35

Il dottor Green rientrò nella stanza e si richiuse rapidamente la porta alle spalle. Nascondeva qualcosa dietro la schiena. «Ecco qui» annunciò e le mostrò un sacchetto di carta. «Ho pensato che avessi fame.»

Lo seguì con lo sguardo mentre andava a sedersi al solito posto.

«Il cibo dell’ospedale fa schifo, questo è decisamente meglio.» Estrasse dal sacchetto due sandwich avvolti nel cellofan trasparente. «Pollo o tonno?» domandò.

«Pollo» rispose lei.

Le porse uno dei due panini. «Ottima scelta: l’insalata di pollo di mia moglie è imbattibile.»

Lo prese e lo osservò.

«Che fai, non mangi?» chiese lui mentre dava il primo morso a quello col tonno.

«Sì, mi scusi» disse. «Mi è venuta in mente una cosa... Come faceva il rapitore a darmi i farmaci per tenermi buona?»

«Intendi gli psicotici.» Green si fermò a riflettere. «Credo che te li somministrasse col cibo.»

Si rigirò ancora il sandwich fra le mani, era da tanto che non assaggiava qualcosa preparato con amore. «Sua moglie deve volerle un gran bene.»

«Abbiamo avuto i nostri alti e bassi» ammise Green. «Ma credo che capiti a tutte le coppie che stanno insieme da tanto tempo.»

Si voltò verso lo specchio. «Mio padre non è ancora arrivato?»

«Ci vorrà un po’, poi lo faremo venire direttamente qui.»

«Non lo so...» Non si sentiva ancora pronta a incontrarlo.

«Nessuno ti obbliga, Sam. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi.»

«Il fatto è che non mi ricordo nemmeno come è fatto.»

«Posso portarti una sua foto, se vuoi. Magari ti torna in mente qualcosa.»

Le parole del dottore ebbero l’effetto di sollevarla. Liberò il sandwich dal cellofan e lo addentò voracemente: aveva ragione Green, era buonissimo. «Martedì» disse senza pensarci.

«Cosa?» chiese subito l’altro.

Si concentrò ancora una volta sulla macchia di umido sul muro – il cuore pulsante. «Il martedì è il giorno della pizza» ripeté...

In realtà, non sa se è martedì. E nemmeno se è giorno oppure notte. Anzi, è persino probabile che quello che lei chiama «il martedì della pizza» cada una volta al mese o anche di più. Ma lei ha deciso così. È una delle piccole convenzioni che ha imposto alla routine del labirinto.

Tutto è iniziato la prima volta che è riuscita a terminare la terza faccia del cubo di Rubik. Era orgogliosa di sé, tanto fiera del lavoro ben fatto da diventare subito rabbiosa. Perché sentiva di meritare un premio. E allora se n’è andata in giro per il labirinto, con il cubo esibito come un trofeo, marciando e gridando: «Pizza! Pizza! Pizza!»

Oltre a rivendicare la giusta ricompensa, il suo intento era anche infastidire il bastardo, semmai fosse stato in ascolto. Ma lei sapeva che poteva sentirla. E provava anche un certo gusto a essere indisciplinata.

Alla fine, aveva ottenuto ciò che voleva.

In una delle stanze aveva trovato un cartone con della pizza margherita molliccia, già vecchia di qualche giorno. Il bastardo pensava di punirla così, ma lei l’ha mangiata lo stesso di gusto. Da allora, il rito si è ripetuto.

Ogni terza faccia del cubo terminata, arriva un nuovo martedì. Pizza scadente.

Il bastardo chissà dove la prende. Il cartone è semplice, anonimo. Nessuna indicazione riguardo al locale di provenienza. Forse è una pizzeria di catena oppure un piccolo esercizio che pratica solo asporto. Lo immagina come un posto con un odore perenne di fritto, con le mattonelle bianche coperte da una patina di unto, lucida e viscida, che ormai nessun sapone manderà più via.

