchia si fossero piegate per adorarli. E si sentì invadere dallo stesso senso di rispetto. Era in un tempio, dove autorità e arte imponevano al pensiero di inchinarsi.
«È il nuovo allestimento della galleria dei re: “Riflessi di pietra”» raccontò il direttore. «Realizzato dallo scenografo premio Oscar Dante Ferretti in occasione dei giochi olimpici di Torino del 2006.»
Katherine avanzò lentamente, accolta da due sfingi in arenaria.
«Sono le guardiane del tempio: proteggono lo spazio sacro.» Con il dito Lagrange tracciò un arco in aria. «E rappresentano i due orizzonti, dove sorge e dove tramonta il sole.»
«Volto di uomo su corpo di leone» aggiunse Carlo Einaudi. «Intelligenza e forza.»
Katherine superò l’ariete che stringeva tra le zampe anteriori un faraone per lasciarsi rapire dalla statua di Ramses II, scolpita in un unico blocco di basanite nera.
«È l’emblema del museo. Seduto sul trono con il khepresh sulla testa e l’heka nella mano destra premuto contro il torace, come espressione di potere. Calpesta i nove archi che indicano le razze del mondo e i popoli stranieri sottomessi. Quelli ai lati del trono sono gli steli intrecciati del papiro e del loto, simbolo dell’unione di Basso e Alto Egitto.»
Katherine notò due altre figure accanto alle gambe. «E queste?»
«Sono sua moglie, la regina Nefertari, e il figlio, Amonherkhepeshef» spiegò Lagrange. «In dimensioni più ridotte, perché nelle regole scultoree egizie la grandezza dei personaggi è proporzionale alla loro importanza.»
Katherine era stregata.
«Le sculture dei faraoni appartengono tutte al Nuovo Regno» continuò il direttore. «In piedi i faraoni rappresentano il tramite fra spazio terreno e spazio divino. Seduti esprimono la regalità soprannaturale, oggetto di culto.»
«Quattro metri? Cinque?» Katherine inclinò la testa per poter guardare negli occhi la statua più alta del museo.
«Sethi II, un gigante di oltre sei tonnellate, per sancire la supremazia e la stabilità del sovrano che impugna lo stendardo con l’insegna del dio Amon. La gamba sinistra leggermente in avanti comunica la determinazione ad agire.»
Katherine svoltò a sinistra.
«Aspetta» la chiamò Einaudi. «Per rimanere in tema di statue, consiglio la sala di destra, con le riproduzioni della dea Sekhmet, corpo di donna e testa da leonessa coronata dal disco solare: la divinità più temuta perché, con un solo soffio, poteva generare il deserto. Dea della guerra che combatte al fianco dei faraoni ma anche braccio armato di Ra per portare l’ordine e fare rispettare all’uomo le leggi divine. Ne abbiamo dieci in posizione seduta e undici in piedi, differiscono per dettagli, come due urei sulla fronte anziché uno.»
Katherine non lo ascoltò e proseguì sul lato opposto, dove si apriva una sala minore. Protagonista di quell’area era un piccolo tempio di pietra. Si avvicinò attratta come da una calamita, con lo sguardo fisso sulla didascalia: “Tempio di Ellesiya”.
Il nome non le diceva nulla, ma le lettere i e y affiancate le fecero accelerare il battito. Le aveva già viste nella parola che non era riuscita a decifrare. Ayiselle. Il messaggio che Theodore le aveva lasciato nel suo romanzo. E ora lo vedeva, leggendo Ellesiya al contrario.
Pensò all’intuizione di Norris. Nascondere il pezzo di pietra in mezzo ad altre pietre.
Aveva trovato la stele.