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«È questa la parrocchia?»
«Yes, San Giuseppe… di solito a quest’ora don Zeno è qui.»
Katherine aprì la portiera. «Se non sbaglio, in zona ci dovrebbe essere anche la biblioteca a cui Napoleone aveva donato i suoi libri prima di lasciare l’isola.»
«La Foresiana: è da quella parte, verso Villa dei Mulini.»
«Bene, se qualcuno ti chiedesse se mi hai dato uno strappo, digli che mi hai portata là.»
«Don’t worry.»
Katherine gli porse una banconota da cinquanta euro. «Grazie.»
«Thank you a lei. Mi chiamo Benedetto, Betto per gli amici.» Dopo avere preso una penna dal cruscotto, frugò in tasca e tirò fuori una manciata di scontrini appallottolati. Ne stese uno e ci scrisse dietro. «For you, il mio numero di cellulare: se ha bisogno di un altro passaggio o di qualsiasi cosa, mi chiami.»
Katherine si fermò a guardarlo mentre sgommava via nella sua vecchia Ford Fiesta wrappata con una pellicola mimetica fluo.
L’aveva lasciata di fronte a una chiesa talmente squadrata da sembrare una scatola. Gradini di pietra conducevano all’ingresso posizionato alla base di una facciata rivestita in marmo chiaro. Sopra il portone, l’immagine di un giovane Gesù, in compagnia di Maria e Giuseppe, invitava a entrare. Il mare alle spalle della famiglia divina, i grappoli d’uva sul tralcio, gli ulivi e il grano infondevano un senso di accoglienza. Poco più in alto troneggiava un mosaico circolare, e verso il cielo si tendeva una croce bianca.
Davanti al cancello c’era un gran viavai.
«Scusate, sto cercando don Zeno.»
«È dentro.» Una donna indicò il cortile.
«Vada pure, ce n’è ancora» disse l’anziano che si appoggiava al bastone.
Katherine capì a cosa si riferisse quando notò che l’uomo dietro di lui reggeva un contenitore colmo di cibo.
Agganciò Tremilla al guinzaglio e si incamminò oltre la recinzione. Superata la grossa pianta che dominava la corte, vide gente di ogni provenienza ed età entrare e uscire da una porta spalancata.
Le sedie di plastica gialla erano tutte occupate e vassoi dello stesso colore riempivano i tavoli. Il piatto che sembrava andare per la maggiore era una zuppa, ma i volontari stavano servendo anche porzioni abbondanti di polpette al sugo.
Le stampe dei santi appese alle pareti le ricordarono che era già stata lì.
«Zio, mi hai promesso una sorpresa!»
«Ti sembro uno che si dimentica le cose?»
«No.»
«Vedi quelle luci?»
«Di fianco alla chiesa?»
«È lì che siamo diretti.»
«Che affollamento!»
«Vieni…»
«Ma non si arrabbiano se non rispettiamo la coda?»
Theodore le aveva strizzato l’occhio e si era affrettato a condurla all’interno del locale, dove la faccia scura di uno dei santi l’aveva messa a disagio. Al contrario, gli amici di suo zio erano allegri e l’avevano accolta come se la conoscessero da sempre.
«Infilati questo.» Theodore le aveva passato un grembiule giallo con ricamata una frase di Virginia Woolf: “Per pensare bene, amare bene, dormire bene… devi mangiare bene”.
«Ma chi ha cucinato tutta questa pasta?»
«Cuochi dal cuore immenso.»
«Vuoi assaggiarla?» le aveva proposto la donna al bancone.
«Sì.»
«Veloce, però» si era raccomandato Theodore. «Perché quando quella porta si aprirà, entreranno tutte le persone che hai visto fuori. Non hanno un altro posto dove andare e sono più affamate di te.»
Lei era rimasta di stucco.
«Dovrai sfoderare il tuo sorriso migliore per farle sentire a casa.»
«Okay.»
«E una volta che saranno sedute, porterai loro gli spaghetti, il petto di pollo con le verdure e alla fine una bella fetta di torta.»
Katherine non si era risparmiata né nel servire né in gentilezza. Prima di augurarle la buonanotte, Theodore aveva voluto sapere se le era piaciuta la sorpresa.
«Mi sono divertita.»
«Cosa ti ricorderai di questa serata?»
«I grazie… mamma mia, quanti! Non sono mai stata abbracciata così tante volte: erano tutti felici. E mi piace pensare che sia stato anche un po’ merito mio e non solo di quella pasta buonissima!»
Katherine si rese conto che niente era cambiato. Anche il santo continuava a scrutarla dall’alto in basso.
Guardandosi intorno, incrociò gli occhi di Zeno. Aveva un piatto in una mano e il mestolo nell’altra, fermo a mezz’aria sopra uno dei pentoloni. La fissava, e lei resse lo sguardo. Per un attimo ebbe la sensazione che fosse contento di vederla.
Zeno riempì un altro paio di scodelle, poi chiamò uno degli assistenti per farsi dare il cambio.
