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MUSEO EGIZIO TORINO

Katherine lanciò un ultimo sguardo al testo decifrato, prima di strappare il foglio dove l’aveva scritto. Fece un mucchietto di coriandoli di tutti i numeri e le lettere che si era annotata.

Non era mai stata al Museo Egizio di Torino. Ma non aveva bisogno di averlo visitato per immaginare quanto fosse vasto. Arginò la tentazione di usare il computer di Zeno per navigare nel sito: non voleva rischiare di lasciare traccia nel motore di ricerca.

Sapere che la stele era nascosta là stringeva il cerchio, ma non la portava alla luce. Con i due libri aveva finito gli indizi a disposizione. E uno non era ancora riuscita a interpretarlo. Ma era sicura che Theodore avesse architettato altre mosse per avvicinarla alla verità.

Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Cazzo! I sequestratori erano in anticipo rispetto al previsto. Zeno e Guelfi non erano ancora tornati. E lei non poteva ignorare la chiamata. Rispose.

«Ce l’hai?» le domandò la voce metallica.

«So dove si trova.»

«Dove?»

«Libera Margherita.»

«Non funziona così. Tu vuoti il sacco, io recupero la stele. Quando ce l’avrò davanti agli occhi, rivedrai Margherita.»

«Non funziona neanche così» ribatté lei.

«Allora ti rinfresco la memoria.»

Katherine sapeva cosa aspettarsi. Udì una serie di rumori secchi, che associò a schiaffi. I suoni che provenivano dalla bocca di Margherita erano lamenti interrotti da singhiozzi.

«Ti passo un’amica.»

Trattenne il respiro.

«Tirami fuori da qui…» Margherita piangeva. «Ho… paura…»

«Lo farò. Margherita, lo farò!»

«Dicevamo?» La voce metallica suonava sarcastica.

«Dicevamo che io so dov’è la stele, figlio di puttana.» Aveva suggerito lei la strategia. E sebbene fosse doloroso, ora doveva rispettare il copione concordato con Guelfi. «Per te quel cazzo di pietra è più importante di quanto lo sia Margherita per me. Quindi adesso ti dico io come faremo.»

La comunicazione venne troncata.

Katherine rimase immobile. Il cellulare a mezz’aria, il fiato sospeso. Richiameranno… si disse, sforzandosi di crederci.

I secondi passavano con la lentezza dei minuti di un’attesa.

Il telefono squillò di nuovo. Era una videochiamata.

Rifletté velocemente: poteva trasformare quella complicazione in opportunità. Afferrò il cellulare e corse giù dalle scale per infilarsi nel passaggio dietro le botti.

La prima cosa che vide quando rispose fu un cespuglio di capelli castani. Erano arruffati, sciolti su un volto piegato in avanti. Chiunque avesse lo smartphone in mano fece un passo indietro e il campo visivo si allargò. Margherita era legata a una sedia. Aveva una manica strappata e la camicetta macchiata sul petto.

«Margherita!» gridò Katherine, mentre la fotocamera inquadrava un guanto che le alzava la testa, tirandola per i capelli.

Il viso era tumefatto. Sulle labbra colava il sangue.

«Bastardi!»

Il display mostrò due occhi che bucavano un passamontagna. «Dicevamo?»

Katherine si sentiva travolta da un uragano di emozioni. La rabbia vinceva sulle altre. Ma aveva chiaro l’obiettivo, e arrendersi in quel momento significava compromettere il piano.

«Toccala un’altra volta e puoi dire addio alla stele!»

«Allora non hai capito.»

«Sei tu a non avere capito, stronzo!» Katherine tese il braccio per riprendere un pezzo di muro e di cunicolo alle proprie spalle. «Sai dove mi trovo?»

«Sto perdendo la pazienza.»

«Sono vicino alla stele. Sento il suo profumo!»

Sul display comparve Margherita. Aveva gli occhi sbarrati.

