6

Le mani. Le mani erano diverse. Queste non sono le mie mani. Queste mani appartengono a un’altra.

Eppure era lei a comandare il movimento delle dita, quindi doveva esserci per forza una spiegazione. Non si era più voltata verso la parete con il grande specchio, non ne aveva il coraggio. Però continuava a fissarsi le mani, cercando di capire come fosse potuto accadere.

Quindici anni, e non se n’era accorta.

«Sam.» La voce del dottor Green attraversò un deserto di silenzio per riportarla indietro da quei pensieri. «Sam, devi fidarti di me.»

Spostò lo sguardo sul registratore. Eccomi, sono qui.

«Lo so che ora ti sembra tutto assurdo. Ma se mi lascerai fare il mio lavoro rimetteremo a posto le cose, te lo garantisco.» L’uomo era sempre seduto accanto al letto e le aveva lasciato un po’ di tempo per elaborare la rivelazione di non avere più tredici anni. «La terapia fa effetto, il tuo organismo si sta liberando dalla droga che ti è stata somministrata. La memoria sta già tornando.»

Mosse gli occhi verso la flebo collegata al suo braccio. In quel liquido che stillava lentamente c’erano le risposte, i fotogrammi di un incubo lunghissimo.

Non so se voglio ricordare.

Il dottor Green sembrava riporre grandi aspettative in lei. Si accorse che, stranamente, non voleva deluderlo. Era un buon segno? In fondo, lo conosceva appena. Sì, era una cosa buona. Perché ogni volta che lui le ripeteva di fidarsi, lei gli credeva un po’ di più. «Va bene» disse.

Green sembrava soddisfatto. «Andremo per gradi» premise. «La memoria di una persona è uno strano meccanismo. Non è come questo registratore, non basta rimandare indietro il nastro per riascoltare. Anzi, molto spesso i ricordi vengono incisi l’uno sull’altro e si confondono fra loro. Oppure la registrazione non è completa o ci sono buchi o difetti: la mente li ripara a modo suo, mettendoci toppe che sono in realtà falsi ricordi e possono confondere. Per questo è necessario adottare alcune regole per distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Finora è tutto chiaro?»

Annuì.

Green attese qualche istante prima di proseguire. «Adesso, Sam, voglio che torni con me nel labirinto.»

La proposta la terrorizzò. Non voleva tornare lì. Mai più. Voleva restare in quel letto comodo, in mezzo ai suoni del mondo in frenetico movimento dietro la porta della sua stanza, i rumori dell’ospedale mescolati alle voci ovattate della gente. Ti prego, non riportarmi nel silenzio.

«Tranquilla, ci sarò io con te stavolta» la rassicurò.

«D’accordo... Andiamo.»

«Iniziamo da qualcosa di semplice... Voglio che ripensi al colore dei muri.»

Chiuse gli occhi. «Grigi» disse senza esitare. «I muri del labirinto sono grigi.» L’immagine era apparsa fugacemente nel suo campo visivo.

«Che grigio è? Chiaro o scuro? È uniforme oppure, per esempio, ci sono crepe o macchie di umidità?»

«È sempre uguale. E le pareti sono lisce.» Le sembrò di accarezzarle. Dischiuse gli occhi per un istante e si accorse che Green prendeva nota sul taccuino. La sua presenza la confortava. Così come le pareti candide della stanza d’ospedale, un bianco attenuato dalla luce blu dei neon che ricordava il fondo dell’oceano.

«Sai dirmi se ci sono dei rumori?»

Scosse il capo. «I suoni non possono entrare nel labirinto.»

«Odori?»

Provò a dare una definizione precisa alle sensazioni che confluivano rapide nella memoria, e che venivano da chissà dove. «Terra... C’è odore di terra bagnata. E poi, muffa...» Quindi mise insieme le informazioni: niente finestre, né suoni, odore di umido. «È una grotta.»

«Stai dicendo che il labirinto è sottoterra?»

«Sì... Mi sembra di sì... Anzi, ne sono sicura» si corresse alla fine.

«Chi l’ha chiamato così?»

«Sono stata io» ammise subito.

«Perché?»

Rivide se stessa percorrere un lungo corridoio su cui si affacciavano diverse stanze.

Il luogo è ben illuminato da lampade al neon sul soffitto. Non ha freddo, ma nemmeno caldo. Cammina a piedi scalzi ed esplora l’ambiente circostante. Due file parallele di porte di ferro. Alcune sono aperte e introducono in camere vuote. Altre, invece, sono chiuse a chiave. Arriva in fondo al corridoio e svolta a destra: la scena si ripete. Altre porte, altre stanze grigie. Tutte uguali. Continua ad andare avanti e incontra un bivio. Qualunque direzione scelga, poco dopo si ritrova di nuovo al punto di partenza. Almeno così sembra. Non c’è modo di orientarsi. Apparentemente, non c’è un’uscita. E nemmeno un’entrata. Come sono arrivata qui?

«Il luogo in cui mi trovo non ha una fine. E nemmeno un inizio.»

«Perciò non ci vive nessuno, a parte te» concluse il dottor Green.