«Occhioni, hai fame?» le chiese senza salutarla.
«Dove sono?»
«Dimenticavo che sei abituata a rispondere alle domande con altre domande.»
«Theodore e Margherita, dove sono?»
Zeno inclinò la testa. «Uno nelle mani di nostro Signore. L’altra era con te l’ultima volta che l’ho vista.»
«Farò quello che volete, ma ridatemi il corpo di mio zio e liberate Margherita.»
«Hai sbagliato palcoscenico.»
Katherine strinse le dita a pugno. Incurante delle ustioni, lo colpì sulla mascella con tutta la forza che aveva.
Zeno perse l’equilibrio, mentre nella sala frusciò lo sconcerto. Due dei volontari più giovani accorsero.
«Non preoccupatevi.» Lui tese il braccio per bloccarli. «Le sono mancato, è il suo modo di dimostrarlo.» Dopo avere sputato sangue nel fazzoletto, aprì e chiuse la bocca per verificare che non ci fosse nulla di rotto. «Strano, avrei giurato che fossi più brava con le parole che con il destro.»
«Non mi porgi l’altra guancia?»
«In privata sede.»
Katherine lo seguì in cortile.
«Spostiamoci, prima che spunti il nostro amico Tommaso Guelfi e ti riporti all’ordine. Non sa che sei qui, vero?»
Lei non rispose.
«Si infurierà quando scoprirà che sei fuggita per la seconda volta. E sempre per venire da me.»
«Taci!»
Zeno si avviò sotto il porticato che collegava l’edificio della mensa a una piccola casa a due piani. Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni. Appena dentro, accese la luce della stanza di fronte alla cucina.
Katherine intuì che fosse il suo studio. Librerie cariche di volumi tappezzavano le pareti. Sull’unico angolo di muro vuoto vegliava un crocifisso. Il tavolo di legno era sommerso di cartelline e pile di documenti. Anche la tastiera del computer era coperta da fogli di carta, mentre sullo schermo si alternavano fotografie di paesaggi boschivi. C’erano solo due sedie, una diversa dall’altra. E sul divano dormiva Maat.
«Piccola!» Katherine si chinò, mentre la cagnolina le correva incontro. «Ti trovo sempre nei posti più impensati!»
«Nulla accade per caso.»
«No, infatti. È proprio per questo che sono qui.»
Zeno rimase in attesa.
«Voglio spiegazioni! Voglio sapere della stele. Di Theodore. Del perché ci siano persone interessate ai suoi segreti tanto da rubare, rapire, uccidere. Voglio sapere chi sono e cosa cercano.»
«Non mi hai ascoltato: sei nel posto sbagliato.»
«Non credo.» Katherine lo inchiodò con lo sguardo. «Tu sei al corrente di tutto, e mi dirai ciò che serve. Perché se non lo farai, lascerò il caso in mano alla polizia e me ne tornerò a casa. Ho capito che Napoleone ha trovato il pezzo superiore della stele di Rosetta, ma non so ancora dove sia stato nascosto, né cosa contenga. E posso scegliere di non volerlo sapere. Di fermarmi qui. Perché dovrei continuare a investigare? Perché dovrei aiutarvi? Avete spinto mio zio a suicidarsi. Avete trafugato il suo corpo, impedendomi di dargli una sepoltura. Avete ammazzato gente innocente. Mi avete gettata in una situazione di pericolo. Cosa vi fa credere che io sia tanto stupida da illudermi che, fornendovi le informazioni, libererete Margherita? No, non mi illudo: i precedenti parlano per voi. Qualsiasi cosa io decida di fare, non la salverò. Quindi se volete che io scopra dove si trova la stele, vuotate il sacco… e sia ben chiaro che pretendo spiegazioni accurate alla virgola. Oppure potete andare a farvi fottere tutti.»
Zeno batté le mani. «Complimenti per l’interpretazione.»
«Se conoscevi Theodore così come millanti, sai che ripeteva sempre che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Te lo chiederò ancora una volta: o mi dici chi cazzo siete e qual è il vostro obiettivo, o butto la spugna.»
Zeno sfilò un volume dalla libreria. Le pagine proteggevano una foto. «Non so perché l’ho conservata.»
Katherine la osservò con attenzione: i colori sbiaditi di una polaroid immortalavano un gruppo di ragazzini su una strada sterrata. La bambina in primo piano, con i codini e un gatto nero in braccio, era lei.
«Come l’hai avuta?»
«L’ha scattata mio padre. Non voleva riprendere te: quello con il pallone in mano sono io.»
Katherine mise a fuoco il bambino sulla destra, l’unico che guardava verso la camera. «Non mi ricordo di te.»
«Mi sembra evidente, Occhioni.»
Katherine cercò quel momento nella memoria: era la strada dove abitava il pastore da cui Theodore acquistava il formaggio, e quella gatta aveva partorito quattro cuccioli bianchi e neri.
