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L’Ambrus Hotel era uno stretto parallelepipedo, incastonato in mezzo a una fila di edifici tutti uguali, nei pressi del ponte della ferrovia.
La struttura era fatiscente e si raccontavano strane storie sul conto dell’albergo. Una di queste era che in una delle stanze la gente spariva nel nulla. A Genko non interessava, l’aveva scelto per andare a morire solo perché era coerente con l’immagine dimessa di sé che aveva sempre offerto al mondo. Nessuno doveva conoscere il vero Bruno Genko – il professionista scrupoloso, il perfezionista, l’uomo con una fortuna nascosta all’estero e che su una parete di casa propria aveva un’opera di Hans Arp.
Ma, soprattutto, nessuno avrebbe mai dovuto avere accesso ai suoi segreti.
Non si trattava di ciò che aveva scoperto nel corso di delicate indagini private: ciò che cercava di nascondere erano i metodi usati per risolvere quei casi. Genko non andava fiero di ciò che era stato costretto a fare.
Digitò la data di nascita di Linda e sbloccò la combinazione. Recuperò la busta e la soppesò con lo sguardo. Non pensava che l’avrebbe più rivista. Ma allora perché non se n’era sbarazzato di persona invece di chiedere all’amica di provvedere dopo che fosse morto? In verità, l’aveva conservata perché sapeva che poteva arrivare un momento simile, in cui era necessario usare ogni strumento – anche illecito – per raggiungere lo scopo. E allora il contenuto del plico gli sarebbe tornato utile.
Lo infilò in una borsa di tela della lavanderia dell’albergo e lasciò subito la stanza.
Una volta a casa, compì il solito rituale di togliersi i vestiti nell’ingresso, senza mai perdere di vista la borsa momentaneamente appoggiata sul pavimento. Aveva paura, perché in fondo aveva giurato a se stesso di non scendere più a patti col demonio.
Grondava sudore e avrebbe fatto volentieri una doccia, invece s’infilò una tuta da ginnastica e andò a sedersi davanti al terminale dello studio. Niente musica classica stavolta, e l’opera dadaista sulla parete di fronte alla scrivania non aveva più il potere di risollevarlo.
Tolse i sigilli al plico, lo aprì con l’aiuto di un tagliacarte. Poi estrasse una scatolina argentata. Con un cavo usb la collegò al MacBook Air. Infine, si connesse a Internet.
L’oggetto che aveva nascosto all’Ambrus Hotel apriva un passaggio segreto.
In anni di professione, Bruno Genko aveva imparato che esistono posti sulla faccia della terra in cui le regole – tutte le regole, senza distinzioni – sono sospese a tempo indeterminato. Luoghi in cui il male prospera senza ostacoli e la natura segreta degli uomini può liberarsi senza incontrare limiti. In questi deserti di egoismo, la vita e la morte hanno un valore relativo e la sofferenza altrui diventa merce di scambio.
Uno di questi luoghi era il deep web – l’Internet oscuro dentro Internet, la rete sotto la rete, la terra di nessuno. Grazie ai bitcoin, la moneta elettronica riconosciuta soltanto online, si poteva vendere e comprare qualsiasi cosa: armi, droga, dati, perfino le persone.
Donne e bambini erano gli articoli più apprezzati.
Il deep web funzionava esattamente come l’Internet ufficiale. C’erano motori di ricerca come Dark Tor e Ahmia. Oppure Grams, il cui aspetto grafico ricalcava perfettamente quello di Google. Si potevano usare per orientarsi fra i siti che offrivano beni o servizi – una pistola con la matricola abrasa, ma anche la mano che avrebbe premuto il grilletto. C’erano blog che spiegavano come assemblare una bomba sporca con articoli da supermercato e video-tutorial che mostravano come violentare una donna senza lasciare tracce.
Per Bruno Genko, il deep web era soprattutto un luogo perfetto per la compravendita di informazioni. La trattativa non aveva niente di sofisticato, somigliava molto a un mercatino della domenica in cui però alcuni utenti mettevano in vendita i dati sensibili in loro possesso.
La professione di Bruno si basava sulla capacità di scovare notizie che avessero un’utilità o un valore. Per ottenerle, solitamente, un bravo investigatore privato si sottoponeva a infinite e spesso noiose battute di ricerca. Si trattava di andare per strada, parlare con la gente, filtrare ogni dato e verificarne l’attendibilità. Era un processo lungo e laborioso. Ma, a volte, il tempo a disposizione per chiudere un’indagine era così esiguo e la posta in gioco così elevata da richiedere una scorciatoia.
Bruno era un investigatore all’antica, si serviva di confidenti collaudati e diffondeva notizie manipolate ad arte per ottenere in cambio informazioni depurate. Perciò, il deep web non era il suo territorio. Non si sentiva a proprio agio quando doveva mettere piede nel lato oscuro della rete. Per anni aveva semplicemente osservato quell’universo parallelo senza mai rivelarsi. Così, aveva potuto fare un lungo apprendistato, impararne il funzionamento e cautelarsi da possibili pericoli. E, prima di muovere i primi passi, si era anche imposto un codice. Constava di una sola regola.