«Smettila di usare lei! Vuoi la stele? Vieni a prendertela!» Katherine diede voce al misto di collera e sgomento che la scuoteva. «Portami qui Margherita e ti dirò quello che vuoi sapere.» Avvicinò il cellulare alla faccia. «Muovi il culo!»

Chiuse la chiamata e si appoggiò al muro per non crollare. Avvertiva la saliva sugli angoli della bocca: aveva urlato tanto da sputare anche il respiro. Mio Dio, cos’ho fatto? Si lasciò scivolare a terra. Il display si era spento, e la luce che filtrava dalla cantina la raggiungeva appena. Tremava in quel buio, reso ancora più tetro dal timore di avere firmato la condanna a morte di Margherita. Pensando alla sua faccia livida, sentì le forze abbandonarla. L’ho uccisa.

Quando il telefono vibrò, aveva la testa affondata tra le ginocchia. Lo strappò dal pavimento come se avesse ricevuto un’iniezione di energia: era un messaggio. Una sola parola, una sola domanda.

DOVE?

Si precipitò al piano superiore. Inserì la SIM nel proprio iPhone e chiamò Guelfi.

«Katherine?»

«Hanno abboccato!»

«Noi siamo pronti.»

«Zeno non si è visto.»

«Eravamo insieme, dovrebbe arrivare a minuti.»

«Lo aspetto e ci vediamo lì.»

«Katherine…»

«Cosa?»

«Preferirei rimanessi dove sei. L’ho già detto anche a Zeno, ci pensiamo noi.»

«Nemmeno per scherzo!»

«Ti giuro che non ci sfuggiranno.»

«E se mi richiamassero? Se mangiassero la foglia vedendo che non ci sono?»

«Katherine, tu hai dato un contributo importante, adesso lasciami fare il mio lavoro.»

«No!»

«Ascoltami…»

«Ascoltami tu! Seguiremo quanto deciso.»

«È pericoloso!»

«Non me ne frega un cazzo! È stata una mia idea e non la butterò nel cesso solo perché all’ultimo momento te la fai sotto. Apprezzo che tu mi voglia proteggere, ma la risposta è no, grazie.»

«Per la miseria, vuoi ragionare?»

«Non intendo discutere oltre, stiamo sprecando tempo.»

Dall’altro capo della linea tornò solo silenzio.

«Mi hai sentita?»

«Hai già comunicato il posto?»

«Non ancora, mando un messaggio appena chiudiamo. Allora, siamo d’accordo?»

Guelfi esitò.

«Non farmi pentire di essermi fidata di te.»

«Siamo d’accordo.»

«Bene.»

«Cercheranno il luogo sulla mappa, studieranno mosse e contromosse e prepareranno un loro piano…» Guelfi la rendeva partecipe delle proprie deduzioni. «Non saranno qui prima di sessanta, forse ottanta minuti.»

«Sempre che vengano.»

«Manderanno qualcuno a verificare la situazione, oppure controlleranno la zona per capire se ci sono movimenti sospetti.»

«Quanto dovremo aspettare, secondo te?»

«Non preoccuparti, li beccheremo.»

Katherine sospirò.

«Spegni il tuo telefono… e fate in fretta.»

«Okay.»

Dopo avere estratto di nuovo la SIM, Katherine afferrò l’altro cellulare. Digitò il messaggio di risposta.

CIMITERO DI MARINA DI CAMPO

Raccolse i pezzi del foglio che aveva stracciato e si spostò in soggiorno, dove aveva notato un camino. Mentre li gettava sulla cenere che non era stata pulita, si guardò intorno alla ricerca di un accendino o di un pacchetto di fiammiferi. Non trovò nulla né sulla mensola né vicino al trespolo con paletta e attizzatoio. E la cesta portalegna era vuota. Gli occhi si soffermarono sul paiolo di rame in cui erano stati infilati vecchi giornali. Se c’è carta, c’è fuoco. Ne rovesciò il contenuto sul pavimento. Insieme a due accendini, cadde a terra la scatoletta di un farmaco. Sotto il nome Roipnol, spiccava la scritta “Flunitrazepam”.

