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Genko uscì sulla soglia del Q-Bar e l’afa venne subito ad abbrancarlo, stringendogli la gola e il torace in una morsa. Il caldo era qualcosa di vivo, una bestia invisibile che non lasciava scampo. Bruno faceva fatica a respirare ma si infilò lo stesso una sigaretta fra le labbra, la accese e aspettò che la nicotina entrasse in circolo.
Tanto, che male gli poteva fare?
Si guardò intorno. Alle tre del pomeriggio le vie del centro erano deserte. Uno spettacolo insolito per l’ora, la zona e per un giorno feriale. Negozi e uffici chiusi. Nessun passante. Un silenzio spettrale. Solo i semafori continuavano assurdamente a disciplinare la circolazione in strade svuotate dal traffico.
A causa delle temperature proibitive, le autorità erano state costrette a ricorrere a misure straordinarie al fine di salvaguardare la salute dei cittadini. Si raccomandava alla popolazione di dormire di giorno e di uscire di casa soltanto nelle ore notturne. Per facilitare la transizione, erano stati modificati i turni di servizio di polizia, vigili del fuoco e personale ospedaliero. Gli uffici pubblici aprivano nel tardo pomeriggio per chiudere all’alba. Perfino i tribunali svolgevano la loro attività a partire dalle ore serali. Aziende e società si erano conformate al cambiamento: intorno alle venti, operai e impiegati affollavano le strade per raggiungere il posto di lavoro come in una normale ora di punta. Nessuno si lamentava. Anzi, grandi magazzini ed esercizi commerciali avevano addirittura registrato un incremento degli affari, perché la gente non vedeva l’ora di fuggire dalle proprie case. Col calare del sole, tutti sbucavano fuori dai nascondigli, come topi.
Da circa una settimana, le giornate cominciavano al tramonto.
Il tempo è impazzito, si disse Bruno rammentando ciò che era accaduto un anno prima a Roma, dove una tempesta si era abbattuta sulla città causando un blackout e una devastante inondazione. Effetti dell’inquinamento, del surriscaldamento globale e, comunque, della maniera del cazzo in cui veniva trattato il pianeta. Chissà quanto ci sarebbe voluto perché il maledetto genere umano si autodistruggesse senza nemmeno accorgersene. Un vero peccato. Ma poi si ricordò del talismano nella propria tasca e considerò che, in fondo, il problema non lo riguardava più.
Così decise di fregarsene e di contribuire ulteriormente al degrado generale: diede un paio di tiri alla sigaretta e gettò il mozzicone sul marciapiede rovente, schiacciandolo sotto la suola della scarpa. Quindi si avviò verso la propria auto parcheggiata dietro l’angolo.
Una telefonata anonima.
Mentre guidava la vecchia Saab per le strade vuote, Genko continuava a rimuginare sull’informazione ricevuta da Quimby. L’aria condizionata non funzionava da anni, così teneva i finestrini aperti. Vampate improvvise lo investivano per poi ritirarsi, sembrava di procedere in mezzo a un incendio. Bruno aveva bisogno di un rifugio, non per sottrarsi alla calura bensì a quell’idea. Smettila di pensarci, non ti riguarda. Ma il dubbio lo tormentava. Chi aveva fatto la chiamata? Perché l’informatore non aveva soccorso personalmente Samantha? Perché omettere le proprie generalità? Quello sconosciuto avrebbe potuto diventare l’eroe della vicenda, eppure aveva preferito rimanere nell’ombra. Di cosa aveva paura? O cosa cercava di nascondere?
Genko sapeva di non essere abbastanza lucido per ragionare. Troppa tequila, oppure solo quel maledetto foglio nella tasca. Poteva rintanarsi nella stanza d’albergo che aveva prenotato una settimana prima, completare la sbronza iniziata al Q-Bar e precipitare in un sonno profondo con la speranza di non svegliarsi più.