Nel deep web nessuno è al sicuro.
Se lo ripeté anche in quel momento, mentre al centro della schermata nera appariva un cronometro con un conto alla rovescia. L’accesso non era immediato, bensì condizionato da una serie di passaggi. Per prima cosa, come quando si progetta un viaggio in un paese sconosciuto, era sempre meglio proteggersi. I vaccini usati sul web erano potenti antivirus e firewall. Dopo aver creato le barriere, il navigatore doveva sottoporsi al controllo degli altri utenti. Se non veniva ritenuto abbastanza «affidabile», veniva espulso come un corpo estraneo.
Nel corso degli anni, Bruno aveva creato diverse identità per muoversi agevolmente nelle tenebre del cyberspazio. Ogni volta che avvertiva che qualcosa non andava, bruciava quella che stava usando e passava alla successiva. Poteva trattarsi anche di una semplice sensazione, ma era sufficiente.
Finalmente, il cronometro terminò la scansione e apparve una barra centrale in cui Genko digitò il nome di un sito. Ovviamente, anche nel deep web c’erano i social network. E su HOL – Hell On-Line – si poteva incontrare un’umanità variamente maledetta.
Genko sperava di trovarci Bunny.
In altre circostanze, avrebbe usato il proprio tempo per dare la caccia a Robin Sullivan nel mondo reale. Ma visto che il suo tempo stava per terminare, avrebbe cercato lì l’alter ego del rapitore.
Un «sadico consolatore» rammentò, facendo propria la definizione riferita da Delacroix. Un «figlio del buio», l’aveva chiamato Tamitria Wilson. Due espressioni che designavano la stessa cosa, cioè che Robin Sullivan non era padrone della propria natura perversa, era schiavo della propria ossessione. Altrimenti non avrebbe avuto la perseveranza necessaria a prolungare un sequestro di persona per così tanto tempo.
È organizzato, si disse. Socialmente integrato, perciò insospettabile. Noi vediamo il mostro, ma sotto le inquietanti sembianze di Bunny c’è un essere umano.
Un uomo con due maschere.
La prima – il coniglio – era solo uno scherzo, una menzogna. La seconda – la sua faccia – era la vera maschera, perché celava al mondo intorno a lui la sua autentica natura.
Bunny mi ha lasciato andare, si disse ricordando l’esperienza vissuta alla fattoria dei Wilson. Forse perché ha ancora voglia di darmi la caccia.
HOL era il luogo giusto per capire se era proprio così. Genko scelse un nickname e aprì un nuovo profilo, accreditandosi come amante del bondage e corredando la propria pagina con immagini inequivocabili.
Poi iniziò a interagire con il social.
I maniaci che lo frequentavano si scambiavano perlopiù pornografia estrema. Era il posto adatto per rivelare le fantasie più malate e per dare sfogo alle peggiori perversioni. Erano rappresentate tutte le parafilie. I più acclamati erano gli stupratori che annunciavano preventivamente le proprie gesta e subito dopo postavano i video delle imprese per raccogliere commenti entusiastici e like dalla community. Si poteva incontrare ogni genere di psicopatico. Dai necrofili ai «parassiti», che seguivano gente comune, del tutto ignara, e poi condividevano le foto rubate. Spesso, in questo modo, erano loro a fornire i cosiddetti «target» a gruppi di utenti che si riunivano per andare a picchiare un incolpevole padre di famiglia all’uscita dal proprio ufficio oppure a violentare un’ignara studentessa sola in casa di notte.
Negli ultimi giorni, l’argomento di discussione preferito su HOL era Samantha Andretti.
Inneggiavano al suo rapitore, lo definivano «eroe» e lo ringraziavano per aver «dato l’esempio». E le volgarità sul conto della vittima del sequestro si sprecavano, qualcuno addirittura proponeva di introdursi nell’ospedale in cui si trovava per «portare a termine il lavoro».
Bruno provò ribrezzo per esseri tanto immondi, che sperperavano la sacralità della vita altrui, oltre che della propria. Li immaginò condurre esistenze normali. Chissà se avevano ancora i genitori oppure avevano messo al mondo dei figli. Chissà cosa avrebbero pensato i loro cari se avessero conosciuto la verità. E cosa vi accadrà quando, come me, vi troverete alla fine del vostro tempo? Quale sarà il vostro atteggiamento al cospetto della morte? Vi porterete nella tomba anche il mostro che alberga in voi, ma non sapete ancora che sarà solo lui a farvi compagnia per il resto dell’eternità.
Genko scacciò via quei pensieri, non doveva deconcentrarsi. E tornò a immergersi nel buio torbido che lo chiamava dallo schermo. Era venuto il momento di gettare l’esca: digitò un messaggio rivolto ai compagni dell’inferno.
«Cerco Bunny, un simpatico coniglietto con gli occhi a forma di cuore. Pago bene ogni genere di notizia, anche indiscrezioni. Chi sa qualcosa mi contatti in privato.»
