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«È vivo?»
De Luca annuì. «L’hanno portato al carcere di Porto Azzurro.»
«Si conosce la sua identità? Italiano? Straniero? Militare? Civile?»
«Non ho altre informazioni. Ha chiamato Usai, attende ordini.»
«Okay, andiamo là.» Guelfi impugnò le chiavi della BMW. «Katherine, vieni con noi. Margherita, ci sentiamo tra un paio d’ore: non muoverti di qui.»
«Neanche per mangiare? Sto svenendo.»
«Fatti mandare qualcosa dal bar di fronte.»
Margherita guardò Katherine. «Se vuoi, ti tengo Tremilla… sarà affamata e stravolta quanto me.»
Katherine tentennò.
«Giuro che vi aspetteremo sul divano e che non assumeremo grassi.»
«Va bene, ma non lasciarla sola.»
Guelfi si precipitò all’uscita. Non avrebbe mai sperato di poter mettere le mani sul cecchino. La sua cattura lo faceva sentire meno in colpa per non avere previsto la situazione e non essere stato in grado di evitarla. Se durante la sparatoria aveva temuto di perdere le redini, adesso era di nuovo in sella.
Attaccò il cellulare al caricabatteria dell’auto. Appena si riaccese, connesse il Bluetooth e telefonò a Usai attivando il vivavoce.
«Guelfi, dov’eri finito?»
«Sto arrivando. L’avete identificato?»
«Salvo Surace, trentadue anni, caporal maggiore del 235° Reggimento Fanteria “Piceno”.»
«Come è stato fermato?»
«L’abbiamo avvistato dall’elicottero, si muoveva verso sud.»
«Da solo?»
«Confermo. Siamo riusciti a tenerlo sotto tiro finché non è stato accerchiato.»
«Ha opposto resistenza?»
«Negativo. Non ha nemmeno tentato di fuggire, era in apparente stato confusionale.»
«Spiegati meglio.»
«I medici lo stanno visitando, sarò più preciso al tuo arrivo.»
«Siete sicuri che sia lui?»
«Aveva un Sako TRG 42 calibro .338, e dal caricatore mancano tre colpi. Il laboratorio farà l’esame comparativo sul proiettile recuperato alla villa, così potremo sapere con certezza se le striature lasciate sulla superficie corrispondono alle righe della canna.»
«Cosa dice lo stub?»
«Residui da deflagrazione di munizionamento ovunque, con buona quantità di particelle di piombo, antimonio e bario su guanti e maglietta.»
«Altro da segnalare?»
«No, ci vediamo qui.»
Guelfi chiuse la comunicazione. Schiacciò il piede sull’acceleratore mentre la strada serpeggiava tra zone boschive e aree coltivate. La sua mente galoppava: che intenzioni aveva quell’uomo? Era un lupo solitario o c’entrava l’esercito con la morte di Theodore? Anticipò una curva e per affrontare la successiva si spostò verso il centro della carreggiata. Con la coda dell’occhio scorse Katherine oscillare tra un finestrino e l’altro sul sedile posteriore. Non rallentò. Qualche secondo dopo la sentì allacciare la cintura di sicurezza.
«Mi gioco il culo che è stato lui» commentò De Luca. «È un militare, il fucile è quello che hanno in dotazione, due colpi li ha messi a segno e il terzo è finito contro il muro… logica e matematica non mentono: quel figlio di puttana non è riuscito a farla franca e si è finto sotto shock. Forse crede di avere a che fare con degli idioti.»
«Usai è dei vostri?» si informò Katherine.
«Sì, uno dei migliori agenti sul territorio. Apro e chiudo parentesi: è stato nei Nocs, poi si è beccato un proiettile che l’ha costretto a una lunga riabilitazione.»
«Ma pensa di essere ancora nei reparti speciali» ribatté De Luca.
Guelfi si lasciò alle spalle un motocarro carico di sacchi di cemento. All’incrocio imboccò la strada che piegava a gomito alla sua destra.
«Cosa sono queste mura?» Katherine si sporse tra i sedili.
«Qui inizia la fortezza spagnola, costruita alla fine del Cinquecento da Filippo II o Filippo III per controllare il porto. Nel 1890 è stata trasformata in un penitenziario.»
«In altre parole, siamo arrivati» tagliò corto De Luca. «Un carcere vista mare del tutto fatiscente, esempio di abbandono, di carenza di personale e di sovraffollamento di detenuti. Adesso ce ne sono duecentocinquanta, e non c’è periodo che non si parli di loro, tra risse, fughe, tentati suicidi e disordini vari. Una merda di posto.»