Non sarà così indolore, vecchio mio, rassegnati.
Decise che era meglio non stare da solo. Ma c’era soltanto una persona che poteva sopportarlo in quelle condizioni.
Quando Linda gli aprì la porta, Bruno comprese dalla sua espressione di avere un aspetto orribile.
«Cristo, ma sei pazzo ad andare in giro con questo caldo?» lo rimproverò, tirandolo dentro. «E hai anche bevuto» aggiunse con una smorfia di disgusto. Linda attribuiva alla temperatura e all’alcol la colpa del pallore e delle occhiaie.
Genko non la smentì. «Posso entrare?»
«Sei già entrato, idiota.»
«Ok, allora posso restare un po’ qui o hai da fare?» Aveva i vestiti impregnati di sudore e le vertigini.
«Ho un cliente fra un’ora» disse l’altra, sistemandosi il kimono di seta blu sulla pelle di bronzo. La scollatura svelava seni piccoli e sodi.
«Devo stendermi qualche minuto, mi basterà.» Si addentrò nella casa in cerca del divano. A differenza del Q-Bar, l’aria condizionata funzionava e c’era una bella penombra perché le tapparelle erano abbassate.
«Puzzi di vomito, lo sai? Potresti fare anche una doccia.»
«Non voglio darti troppo disturbo.»
«Mi disturba di più se mi appesti l’appartamento.»
Bruno si sedette sul sofà bianco, in tinta con la moquette, che troneggiava in salotto in mezzo ai mobili laccati di nero e agli unicorni. Ce n’erano ovunque e di diverse fogge – poster, statuine, peluche, perfino alcuni prigionieri di ampolle con la neve. Erano la passione di Linda. «Sono un unicorno» si era definita lei una volta. «Una bellissima creatura leggendaria: nessuno sano di mente ammetterà mai di credere all’esistenza degli unicorni, ma da sempre gli uomini insistono a cercarli sperando che siano reali...»
Su una cosa aveva ragione. Era davvero bella. Per questo gli uomini la cercavano. Ed erano disposti a pagare caro il privilegio di stare con lei.
«Vieni, lasciati aiutare» disse quando vide che non riusciva nemmeno a sfilarsi la giacca. Gli tolse i mocassini e gli distese le gambe sul divano, poi sprimacciò un cuscino e glielo piazzò dietro la nuca. Gli sfiorò la fronte con una carezza. «Ma hai la febbre.»
«È solo il caldo» mentì lui.
«Vado a prenderti dell’acqua fresca, con quest’afa è facile disidratarsi... Specie se si beve tequila di pomeriggio» lo rimbrottò. «E metto questo straccio nell’asciugatrice» aggiunse recuperando la giacca di lino. «Magari riesco a togliere un po’ di cattivo odore.» Quindi sparì nel corridoio.
Bruno fece un respiro profondo. Gli doleva il capo e si sentiva indolenzito. E, anche se non voleva ammetterlo, aveva paura. Da settimane faceva fatica a prendere sonno. Lo stress lo divorava e, quando il fisico non ce la faceva più a reggere l’ansia, si addormentava di schianto. Non era dormire, era una resa. Infatti, dopo mezz’ora al massimo trascorsa nell’oblio, la realtà lo ridestava rammentandogli che il suo destino era segnato.
Poteva parlarne a Linda, condividere con lei quel peso. Forse sarebbe stato perfino liberatorio. In fondo, una parte di lui aveva voluto andare lì per questo, non poteva negarlo. Non era semplicemente una buona amica. Anche se fra loro esisteva un limite che non avevano mai valicato, per lui Linda era ciò che più si avvicinava a una moglie.
