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Lo condussero in auto fuori città. Era ancora notte ma l’indicatore nel cruscotto segnava che all’esterno c’erano trentotto gradi. Nonostante ciò, Bruno iniziò ad avere freddo.
La morte voleva fargli sapere che non s’era scordata di lui.
Giunsero a un motel. Benché fosse situato in una zona che aveva ben poco di turistico, l’insegna proponeva «vacanze per tutta la famiglia». Una corona di bungalow circondava una piscina colma di liquami e, in generale, la manutenzione lasciava a desiderare. Il posto era presidiato dalla polizia almeno quanto l’ospedale in cui si trovavano Samantha Andretti e Peter Forman.
Bauer parcheggiò la macchina nel piazzale e andò ad aprire lo sportello posteriore per far scendere Genko. L’investigatore privato si guardò intorno: cento occhi di poliziotti si posarono su di lui, mettendo subito in chiaro che l’estraneo non era il benvenuto.
«Da questa parte» indicò Delacroix.
Il piccolo appartamento riservato alla signora Forman era il più centrale e, perciò, il più facile da sorvegliare. Quando Genko varcò la soglia del bungalow, notò subito l’équipe di supporto psicologico del dipartimento. Gli esperti assistevano la donna e le sue bambine ancora sotto shock per l’esperienza subita.
Meg e Jordan erano bionde e avevano entrambe meno di dieci anni, erano sedute al tavolo della cucina. Una psicologa cercava di distrarle facendole disegnare. Le sorelline sembravano comunque più tranquille della madre che, nella camera accanto, era distesa sul letto e non riusciva a smettere di piangere, mentre un medico le misurava la pressione. Appena li vide arrivare, si tirò su.
«Come sta Peter?» chiese, ansiosa.
«È in buone mani, signora» la rassicurò Delacroix, poi fece cenno al medico di lasciare la stanza e chiuse la porta.
«Signora Forman, può ripetere ciò che ci ha raccontato prima?» le chiese Bauer.
«Certo.» La donna iniziò a mangiucchiarsi nervosamente le unghie laccate di rosso.
Forse era un vizio antico, Bruno pensò che l’avesse sconfitto con costose sedute di manicure. Ma la paura aveva il potere di far dimenticare le apparenze.
«Ho sempre avuto difficoltà ad addormentarmi, fin da ragazza. Prendo un sonnifero prima di andare a letto, perciò ho il sonno pesante... Quando sono nate le bambine, era Peter ad alzarsi di notte per i biberon e per cambiare i pannolini.»
La donna stava cercando di giustificarsi per non aver vigilato sulle figlie, pensò Genko.
«Anche ieri ha preso il solito sonnifero?» domandò Delacroix.
«Questo caldo folle e anche il fatto di dormire di giorno mi hanno scombussolata...» Il suo sguardo si perse nella stanza, in cerca di un ricordo. «Credo che fossero le due del pomeriggio. Devo aver sentito una delle bambine che mi chiamava e ho aperto subito gli occhi. Non riuscivo a capire se era stato un sogno... Le imposte erano chiuse ma, guardando nella penombra, mi sono accorta che Peter non era accanto a me nel letto. Ho pensato che si fosse alzato per andare a controllare le bambine, stavo per rimettermi giù ma ho sentito di nuovo Meg: non me l’ero immaginato, stava proprio chiamando me. La sua voce, però, non proveniva dalla cameretta... Era più distante, ed era spaventata.»
Genko notò che il suo volto iniziava a deformarsi. Solo il terrore era capace di sfigurare in quel modo le persone.
«Mi sono alzata e sono andata a vedere» proseguì la Forman. «Meg e Jordan non erano nei loro letti. Ho cominciato a chiamarle, ma non rispondevano.» Tirò su col naso, stava per mettersi a piangere. «Ho girato per tutta la casa, disperata. Ma poi ho visto che la porta della cantina era accostata.» Fece una pausa. «Le bambine sanno che è proibito andare là sotto, che è pericoloso. Ho pensato che avessero disobbedito, o che fossero cadute, e invece...» La donna si bloccò, smarrita.
«Cosa è successo dopo?» la incoraggiò Delacroix.
La Forman lo ignorò e sollevò lo sguardo su Genko. «Mentre andavo verso la porta, mi si è piazzato davanti quel...» Non sapeva come definirlo, perciò proseguì oltre. «Indossava una tuta da meccanico, dei guanti da sci... All’inizio, non mi sono spaventata, ero più... Sorpresa. Ho pensato, chissà che caldo con quella roba addosso.»
Non era insolito, considerò Genko. La mente impiega un po’ di tempo a metabolizzare le stranezze e cerca sempre di razionalizzare l’orrore.
«Ma poi ho visto bene la sua maschera...» La donna scoppiò in un pianto. «Ero sicura che avesse fatto del male alle bambine.»
Genko attese che si calmasse. «Le sue figlie stanno bene» la rassicurò perché immaginava che la donna avesse bisogno che qualcuno glielo ripetesse.
«L’uomo mi ha afferrata per un braccio e mi ha costretta a seguirlo in cantina.» Prese fiato. «Aveva legato le bambine. Ha fatto la stessa cosa con me e ci ha lasciate lì.»
Al termine del racconto, Delacroix guardò Genko come per dirgli che adesso toccava a lui. «Signora Forman» disse, per attirare la sua attenzione. «Prima di perdere i sensi, suo marito mi ha detto di aver riconosciuto l’uomo mascherato dalla voce.»