Ogni volta, mentre addenta la prima fetta di quella pizza, si domanda che faccia abbia la persona che l’ha preparata. Chissà perché se la figura come un ragazzo con le braccia robuste, sporche di farina, e la pancetta da bevitore di birra. Un tipo allegro, a cui piace stare con gli amici, andare insieme al cinema a vedere i film d’azione, o a giocare a bowling. Non ha la fidanzata, ma nella sua vita c’è una brunetta molto carina, fa la cassiera in un supermercato.

Il ragazzo non si domanda mai a chi sono destinate le sue pizze – perché dovrebbe? Non sospetta nemmeno che quella che sta preparando finirà nel labirinto, a sfamare una povera prigioniera. Non sa di essere l’unico contatto, anche se indiretto, che lei ha col mondo esterno. Ma lui è la prova che c’è qualcosa oltre quelle mura. Che l’umanità non si è ancora estinta per un olocausto nucleare o perché dal cielo è caduto un asteroide...

«Speravo sempre di trovare un messaggio per me in uno dei cartoni che arrivavano nei miei martedì immaginari. Non certo un biglietto, anche solo una parola scritta con la salsa di pomodoro. Un semplice saluto – ’ciao’, per esempio. Una volta sulla pizza c’era un carciofino, e l’ho interpretato come un segno. Ma poi la cosa non si è più ripetuta.»

«Cosa ti infastidiva di più del labirinto?» domandò Green, mentre dava l’ultimo morso al sandwich di tonno.

«Il colore delle pareti... Quel grigio era insopportabile.»

«C’è una teoria che sostiene che certi colori abbiano un’influenza sulla psiche» disse il dottore mentre si puliva la bocca con un kleenex. «Il verde trasmette sicurezza, per questo i tavoli da gioco sono quasi sempre verdi: per spingere i giocatori a rischiare... I toni caldi, invece, stimolano la serotonina e, per esempio, inducono le persone a essere loquaci o sessualmente promiscue.»

«E il grigio?» domandò.

«Inibisce l’azione delle endorfine» disse Green. «Le stanze dei manicomi sono dipinte di grigio, e anche le celle delle carceri di massima sicurezza.» Poi aggiunse: «Le gabbie degli zoo... Alla lunga, il grigio rende mansueti».

Il grigio rende mansueti, si ripeté. Lui la considerava una specie di animale a cui placare l’istinto.

Forse il dottor Green si accorse che l’argomento l’aveva rabbuiata. Per distrarla appallottolò il kleenex, si voltò verso il cestino della carta straccia che stava in un angolo, prese la mira e fece canestro. «Sono stato playmaker nella squadra di basket dell’università: modestamente, ero un fenomeno.»

Le strappò un sorriso.

Ma poi lei si accorse che Green, approfittando della sua distrazione, stava nuovamente toccando il moschettone con le chiavi attaccato alla cintura. Ancora una volta quel segnale per comunicare con i poliziotti al di là dello specchio, si disse. Cosa significava? Forse non c’era alcun linguaggio in codice, era solo frutto della sua paranoia.

Il dottore notò che gli era caduto un po’ di tonno sulla camicia blu. «Ora chi la sente mia moglie» borbottò, mentre cercava inutilmente di far sparire la macchia con le dita. «Devo trovare un modo per toglierla» disse alzandosi. «Torno subito.»

Meglio così, pensò. Le scappava la pipì e, anche se aveva il catetere, si vergognava a farla davanti a lui.

«Ti porto anche qualcosa da bere» promise prima di uscire. «Ma tu non perdere la concentrazione, dopo dobbiamo rimetterci al lavoro.»

Rimasta sola, obbedì a Green e continuò a fissare il cuore sul muro. Fu in quel momento che il telefono giallo sul comodino squillò di nuovo.

Ancora una volta, la sensazione paralizzante di terrore.

Ha ragione Green, si disse. È solo qualcuno che ha sbagliato numero. È ridicolo avere paura. Ma c’era solo un modo per scoprirlo.

Rispondere.