Quando sei anni prima gli aveva telefonato in lacrime per chiedergli aiuto, si prostituiva già da tempo ma ancora si chiamava Michael. La metamorfosi non era completa, la donna bellissima era imprigionata in sembianze maschili e un’ombra di barba incorniciava il viso angelico – zigomi alti, labbra carnose, occhi azzurri. Michael si era rivolto a Bruno per sfuggire alla persecuzione di un cliente. All’epoca, il transessuale si concedeva per poco e andava con chiunque. Così si era imbattuto in un tizio che prima se lo scopava e poi lo picchiava, accusandolo di averlo costretto a un atto contro natura. Però poi tornava sempre a cercarlo, pentito. E la storia ricominciava, ogni volta con lo stesso epilogo.
Michael non sapeva per quanto ancora sarebbe stato in grado di resistere. Aveva provato ad allontanare il persecutore, ma senza successo. Diventava sempre più arduo mascherare i lividi dei pestaggi. Era spaventato a morte.
Lavorando all’inferno, Bruno riusciva a immaginare come sarebbe finita. I transessuali erano le vittime preferite di violenti e disadattati carichi di livore. Così, quando aveva guardato in fondo agli occhi di Michael, l’investigatore privato aveva compreso subito che la situazione era grave e che nessun poliziotto l’avrebbe aiutato. Se non fosse intervenuto lui, quell’angelo fragile e impaurito sarebbe certamente morto.
Per convincere il persecutore a sparire non sarebbero bastate le minacce e nemmeno le percosse; non si estirpa un’ossessione con il dolore fisico, è come pretendere di spegnere un incendio usando l’arte della persuasione. Il modo più sicuro per fermare quell’uomo era ucciderlo, ma Genko non era un assassino, perciò aveva escogitato un piano. Siccome il tizio lavorava come broker per una nota banca d’affari, Bruno aveva pagato un hacker per entrare nel sistema informatico della società e spostare ingenti somme dai conti degli investitori a quello personale dell’uomo. Poi gli era bastato attendere che qualcuno si accorgesse del furto. L’uomo aveva rimediato una condanna a dieci anni per truffa e appropriazione indebita. In galera avrebbe potuto sfogare liberamente i propri istinti, oppure essere in balia di quelli altrui. Michael era finalmente libero.
«Che significa?»
La voce di Linda tremava appena e, anche senza guardarla, Bruno capì subito che era sconvolta. Voltò leggermente il capo e la vide, immobile sulla soglia, con la giacca di lino appoggiata a un braccio e un foglio fra le mani. E subito gli fu tutto chiaro: prima di mettere l’indumento nell’asciugatrice, aveva svuotato le tasche per non rovinarne il contenuto.
«Che cos’è?» gli chiese di nuovo, stavolta quasi con rabbia.
Bruno si tirò un po’ su. Ci siamo, si disse. Non ne aveva parlato con nessuno, perché temeva che l’idea si materializzasse. Se invece le parole rimanevano prigioniere della carta, allora forse c’era ancora una speranza di scamparla.
No, non c’è alcuna speranza.
«È un talismano» rispose.
Linda, però, sembrava disorientata.
«Sai cos’è un talismano? È un oggetto a cui attribuiamo il potere di proteggerci. Un po’ come i tuoi unicorni.»
«Che cazzo dici, Genko?» Era irritata. «Qui sopra dice che morirai...»
Sapeva cos’era accaduto. Dopo aver riconosciuto che si trattava di un referto medico, lei aveva scorso velocemente il testo, ma le frasi le erano risultate incomprensibili perché la mente andava alla disperata ricerca di altro. E l’aveva trovato solo all’ultima riga. La risposta a una domanda terribile. Due parole.
«Prognosi: infausta.»
Era successo lo stesso a Genko quando i suoi occhi avevano esplorato il documento. Ciò che c’era scritto prima dell’ultima riga non contava. Anzi, poteva esserci scritta qualunque cosa. Tanto, che differenza faceva? Quelle parole facevano parte di un tempo che se n’era andato, e ormai tutto il passato aveva perso valore, la vita che aveva preceduto quel momento non aveva più senso. Quei due termini freddi, formali, costituivano uno spartiacque. Niente sarebbe più stato come prima.