La donna ebbe un sussulto, sembrava sconvolta. «Non saprei... Non avevo idea di dove fosse Peter...»
Ad ammazzare Linda, pensò Genko, ma lo tenne per sé.
«Il signor Forman ha fatto riferimento al vostro giardiniere, ma non ha saputo dirmi il nome.»
I due sbirri presero mentalmente nota della nuova informazione e fissarono la donna in attesa di una reazione.
Lei ci pensò un po’. «Non lo so nemmeno io... Non è assunto, viene ogni tanto...» disse soltanto.
«Per caso, ha il suo numero di telefono?» chiese Delacroix, interrompendoli.
Genko notò che l’agente speciale era impaziente, aveva ottenuto ciò che voleva e l’aveva estromesso dal dialogo.
«No, mio marito andava a cercarlo nel parcheggio del centro commerciale» rispose la donna. «Peter mi ha spiegato che lì di solito si radunano i disoccupati che aspettano che qualcuno gli offra una giornata di lavoro.»
Genko immaginò quel taccagno di Forman che si recava in mezzo a quei poveracci a bordo di una lussuosa berlina, promettendo un compenso in nero.
«Ricorda almeno che veicolo guidava il giardiniere?» domandò Bauer.
«Mi sembra un vecchio furgone Ford, di colore azzurro.»
«Sarebbe in grado di descriverci quell’uomo?»
«Sì, penso di sì.» Poi la donna si bloccò, come se improvvisamente le fosse sovvenuto qualcosa d’importante. «C’è una cosa... Aveva una grossa voglia scura proprio qui» e con una mano si coprì interamente l’occhio destro.
Poco dopo erano seduti nel soggiorno del bungalow e la donna iniziò a descrivere nei minimi dettagli il giardiniere.
Siccome il risultato dipendeva essenzialmente dall’interazione fra la memoria del testimone e l’immaginazione del disegnatore, per aumentare le possibilità di giungere a un ritratto che si avvicinasse alla realtà, la Scientifica di solito impiegava tre diversi specialisti che disegnavano in contemporanea. Al termine dell’operazione, ogni ritrattista avrebbe sottoposto alla Forman il proprio identikit, fra cui lei avrebbe scelto quello più somigliante.
Era una procedura lunga e complessa.
Mentre Delacroix e Bauer assistevano in prima fila, Genko si teneva a distanza. Stava in piedi, appoggiato a una parete, e teneva le braccia incrociate. Osservava il lavoro dei disegnatori, mentre il vero volto di Bunny prendeva gradualmente forma. I tre identikit avevano parecchi dettagli in comune. Era positivo, significava che i ricordi della donna erano nitidi.
Quando giunse il momento di ricostruire l’aspetto della voglia sul viso, Bruno vide apparire la macchia scura che copriva gran parte del profilo destro, dalla guancia fino al sopracciglio.
È per questo che indossa una maschera, si disse. Chissà quante prese in giro, quanti soprusi ha dovuto subire fin da bambino per quell’anomalia fisica. Forse la totale mancanza di empatia per le vittime dipendeva dal fatto di aver sperimentato prima di tutto su se stesso quanto fosse spietata la natura umana.
Il lavoro dei ritrattisti era quasi completato, ma Bruno poteva già guardare in faccia il mostro che gli aveva portato via Linda. Aveva un’espressione asettica, indifferente, ma ciò era tipico di ogni identikit. Mentre cercava di decifrare il mistero di quel volto, ebbe un nuovo capogiro e gli mancò il fiato. Distolse lo sguardo dalla scena. Voltandosi verso la cucina, vide che al tavolo era rimasta solo una delle figlie dei Forman. Sicuramente Meg, la più piccola. L’altra doveva essere già a letto. Proprio come i ritrattisti, anche la bambina era intenta a disegnare. Ma sul suo foglio non c’era il volto banalissimo di un mostro, bensì una barca in mezzo al mare in una bella giornata di sole. Genko espresse il desiderio che l’aldilà fosse quieto come il disegno di Meg Forman. Sì, quello era proprio un bel posto in cui andare. La bambina sollevò lo sguardo come se avesse percepito i suoi pensieri, e gli sorrise.
«Sì, è lui» sentenziò la signora Forman con la voce rotta.
I ritrattisti le avevano presentato l’esito del lavoro, e lei era subito scoppiata a piangere.
Delacroix cercò con lo sguardo Genko e gli fece cenno di avvicinarsi. «Resta ancora un aspetto da chiarire» disse il poliziotto rivolgendosi alla donna. «Dopo che l’abbiamo liberata, lei ha chiesto di incontrare il signor Genko.» Indicò l’investigatore privato. «Eccolo qui.»
«Ha chiesto di vedermi, signora?» chiese Genko con gentilezza.
La donna tirò su col naso e fu attraversata da un fremito. «Non è stata una mia idea. Me l’ha ordinato l’uomo con la maschera.»
Bauer e Delacroix si scambiarono uno sguardo. «Cosa le ha ordinato esattamente?» chiese il primo.
«Di portargli un messaggio.» Fece una pausa. «Di persona.» La donna si alzò dal divano e, passando davanti allo sguardo allibito dei presenti, attraversò la stanza per andare incontro a Genko.
Bruno la vide avvicinarsi. Anche se non sapeva cosa sarebbe accaduto, non si mosse.
Quando gli fu proprio davanti, la donna si sporse verso il suo orecchio e sussurrò: «Robin Sullivan le manda i suoi saluti».