Guelfi attraversò la galleria che conduceva dentro le mura e parcheggiò l’auto in un piccolo piazzale.
«Proseguiamo a piedi.» Raggiunse la guardiola con andatura decisa. Il tempo di salutare l’agente all’interno, e il cancello in fondo al passo carrabile si aprì.
«Non hai rispettato i limiti, vedo.» Usai andò loro incontro. Fece un cenno a De Luca e si presentò a Katherine.
«Novità?» volle sapere Guelfi.
«Gli ho detto che ha diritto a un avvocato e ho avviato le procedure.»
Guelfi colse uno sguardo perplesso. «Però?»
«Però… sì, c’è un però… ma preferisco ti faccia un’idea tua.»
«Non mi lascerò condizionare. È ancora in stato confusionale?»
«Se sta fingendo, è un attore.»
«Ma interagisce? Parla? Come si comporta?»
«Una raffica di “non lo so” e “non mi ricordo”.»
«Dichiarazioni spontanee?»
«Nessuna. Insiste nel chiederci dove ci troviamo e se sappiamo come sia arrivato qui.»
Dopo avere oltrepassato un’area verde e costeggiato alcuni edifici a due piani, si diressero verso il corpo principale della struttura.
«Ho fatto un giro di telefonate» continuò Usai. «Si è sposato l’anno scorso, la moglie è al sesto mese di gravidanza, gioca a basket e non sembra avere altri hobby. Soprattutto, non pare essere particolarmente abile con le armi… non da centrare una testa a lunga distanza, insomma.»
«Che in caserma pensino che sia una sega a sparare non significa che sia vero. Magari li ha fatti fessi.»
«Lo descrivono come uno tranquillo, abitudinario.»
«Sono tutti dei bravi ragazzi finché non ammazzano qualcuno» osservò De Luca.
«Quando è stato visto l’ultima volta?»
«Tre giorni fa. Nessuno ne ha comunicato la scomparsa perché per i suoi superiori era con la moglie a festeggiare l’anniversario di matrimonio, e per la moglie stava seguendo un corso. Lei dice di averlo sentito, ma solo via messaggio.»
«E si è accontentata di qualche WhatsApp?» De Luca sogghignò. «La mia avrebbe chiesto il divorzio.»
Le campane della chiesetta suonarono le sei proprio nel momento in cui le guardie spalancavano il portone blindato sotto la torre di sorveglianza.
«Non ero stato informato della presenza della signora.» Il direttore del carcere li accolse all’ingresso.
«Lei è Katherine Sinclaire.» Guelfi non si perse in convenevoli. «Collabora con la questura, mi assumo io ogni responsabilità.»
«Mi spiace non poterle stringere la mano» aggiunse Katherine, alludendo alle fasciature.
«Non si preoccupi. Mi serviranno delle firme, nel frattempo dovete lasciarci in custodia le vostre armi.»
«Certo.» Guelfi consegnò la Beretta a uno degli agenti di polizia penitenziaria che accompagnavano il direttore.
«Seguitemi» disse un altro.
«Dove l’avete messo?» Guelfi era irrequieto.
«In infermeria» rispose Usai. «Dobbiamo salire.»
«È ancora con lo psicologo?»
«Lo stanno medicando.»
«Non sapevo che fosse ferito…»
«Non è una vera e propria ferita.»
«Per la miseria, Usai! Mi stai tirando scemo con le cose dette a metà.»
«Abbi pazienza per altri due minuti e potrai giudicare con i tuoi occhi.»
Guelfi sentiva lo sguardo di Katherine su di sé.
Arrivati al quarto piano, Usai si rivolse all’agente: «Facciamogli vedere quello che aveva addosso». Senza aspettare conferma, spinse la porta di una stanza di servizio.
Un paio di pantaloni mimetici, una maglietta verde, calzettoni e guanti tattici a mezze dita erano appoggiati su un tavolo, accanto a una cintura di nylon e a un orologio con il vetro rotto. Gli anfibi erano per terra.
«Tutto qui?» Guelfi percepì un forte odore di urina.
«Il fucile lo stanno controllando in laboratorio. Per il resto, niente documenti e niente cellulare… che tra l’altro risulta spento, ma presto riceveremo i tabulati e attraverso le celle telefoniche che ha agganciato tracceremo i suoi spostamenti.»
«Posso?»