«No, non sembra una casa» ribatté lei, decisa. È un labirinto, te l’ho già detto.

Ma Green voleva capire meglio. «Per esempio, c’è un bagno?»

È uno sgabuzzino piccolo e angusto. E ha solo il water. E puzza. Puzza tantissimo. Non si può nemmeno tirare lo sciacquone. Non vuole farla lì.

«Non voglio farla lì» disse con un po’ di imbarazzo, e scrutò la reazione di Green. «Allora me la tengo. Me la tengo per tutto il tempo.»

Però non è possibile trattenerla così a lungo. Si tiene la pancia e sente già le gocce calde che le bagnano le mutandine.

«Perché non la fai e basta?» chiese il dottor Green. «Cosa ti blocca?»

«Mi vergogno» ammise.

È in piedi e fissa il water – la ceramica ingiallita e sbeccata, un rivolo di ruggine che scende nello scolo. L’acqua stagnante è coperta da una patina opaca. Prova ribrezzo. Saltella da un piede all’altro, non ce la fa più.

«Perché ti vergogni?» Poi azzardò: «Sei davvero sola?»

La domanda la gelò.

È accovacciata in precario equilibrio sulla tazza, la vescica si libera con un getto fortissimo. Il suono dell’orina che esce si disperde nell’ambiente vuoto.

«Riesci a vedere o sentire qualcuno?»

«No.»

Green si limitò a prendere atto del dato, senza commentarlo.

Forse l’aveva deluso. Forse avrebbe dovuto spiegare meglio come stavano le cose. «Il labirinto mi guarda» disse d’impulso, e notò subito che l’affermazione aveva risvegliato l’attenzione dell’altro. Infatti, il dottore si voltò impercettibilmente verso lo specchio, come a voler mandare un segnale ai poliziotti che assistevano alla scena. «Il labirinto conosce ogni cosa» ribadì.

«Ci sono telecamere?»

Scosse il capo.

«Allora come fa? Spiegami, per favore...»

«Il cubo» disse. Ma si accorse subito che lui non capiva. «È stato il primo gioco.»

«Parlamene.»

«Mi sono svegliata e stava lì...»

Dopo aver vagato per ore in cerca di aiuto, entra in una delle stanze e si distende per terra. Si addormenta subito, esausta. Quando riapre gli occhi, ci mette un po’ a ricordare dove si trova – pochi attimi di quiete prima del ritorno della paura. E l’oggetto è per terra, a un metro dalla sua faccia. Una visione familiare, che appartiene al passato. Un cubo pieno di colori. Verde, giallo, rosso, bianco, arancione e blu.

Io so come si chiama. Cubo di Rubik, così si chiama.

«Sei facce. Su ognuna ci sono nove quadratini. Ogni piccolo quadrato ha un colore diverso.»

«Lo conosco» confermò Green. «Quando ero bambino era un gioco molto popolare. Non ci crederai, ma la gente impazziva per risolverlo.»

«Invece ci credo» disse, perché anche lei stava impazzendo. Ma ciò a cui associava l’oggetto non era affatto divertente.

Green sembrò accorgersi del suo turbamento e quasi si scusò. «Va’ avanti, ti prego...»

«Quando l’ho trovato, i colori erano mischiati.»

Cosa deve farci? Passarci il tempo? È assurdo. Non sa dove si trova, chi l’ha portata lì. Ha paura. Ha fame. «Vi prego, voglio tornare a casa mia...» Ma nessuno risponde.

«Sono rimasta accucciata in un angolo a osservare quel coso per non so quanto tempo. Non volevo nemmeno toccarlo. Se lo facevo, allora sarebbe successo qualcosa di brutto – me lo sentivo. Ma pensavo sempre a una cosa, cioè che ero lì e non potevo uscire. E quel pensiero mi faceva male. Non c’era modo di mandarlo via.» Fece una pausa. «O forse sì.»

«Allora che hai fatto?»

Sollevò gli occhi pieni di lacrime su di lui. «Ho preso il cubo.»

Lo osserva, poi inizia a far ruotare le facce multicolori. Tutto pur di mandare via il fastidio del tempo che non vuole passare. La mente non riesce a concentrarsi, è distratta dall’ansia. Ma, poco a poco, la pressione si attenua, il terrore prende una distanza – arretra pur rimanendo vicino. Ora può tenerlo a bada. L’attenzione è tutta per quei colori che si combinano fra loro. E, dopo pochi minuti, riesce a completare uno dei lati, quello arancione. Lo ripone per terra, il terrore torna a braccarla. Lei scruta l’oggetto sul pavimento. Ha corretto parte dell’imperfezione. Il lato finito è ordine, pulizia. Le dà sicurezza. Deve esserci per forza una spiegazione per ciò che le sta capitando. E in quel momento, i suoi sensi allertati percepiscono qualcosa.

Un cambiamento.

