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«Voglio sentir cantare quel Surace!»
«Gliel’ho detto, non è facile.»
«Non me ne frega un cazzo se non è facile, devi fargli vomitare l’anima prima che ci riesca qualcun altro.»
«Prefetto, non per insistere ma…»
«Niente, sei sordo.»
«Farò del mio meglio.»
«Quando?»
«Riproverò, glielo assicuro.»
«Quando?»
«Stasera stessa.»
«Alleluia. Non deludermi.»
Gianfranco Manfredi chiuse la telefonata, mentre con l’altra mano immergeva il cucchiaio nella trippa. Sebbene l’avesse quasi finita, la fame gli mordeva ancora lo stomaco. Più era nervoso, e più il bisogno di cibo gli riempiva la bocca di saliva.
«Walter?»
«Arrivo, dottore.»
«Voglio il bis.»
«Glielo stavo portando.» Il proprietario del locale entrò nella saletta alle spalle del bancone e sostituì il piatto vuoto con uno pieno. «Spero che non la disturbano i quattro di là, li ho messi attaccati all’ingresso, così qui sta in pace.»
«Digli di abbassare la voce.»
«Subito, dottore. Le chiudo anche la porta, tanto lo sa che questa stanza è per lei… c’ha sempre tante telefonate da fare che nessuno deve ficcare il naso.»
«Sei il migliore, Walter. Come la tua trippa.»
«Solo il rumine di manzo, dottore. Tutto fatto in casa: macellato, tirato fuori e lavato ben bene… sgrassiamo con l’aceto noi, mica con l’acqua ossigenata e la soda caustica come fanno alla concorrenza, che poi la trippa è bella sbiancata ma ti avvelena.» Gli rabboccò il bicchiere. «Apriamo un’altra bottiglia?»
Senza smettere di masticare, scosse la testa.
«Allora la lascio alle sue cose, mi chiama se ne vuole ancora o per il dolce, oggi c’abbiamo un tiramisù che si mangia con gli occhi.»
Lui continuò a muovere il braccio tra il piatto e le labbra, proteggendo la cravatta con il tovagliolo.
L’ultima cucchiaiata gli provocò una punta di sconforto. Raccolse il condimento con un pezzo di pane, che gustò sulla lingua per qualche secondo prima di deglutire. Si alzò dalla sedia di scatto, sapendo che se avesse indugiato, avrebbe ceduto all’ingordigia di farsi servire un’altra porzione.
«Tutto a posto, dottore?»
«Come sempre.» Tese la carta di credito a Walter e appoggiò dieci euro di mancia sulla mano di ceramica accanto alla cassa.
Il cellulare squillava nella tasca della giacca, ma aspettò di lasciare il locale per rispondere.
«Sono il commissario capo Iannone, mi scusi se…»
«Spero sia importante.»
«Lo è: un giornalista ha scoperto che la testa di Nitti è stata sfregiata con l’azoto liquido e…»
«Pensavo di essere stato chiaro quando ho ordinato di tenere la massima riservatezza sul caso.»
«Sì, ma…»
«Niente, lei non sa fare il suo lavoro.»
«L’ho già detto anche al questore, l’informazione non è trapelata dal nostro uff…»
«Devo risolverle io il problema? Blocchi quel cazzo di notizia! Se esce prima che io abbia dato il consenso, la riterrò responsabile di reato contro la sicurezza pubblica e le farò saltare il culo.»
Interruppe la comunicazione con rabbia, mentre il contenuto gastrico risaliva l’esofago e gli inondava la bocca di sapore acido. Si fermò sul marciapiede per aprire la scatola gialla che si era trasformata in droga. Gli erano rimaste solo tre compresse per il reflusso e le inghiottì tutte insieme.
Raggiunse il parcheggio in affanno. Pagando il ticket alla cassa automatica, si rese conto che il sudore gli aveva inzuppato la camicia sotto le ascelle e sul ventre. Si asciugò la fronte con il fazzoletto, prima di passarlo intorno al collo. Lo stress gli aumentava i battiti: una volta in ascensore si concentrò per controllare il respiro.
Aveva accettato di entrare nella coalizione per due motivi. Nell’albero genealogico della sua linea paterna non c’era uomo che non ne fosse stato membro. E quell’appartenenza aveva sempre garantito alla sua famiglia una buona dose di privilegi. La maggior parte dei coalizzati occupava posizioni di spicco nella società, e tra loro vigeva un patto di supporto reciproco: conoscere un coalizzato significava poter essere introdotto nel suo ambiente, venire a contatto con altre persone influenti, conquistare obiettivi ambiziosi senza dovere dimostrare capacità particolari. Se all’inizio l’entusiasmo aveva orientato i suoi passi, con il trascorrere degli anni il secondo motivo aveva vinto sul primo. Ma gli accadimenti degli ultimi giorni stavano facendo tremare la terra su cui camminava.
Appena i battenti di metallo si spalancarono, si trascinò fuori. Lasciava l’auto sempre all’ultimo piano interrato perché era sicuro di trovare posto: non gli piaceva spendere energie guidando tra un livello e l’altro. Tenendosi sulla corsia blu che indicava la via pedonale, frugò nelle tasche alla ricerca delle chiavi.
«Che coglione quello…» bofonchiò, vedendo che, nonostante i numerosi spazi liberi, un furgone aveva parcheggiato proprio di fianco alla sua Maserati. Solo l’idea di dovere salire dalla parte del passeggero lo faceva imbestialire.
Si avvicinò continuando a borbottare. Mentre valutava la distanza per capire se sarebbe riuscito a infilarsi senza sporcarsi contro la carrozzeria, si accorse che la portiera dell’auto era socchiusa. E sollevando lo sguardo, notò una sagoma al posto di guida.
«Cazzo fai lì!» urlò.
La persona non si mosse.
«Scendi subito!» Afferrò il cellulare, ma il segnale là sotto non prendeva. Spostandosi sull’altra fiancata, scorse una testa di profilo e una giacca a righe. Il primo pensiero fu che nessuno indossa un gessato per rubare un’auto.
«Ehi?» Aprì la portiera del passeggero.
L’uomo al volante dimostrava una trentina d’anni. La cravatta di un rosso acceso spiccava su una camicia chiara, e gemelli d’oro allacciavano i polsini. Guardava verso di lui.
Le sopracciglia erano imbiancate come i capelli, la pelle del volto sembrava trasudare. Una goccia gli rigava la fronte: la vide correre sul naso per cadere nel vuoto.
Ci mise un attimo a capire che quell’uomo era un cadavere.
E che qualcuno lo aveva congelato.