La voce li raggiunse alle spalle. Guelfi riconobbe uno degli psicologi del carcere.
«Come no, Doc!» Usai gli fece segno di entrare. «Stavo proprio parlando del nuovo ospite. Hai aggiornamenti?»
«Mi riservo di darvi un referto più approfondito quando avremo completato tutti gli esami, posso anticiparvi che manifesta un’amnesia a breve termine. Conosce il proprio nome, sa dove vive, cosa fa… ma è disorientato nel tempo e nello spazio. Non è in grado di dirmi che giorno sia oggi e non si capacita di essere all’Elba. La memoria per gli eventi temporalmente più distanti è intatta: ricorda la prima ecografia della gravidanza della moglie e il lavoro svolto in caserma nelle scorse settimane, ma ha un vuoto sulle ultime quarantotto, forse sessanta ore.»
«E se si stesse prendendo gioco di noi?» mise in dubbio Guelfi.
«Vorrebbe dire che è uno che ci sa fare e che ha esperienza in materia. Attenzione: non mi riferisco alla capacità di recitare, ma alla conoscenza dei sintomi di una perdita di memoria recente.»
«Ma può succedere? Cioè, si possono dimenticare solo alcune cose?»
«Sì, in seguito a traumi cerebrali, lesioni vascolari o ischemiche, o come effetto di assunzione di una serie di sostanze psicoattive.»
«È reversibile?»
«Difficile esprimersi prima di avere accertato con esattezza la causa del problema. In linea di massima è possibile che poco alla volta l’amnesia temporanea scompaia. In particolar modo se non sono presenti altri segni di compromissione della funzione cognitiva, come in questo caso.»
«Doc, grazie, per ora.» Usai tornò in corridoio.
Prima che l’agente sbloccasse la porta dell’infermeria, Guelfi diede un’occhiata dalla finestrella. Il caporal maggiore era seduto sul lettino, scalzo e a torso nudo. Entrambi i polsi chiusi nelle manette. Indossava un paio di pantaloni di cotone azzurro, uguali a quelli usati dal personale medico della struttura. Aveva un viso triangolare, mento sporgente e naso affilato. La barba era di qualche giorno e i capelli scuri disegnavano una V sulla fronte. Mostrava i segni dell’abbronzatura su collo e braccia.
Mentre due guardie armate lo sorvegliavano, un infermiere si muoveva alle sue spalle.
Usai tese la mano verso Katherine e De Luca. «Se non vi spiace, vi chiederei di attendere fuori.»
Katherine sembrò sollevata. De Luca poco convinto.
«Caporal maggiore Salvo Surace.» Usai pronunciò il suo nome nell’istante in cui superava la soglia. «Le presento Tommaso Guelfi, vicequestore aggiunto della polizia di Stato.»
Guelfi rimase inespressivo.
L’uomo sollevò il volto. «Non ci riesco… non ci riesco proprio…»
«Cosa non riesce?»
«Non mi ricordo… ci sto provando, ma non ricordo.» Abbassò le palpebre.
«Continui a sforzarsi.»
«C’era mare mosso… ho camminato tanto… mi facevano male le gambe… ma non ricordo dove ero diretto.»
«Siamo venuti per informarla che abbiamo avvisato sua moglie. Ci fornisca il nome di un difensore, in caso contrario ne avrà uno d’ufficio.»
«Non voglio un avvocato… io non ho fatto niente!» Le sue dita tremavano mentre cercava di arrestare le lacrime.
Guelfi analizzava ogni gesto. Non era la prima volta che vedeva un indagato piangere e giurare la propria innocenza. L’ultimo aveva tagliato la gola ai figli e ucciso la compagna a bastonate.
«Mia moglie è arrabbiata?»
«Avrà modo di parlarle.»
«Non volevo mentirle… ma ho ricevuto la chiamata… era importante che mi incontrassi con loro… sono quelle cose che ti cambiano la vita…»
Guelfi lanciò un’occhiata a Usai. «Con loro, chi?»
«Non… non lo so…»
«Però ricorda di essersi incontrato con qualcuno?»
«Non ricordo niente… ni-en-te!» La voce era rotta da singhiozzi trattenuti.
«Si calmi.» Usai fece un passo in avanti. «Può scendere dal lettino e girarsi?»
Guelfi non capì, fino a quando il caporal maggiore non mise i piedi a terra e roteò su se stesso: la schiena era sfregiata da ustioni profonde che formavano due parole.
“Ottava coalizione.”