«Che succede?» chiese lei, impaurita. «Perché?»
Bruno si alzò, andò a prenderla perché lei non riusciva a muoversi. Le tolse il referto dalle mani e la portò con sé sul divano. «Senti, adesso provo a spiegarti ma tu devi ascoltarmi. Va bene?»
Annuì, ma stava per mettersi a piangere.
«Ho una specie di infezione» e si indicò il torace. «Un batterio mi si è infilato nel pericardio, non so come e non lo sanno neanche i dottori.» Un mostro alieno gli stava mangiando il cuore. «Dicono che non c’è rimedio, perché l’abbiamo scoperto troppo tardi.»
Linda era confusa. «Dovresti essere in ospedale. Dovrebbero almeno provare qualcosa... Non possono lasciarti morire così, senza fare niente.» La voce stava diventando stridula, quasi isterica.
Bruno le strinse le mani, poi scosse il capo. Non ebbe la forza di rivelarle che, quando aveva chiesto se esisteva una cura, il medico gli aveva consigliato il ricovero in un hospice. Ma a Genko non andava di rinchiudersi in un posto dove si va solo per morire.
«La cosa positiva è che accadrà all’improvviso, praticamente non me ne accorgerò neanche. Una piccola esplosione nel petto, e me ne andrò in pochi secondi. Sarà come un colpo di pistola.» Una pallottola invisibile, sparata dritta al cuore – l’immagine non gli dispiaceva.
«E quanto tempo...» Non riusciva a chiederlo. «Insomma, quanto tempo...»
«Due mesi.»
«Soltanto?» Era sconvolta. «E da quanto tempo lo sai?»
«Da due mesi» affermò lui, senza pensarci troppo.
La notizia la spiazzò. Linda non riusciva a dire nulla.
«Il termine è scaduto oggi.» Bruno rise, ma un bolo acido di terrore gli precipitò nello stomaco. «È curioso: fino a ieri avevo davanti un traguardo, dovevo solo aspettare la fine del conto alla rovescia. Ma da oggi... Da oggi che succede?» Chinò il capo, lo sguardo perso sulla moquette. «Mi sento come il condannato a morte a cui non hanno comunicato l’ora dell’esecuzione.» Rise di nuovo, stavolta sinceramente. «Ieri sera fissavo l’orologio, mi aspettavo che a mezzanotte accadesse qualcosa. Come Cenerentola, ci pensi? Che idiota...» In realtà, era arrabbiato: aveva passato sessanta giorni preparandosi al momento cruciale. E adesso non esistevano più regole. Una silenziosa anarchia governava gli eventi. «Ecco perché questo foglio è un talismano» disse ripiegando per bene il referto. «Mi protegge contro il caos. Perché si può anche impazzire aspettando di morire.»
Linda, però, non ce la faceva a essere altrettanto lucida. «E me lo dici soltanto ora?»
«Non riuscivo ad ammetterlo nemmeno a me stesso... Se l’avessi rivelato a qualcuno, sarebbe diventato tutto vero: stavo per morire.» Poi si corresse: «Sto per morire. O forse sono già morto, dipende dai punti di vista». Sarebbe stato un interessante problema filosofico. Quand’è che si comincia a morire? Quando si contrae la malattia letale o quando la si scopre?
Linda si alzò dal divano. «Adesso faccio un paio di chiamate e annullo gli appuntamenti. Oggi non ti muovi da qui» disse con ritrovata determinazione.
Bruno le prese delicatamente la mano. «Non sono venuto qui a morire, anche se in pratica potrebbe accadere in questo istante.» Stava provando a smorzare la tensione e anche ad alleggerirle i sensi di colpa.
«Allora perché? Per dirmi addio?» Ce l’aveva con lui.