«Ti racconto una storia. Mio padre e tuo zio erano amici. Ma noi non avevamo niente in comune: tu eri una principessa di città, io uno zingaro che preferiva dormire sotto le stelle. A differenza tua, mi ricordo tutto di te. Ti spiavo da lontano e mi interrogavo su chi saresti diventata da grande: con la marea di domande che avevi sempre pronte, ti vedevo fare la scienziata e viaggiare nello spazio a intervistare gli ufo.»
«Mi spiace.»
«Non ti si addice chiedere scusa. E poi perché? Avevi tante cose da imparare da Theodore e troppi animali da salvare: non potevi sprecare tempo con noiosi ragazzotti di quartiere.»
Lei era spiazzata.
«Sei davvero nel posto sbagliato se pensi che in questa casa qualcuno possa volerti male. Mi hai esposto il tuo piano, adesso ti racconto cosa farò io: andrò alla mensa, finirò di offrire il cibo ai poveri, laverò le pentole e darò una mano a mettere in ordine. Poi tornerò. Se ci sarai ancora, vorrà dire che hai capito che qui puoi trovare rifugio, ascolto, comprensione. Se non ci sarai più, pregherò per te.» Zeno si incamminò verso l’uscita.
Katherine non si arrese. «Chi è salito dopo di noi alla Madonna del Monte?»
Lui la sbirciò con la coda dell’occhio.
«Quando Maat ha iniziato ad abbaiare e tu sei venuto a trascinarmi fuori dalla chiesa, ti ho chiesto se avevi idea di chi potesse essere… hai risposto sì.»
«Ho dei ricordi confusi.»
«Balle!»
Scuotendo la testa, Zeno aprì la porta.
«Okay, voglio crederti. Però devi collaborare: non mi hai detto di avere visto qualcuno, ma sembravi sicuro di chi fosse. Magari hai dimenticato quel frangente, però se sei arrivato a una conclusione, significa che avevi fatto un ragionamento.»
«Le uniche persone che possono averti seguita sono i poliziotti.»
Katherine corrugò la fronte.
«Forse non sei stata scaltra a uscire dall’hotel senza farti notare, ma ti hanno permesso di passare per pedinarti. Se ci pensi, chi avrebbe potuto immaginare che eravamo diretti lassù? Tu non sapevi dove ti avrei portata, io non ne ho fatto parola con nessuno.»
«Perché non hai condiviso questo sospetto con Tommaso?»
«Sono sensazioni. Gli sbirri vogliono prove.»
«C’erano due poliziotti di guardia a casa di Margherita quando ero in bagno. Uno si è beccato una pallottola in testa, l’altro è scomparso insieme a lei.»
«Guelfi cosa dice?»
Katherine si strinse nelle spalle. «Non gli ho permesso di dire nulla.»
«Che strano.»
«Come credi mi sia sentita? Ti è chiaro che nell’istante in cui rapivano Margherita, trafugavano il cadavere di Theodore?»
«Guelfi è un bravo poliziotto.»
«Lui è un bravo poliziotto, tu sei un bravo prete… e vissero tutti bravi e contenti.» Katherine sbuffò.
«Mentre compili le pagelle, vado a recuperarti qualcosa da mangiare.»
Katherine afferrò la pallina di gomma appoggiata sul tavolo e gliela tirò dietro. La pallina sbatté contro la porta che si chiudeva, per poi rimbalzare sul pavimento. Maat gliela riportò.
«Te l’ha insegnato Theodore?»
La cagnolina sollevò le orecchie e guardò verso l’ingresso.
«Lo aspetti ancora.» Katherine si commosse. «E lo aspetterai sempre, perché è così innaturale che chi amiamo se ne debba andare…» Si sedette per terra, lasciando che Tremilla e Maat le saltassero sulle gambe per leccarle il viso. Si sentiva un pezzo di legno in balia delle onde. La stanchezza fisica non era niente se paragonata alla confusione che le gravava i pensieri. Aveva perso ogni riferimento. Vedeva ombre anche nelle più piccole certezze.
Si stava avvicinando al baratro: un passo e avrebbe raggiunto il punto di non ritorno. Se si fosse fermata, il segreto di Theodore sarebbe rimasto al sicuro per sempre. Se avesse proseguito sulla rotta degli enigmi, avrebbe scoperto il luogo dov’era nascosta la stele. E avrebbe barattato l’informazione con la libertà di Margherita. Ma se svelare quel segreto fosse costato altre vite?
Zio, cosa devo fare?
Lanciò la pallina con ancora più forza. Osservando Maat che correva ad acchiapparla, capì che ognuno di loro era un ingranaggio di un meccanismo perfetto. Di un piano che Theodore aveva ideato e studiato con cura, architettando i minimi dettagli e valutando ogni possibile risvolto.
Quando raccolse la pallina dalla bocca di Maat, provò sollievo: non importava se si fidasse di Guelfi o di Zeno. Si fidava di suo zio, e lui aveva previsto tutto. Doveva solo lasciarsi prendere per mano e seguirlo.
Infilò le dita nel sacchetto e tirò fuori i due libri.
Okay, zio. Giochiamo la tua partita.