Per un attimo ebbe la sensazione che la stanza ondeggiasse. Si è drogato da solo… Il pensiero corse a Guelfi. Non si era sbagliato: Zeno ci ha sempre mentito.

Il rumore dei passi sulle scale la pietrificò.

Cercò di non farsi prendere dal panico. Bruciò i foglietti e si fiondò verso il divano: una delle prime cose che aveva fatto appena arrivata a Roma era stato acquistare una bomboletta di spray al peperoncino, che aveva nascosto nella tasca interna della borsa.

Tenendola stretta, si piazzò davanti alla porta. Nell’istante in cui Zeno la aprì, gli spruzzò il liquido negli occhi.

Lui urlò, portandosi le mani alla faccia.

Katherine gli sferrò un calcio all’inguine. Quando si piegò in avanti, gli agguantò la testa con entrambe le mani per sbatterla contro il proprio ginocchio sollevato. Lo aveva imparato da Uriel durante gli allenamenti di difesa personale: doveva essere veloce, colpire nei punti più sensibili e fuggire prima che l’avversario potesse reagire.

Mentre Zeno si accasciava, lei si chinò a raccogliere le chiavi dell’auto che gli erano scivolate dalle dita. Poi sgusciò giù dalle scale.

Attraversata la cantina, entrò di nuovo nel passaggio sotterraneo.

«Maat, non posso portarti con me. Tu non sei in pericolo.»

Infilò Tremilla nella borsa e si chiuse la porticina alle spalle. Nel piano originale aveva previsto di lasciare a casa anche lei. Ma ora erano cambiati i presupposti.

Con una mano usava la torcia trovata sulla soglia per illuminare il cunicolo, con l’altra cercava l’iPhone. Si sentì mancare appena ricordò di averlo appoggiato sul tavolo e di essersi messa in tasca solo il secondo cellulare. Lo aveva formattato e non si era memorizzata il numero di Guelfi: non era in grado di avvisarlo.

Ignorando il cuore che le esplodeva nel petto, continuò a correre fino alla scala di legno contro cui si fermava il tunnel. Una volta in cima, dovette usare tutta la forza che aveva per spingere la botola e arrampicarsi in superficie.

Il locale era angusto, ancora più caotico della cantina. Muovendosi tra pile di legna e pezzi di pallet, sbucò davanti al campo di calcio. Una rete la divideva dalla strada, ci puntò contro il fascio di luce e scoprì uno strappo. Mentre si abbassava per passarci attraverso, udì Maat abbaiare: capì che Zeno era uscito dall’ingresso principale e la stava raggiungendo.

La Panda era parcheggiata accanto a un cespuglio. Ci salì senza voltarsi. Non fece in tempo a mettere in moto, che intravide Zeno dallo specchietto retrovisore. Sgommò via, sapendo che non avrebbe impiegato molto a procurarsi un altro veicolo.

Si concentrò sulla guida: l’unico modo per informare Guelfi era arrivare al cimitero per prima, o prima che Zeno riuscisse a intercettarla. E per mantenere il vantaggio non doveva commettere errori lungo il tragitto: il senso dell’orientamento non era il suo forte, ma aveva già percorso quella strada per andare in farmacia e tornare indietro.

Nonostante il pensiero dominante fosse per Guelfi, cresceva la preoccupazione nei confronti di Margherita. Non si toglieva dalla testa l’idea che, dopo essere stata rapita come merce di scambio, l’avrebbero torturata e uccisa perché lei si era inventata una trappola per smascherare i sequestratori. E aveva riposto fiducia nella persona sbagliata. Conoscono il piano, li massacreranno tutti. Immaginò una sparatoria in cui Guelfi e i suoi uomini cadevano a terra crivellati di colpi. Il peso della responsabilità la devastava.

Premette il piede sull’acceleratore.

Doveva sforzarsi di tenere la mente libera. Vuota. Sospesa nel tempo e nello spazio che la separavano dal cimitero.