La mente impiega pochi attimi a decifrare il nuovo segnale. Un odore. Come il cubo, anche quello è familiare. Si alza dall’angolo ed esce in corridoio. Si guarda intorno. Non c’è nessuno. Inizia a cercare, cauta. Si lascia guidare dall’olfatto, ma teme che sia solo un’allucinazione. No, non lo è: è reale. Giunge sulla soglia di una delle stanze. La porta di ferro è socchiusa. La spinge con il palmo della mano. Al centro dell’ambiente c’è un sacchetto di carta.

McDonald’s.

«Hamburger, Coca-Cola e patatine fritte» elencò, e poi precisò a beneficio di Green: «Tante patatine».

Non pensa di dover essere prudente, è la fame a decidere per lei. Si precipita verso il cibo e mangia con voracità. Non si domanda come sia arrivato lì, chi l’abbia acquistato. Sta imparando la sua prima lezione.

La sopravvivenza.

Solo quando è sazia, il cervello comincia a razionalizzare l’accaduto. Torna nella stanza dove ha lasciato il cubo: deve continuare a risolvere il rebus. Passeggia per i lunghi corridoi, con la testa china sul gioco. Con un po’ di difficoltà, ha completato anche un altro lato – verde – e si sta dedicando al terzo – rosso. Non è affatto semplice gestire tre colori diversi. Passa davanti a una delle stanze e, con la coda dell’occhio, intravede qualcosa. Torna indietro e si blocca.

Il premio per aver terminato il secondo lato del cubo è un materasso con delle coperte e un cuscino.

In poco tempo ha fatto enormi progressi: ha lo stomaco pieno e non deve più dormire per terra. Ma finire il terzo lato è più difficoltoso del previsto.

«Forse sono passati giorni, ma poi ho capito che non ce la facevo a terminare il lato rosso. Non ero brava come pensavo. Intanto, niente cibo e niente acqua.»

«Allora, che è successo?» chiese Green. «Come hai fatto a sopravvivere?»

È distesa sul materasso. I vestiti cominciano a starle larghi, e non ha quasi più forze. Da quant’è che non beve e non mangia? Dorme per quasi tutto il tempo, è preda di incubi. A volte non sa nemmeno se dorme oppure è sveglia. Quella che la tormenta non è propriamente fame, perché non si manifesta come voglia di cibo. Sono crampi improvvisi all’addome, come se il suo stomaco cercasse di uscire e si scavasse una via dentro di lei.

Dopo un po’, forse qualche giorno, le fitte cessano. Ma allora diventa anche peggio. Perché sopraggiunge la sete. Nessuno gliel’ha mai detto, che la sete è peggio della fame. Perché ti fa perdere la ragione. Perché, mentre ti senti prosciugare, non fai altro che pensare a bere. E ti strapperesti a morsi le vene dai polsi e succhieresti il tuo stesso sangue pur di appagare quel bisogno...

Sa che c’è un modo per mandar via la smania, ma non l’ha ancora messo in pratica. Perfino l’idea le fa troppo schifo.

Ma se vuole sopravvivere, non ha scelta.

Così, con le poche forze che le rimangono, si trascina fino allo sgabuzzino. Davanti alla tazza lurida, osserva la brodaglia melmosa e maleodorante. Per prima cosa, infila una mano. Ne saggia la consistenza. Poi chiude gli occhi e la tira su, mentre all’idea un conato la scuote. Non pensarci. Non devi pensarci. Come quando da piccola si sbucciava un ginocchio e, se si concentrava, il dolore svaniva. Adesso deve dimenticare il sapore. Allora affonda la bocca nella conca del palmo. Inizia a succhiare. Il liquido filtra fra le labbra e i denti, lo deglutisce senza trattenerlo in bocca... Quando torna nella stanza, si sente sporca dentro. È ancora viva. Ma non è un sollievo, perché sa già che dovrà rifarlo.

Intanto il maledetto cubo sta sopra il cuscino e la fissa.

Ma lei è così arrabbiata che lo afferra e inizia a disfare i lati che ha completato...

«Me ne sono pentita quasi subito, e ho cominciato a piangere. Ero disperata, e ho provato a rimettere a posto i colori.»

«Mi dispiace» disse Green, e sembrava sincero.

«Sono riuscita a finire solo il lato verde, poi mi sono addormentata... Quando ho riaperto gli occhi, nella stanza c’erano un cestino con una zuppa fredda e una bottiglia di gassosa calda.»

Il dottore annuì. «E come ti sei spiegata quel regalo?»

«Non era un regalo» lo corresse. «Ogni volta che avevo bisogno di qualcosa di semplice – cibo, biancheria pulita o uno spazzolino da denti – bastava che finissi il primo lato. Non sapevo che gusto c’era a costringermi a quel gioco stupido, visto che completare un solo lato era abbastanza facile. Poi ho capito...» Chiuse gli occhi, una lacrima scivolò lungo la guancia, infilandosi nella mascherina d’ossigeno. «Se avessi completato i sei lati, lui mi avrebbe lasciata andare.»

«Lui chi?»

«Il labirinto» rispose.

«È questo che è successo? Hai portato a termine il gioco e il labirinto ti ha liberata?»

Scosse il capo, ora piangeva. «Non sono mai arrivata oltre il quarto lato.»

L'uomo del labirinto
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