Aveva usato riferimenti che solo chi aveva una conoscenza diretta dei fatti poteva cogliere. Partiva dall’idea che i mostri come Robin Sullivan non si accontentassero di vivere la loro esperienza in segreto, ma che a un certo punto cercassero un palcoscenico per vantarsi del proprio «lavoro». Hell On-Line era perfetto allo scopo.
Se si è confidato con qualcuno, la cosa verrà fuori. Poi Genko si osservò le mani ancora in bilico sulla tastiera del Mac. Tremavano visibilmente. È la stanchezza, devo dormire.
Approfittando del fatto che la notte era ancora lontana e che, comunque, non aveva altra scelta che aspettare una risposta dal deep web, si recò in camera sua e si lasciò cadere sul letto. Si portò le mani al torace, chiuse gli occhi e si concentrò sulle pulsazioni del proprio cuore.
Quanti battiti mi rimangono?
Ma prima di immaginare una possibile risposta, si addormentò.
Un suono lontano iniziò a dissolvere l’oscurità – una goccia bianca in un oceano di acqua nera e densa. Lentamente, Genko riemerse dal sonno. Per un attimo, gli sembrò di aver sognato.
Ma il suono esisteva davvero. Forse era un canto.
Non era abituato a sentire voci umane in quella casa. Solo musica classica, e silenzio. Soprattutto, non era una voce come le altre. Apparteneva a una donna. E, a pensarci bene, non era nemmeno un canto.
Anche se a tratti risultava melodioso, era un lamento.
Bruno si alzò dal letto, ancora stordito. Che ora era? Fuori era già buio. Una terribile emicrania gli impediva di pensare. Era disidratato ed era tornata la nausea. Però si costrinse ad andare alla ricerca della fonte del suono misterioso.
Proveniva dallo studio. Più precisamente, dal computer.
Intorno al Mac c’era come una bolla di luce tenue, prodotta dallo schermo. Genko trascinò le gambe pesanti per andare a vedere.
Si sedette al tavolo e si accorse subito che nella pagina del suo profilo su Hell On-Line era cambiato qualcosa. Sotto al messaggio pubblicato qualche ora prima era apparsa una finestrella in cui si muovevano delle figure. Allargò le proporzioni del riquadro e alzò il volume.
Era un video pornografico.
La telecamera, però, riprendeva la scena da una strana angolatura. Nella stanza, immersa nella penombra, si distinguevano solo parti di due corpi nudi. Il canto o lamento che aveva sentito poco prima altro non era che il ripetuto gemito di piacere di una donna.
Era prona e il partner, che si intravedeva appena, la penetrava standole dietro.
Genko non diede molto peso alle immagini e pensò che il filmato fosse partito accidentalmente. Stava per chiudere la schermata, ma si bloccò perché aveva notato qualcosa. L’ombra sul muro alle spalle di lei non era umana.
Sembrava proprio quella di un coniglio gigante.
Genko non immaginava che Bunny apparisse di persona. Ma non capiva nemmeno cosa stesse guardando in realtà. Che senso aveva quel video? Cosa gli voleva mostrare?
I gemiti aumentarono di intensità, lei stava per giungere all’apice del piacere. Una mano femminile apparve all’improvviso in primo piano e spinse inavvertitamente la telecamera che cadde per terra. Nonostante questo, però, continuava a filmare la scena da quella posizione.
Genko cercava di cogliere altri particolari del video, sarebbe stato utile scoprire dove era stato girato. C’erano degli elementi sullo sfondo dell’inquadratura, ma non erano nitidi. L’investigatore privato si sforzò di capire cosa fossero. Ingrandì la visualizzazione. Sembravano animali. Forse dei cani. E guardavano la scena. È assurdo, pensò. No, non erano cani ma cavalli.
Bruno avvertì un gelo improvviso. Si era sbagliato ancora.
Erano unicorni.
La sua mano si allungò spontaneamente verso il telefono della scrivania, ma le dita rimasero sospese sulla tastiera.
Il numero di Linda è nella rubrica del cellulare. Lui me l’ha preso. È così che l’ha trovata.
Ma non era il momento di pensarci, doveva sapere se Linda stava bene. Nel deep web nessuno è al sicuro. Scavò nella memoria alla ricerca di quel maledetto numero. Una alla volta, le cifre iniziarono ad affiorare. Cominciò a digitarle, ma la sua mente continuava a incepparsi. Allora riattaccava e ricominciava da capo. Nel deep web nessuno è al sicuro. Pensaci, è come una filastrocca: numeri in fila che ormai hanno un proprio ritmo. Esitò sulle ultime due cifre. Erano un 7 e un 4. Le inserì e attese. Trascorsero attimi infiniti.
Il video di Bunny continuava a scorrere davanti ai suoi occhi. Dall’altro capo, il telefono cominciò a suonare libero. Ciò che sconvolse Bruno Genko fu sentire gli squilli nell’audio del computer che aveva davanti.
Non si trattava di un filmato registrato.
Era in diretta.
Il suono sembrò ridestare l’uomo-coniglio. La ripresa s’interruppe bruscamente. Nell’ultima, fugace inquadratura, Bruno vide apparire la lama luccicante di un coltello.