Si avvicinò e le baciò la fronte. «Ho capito: hai paura che mi infili una pistola in bocca e la faccia finita subito, senza aspettare. Lo ammetto: ho preso in considerazione l’idea e non lo escludo se le cose dovessero andare troppo per le lunghe. Ma non sarà tenendomi qui che eviterai il peggio, perché il peggio è già scritto su quel foglio.»
«Non puoi pretendere che mi rassegni, lo capisci?»
Lo capiva, perché sapeva che lei lo amava. «Hai sentito i telegiornali, la donna che quarantott’ore fa è riuscita a scappare al suo carceriere dopo quindici anni di prigionia?»
«Sì, ma che c’entra con te?»
«Ho pensato che, se una ragazzina di tredici anni può resistere all’orrore per così tanto tempo, allora tutto è possibile... Perfino un miracolo.»
Lei lo guardò, confusa.
«No, non penso che guarirò» affermò, fugando ogni illusione al riguardo. «Ma forse non è solo un caso che stia accadendo tutto adesso...» Una telefonata anonima, ricordò. Ma non poteva rivelare a Linda la soffiata ricevuta da Quimby.
«Promettimi che non ti ammazzerai...»
«Non posso. Ma ti assicuro che al momento è l’ultimo dei miei pensieri.» Poi cambiò subito argomento: «Ho bisogno di un favore» disse. «Una settimana fa ho prenotato una camera all’Ambrus Hotel, un piccolo albergo vicino al ponte della ferrovia.» Prese il portafoglio ed estrasse un bigliettino. «La stanza è la 115 ed è pagata per altri sette giorni.» In verità, non pensava di occuparla così a lungo. Si era trasferito lì perché temeva che, se fosse morto in casa, nessuno avrebbe ritrovato il cadavere. Lo atterriva l’idea di putrefarsi lentamente sul pavimento perché non aveva amici e parenti che si interessassero a lui. In albergo era più semplice. Una mattina, la donna delle pulizie sarebbe entrata nella camera e l’avrebbe trovato stecchito. Ma non spiegò a Linda quella parte del piano. «Nella stanza c’è una cassaforte e la combinazione è: undici-zero-sette.»
«È la mia data di nascita» si sorprese lei.
«Lo so, per questo l’ho scelta. Però, ora ascolta bene: quando verrai a sapere che...» Non riusciva a dirlo. «Sì, insomma, quando accadrà ciò che deve accadere, va’ lì e recupera il contenuto della cassaforte... Troverai un plico sigillato.»
«Cosa c’è dentro?»
«Non importa e non ti riguarda» la ammonì. «Non devi assolutamente aprirlo. Te ne sbarazzerai al più presto, chiaro? E non gettarlo, devi distruggerlo e assicurarti che non rimanga nulla.»
Linda non comprendeva la necessità di simili sotterfugi. «Perché non lo fai tu?»
Eluse la domanda. «Il portiere ha già ricevuto istruzioni, ti lascerà passare.»
Linda non insistette, ma Genko era sicuro che avrebbe mantenuto la parola. Si alzò e si infilò la giacca di lino, poi guardò l’ora. Le sedici – doveva proprio andare.
«Mi telefoni più tardi?» gli domandò con occhi da cerbiatta.
Bruno si avvicinò e le accarezzò il viso. «Magari me ne scordo e pensi che invece sono crepato...»
«Basta che non ti scordi di essere ancora vivo» disse lei, prendendo di nuovo la sua mano e portandosela alle labbra per baciarla. «Ricorda: finché c’è aria nei polmoni, non è finita.»
Gli piaceva l’idea semplice eppure illuminante contenuta in quella frase: finché avesse avuto aria nei polmoni non avrebbe dimenticato di essere ancora vivo. «Sta’ tranquilla: ho una cosa da sbrigare prima che accada l’irreparabile...» E si avviò verso la porta d’ingresso.
Linda non sapeva cosa credere. «Dove vai?»
Bruno si voltò, le sorrise. «All’inferno.»