Gli squilli riecheggiavano sinistri nella stanza e anche nella sua testa. Voleva solo che smettessero in fretta, ma non accadeva.

Allora si decise. Allungò una mano verso il comodino. La gamba ingessata le ostacolava il movimento, ma riuscì lo stesso a sfiorare la cornetta con le dita. La tirò a sé e l’afferrò, portandosela all’orecchio. Sentirò solo un profondissimo silenzio, immaginò. E dentro quel silenzio si nasconderà un respiro. «Sì?» disse soltanto, e rimase in timorosa attesa.

«Avete dimenticato l’indirizzo» affermò subito una voce maschile.

Non capiva, di sottofondo c’era anche parecchio rumore. Era come aveva detto Green, si trattava di uno sbaglio. Si rasserenò.

«Pronto?» L’uomo dall’altra parte si stava spazientendo.

«Mi scusi, ma non so di cosa parla.»

«Mi serve l’indirizzo» ripeté quello. «Per l’ordinazione.»

Sgranò gli occhi, un fremito l’attraversò come una scossa elettrica.

«La pizza» ribadì l’uomo al telefono. «Dove dobbiamo consegnarla?»

Gettò via la cornetta, come se scottasse. Poi, istintivamente, si voltò verso la parete con lo specchio. Fu molto più di un semplice presentimento. Mentre guardava il proprio riflesso, ebbe la vivida sensazione che dietro si nascondesse un’ombra malvagia che aveva ascoltato il suo racconto.

E con quello scherzo voleva farle sapere che era vicino.

L'uomo del labirinto
9788830450615-cov01.xhtml
9788830450615-presentazione.xhtml
9788830450615-tp01.xhtml
9788830450615-cop01.xhtml
9788830450615-occhiello-libro.xhtml
9788830450615-ded01.xhtml
9788830450615-p-0-c-1.xhtml
9788830450615-p-0-c-2.xhtml
9788830450615-p-0-c-3.xhtml
9788830450615-p-0-c-4.xhtml
9788830450615-p-0-c-5.xhtml
9788830450615-p-0-c-6.xhtml
9788830450615-p-0-c-7.xhtml
9788830450615-p-0-c-8.xhtml
9788830450615-p-0-c-9.xhtml
9788830450615-p-0-c-10.xhtml
9788830450615-p-0-c-11.xhtml
9788830450615-p-0-c-12.xhtml
9788830450615-p-0-c-13.xhtml
9788830450615-p-0-c-14.xhtml
9788830450615-p-0-c-15.xhtml
9788830450615-p-0-c-16.xhtml
9788830450615-p-0-c-17.xhtml
9788830450615-p-0-c-18.xhtml
9788830450615-p-0-c-19.xhtml
9788830450615-p-0-c-20.xhtml
9788830450615-p-0-c-21.xhtml
9788830450615-p-0-c-22.xhtml
9788830450615-p-0-c-23.xhtml
9788830450615-p-0-c-24.xhtml
9788830450615-p-0-c-25.xhtml
9788830450615-p-0-c-26.xhtml
9788830450615-p-0-c-27.xhtml
9788830450615-p-0-c-28.xhtml
9788830450615-p-0-c-29.xhtml
9788830450615-p-0-c-30.xhtml
9788830450615-p-0-c-31.xhtml
9788830450615-p-0-c-32.xhtml
9788830450615-p-0-c-33.xhtml
9788830450615-p-0-c-34.xhtml
9788830450615-p-0-c-35.xhtml
9788830450615-p-0-c-36.xhtml
9788830450615-p-0-c-37.xhtml
9788830450615-p-0-c-38.xhtml
9788830450615-p-0-c-39.xhtml
9788830450615-p-0-c-40.xhtml
9788830450615-p-0-c-41.xhtml
9788830450615-p-0-c-42.xhtml
9788830450615-p-0-c-43.xhtml
9788830450615-p-0-c-44.xhtml
9788830450615-ind01.xhtml
Il_libraio.xhtml