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«Ho una notizia grandiosa» annunciò Green, rientrando nella stanza. «Siamo riusciti a prenderlo: il tuo rapitore è stato arrestato!»

Finse di essere ammutolita per la sorpresa. In realtà era la paura che le impediva di reagire. Pregò che lui non lo notasse. «Come è successo?»

«Purtroppo non posso ancora condividere i particolari con te, ma sappi che non ce l’avremmo mai fatta senza il tuo aiuto.» Sembrava euforico. «Puoi essere fiera di te.»

«Perciò abbiamo terminato?»

«Sì, cara» disse l’altro, recuperando la giacca dalla spalliera della sedia. «Tuo padre è arrivato in ospedale» aggiunse. «Abbiamo fatto una chiacchierata: gli ho spiegato che per te non è facile incontrarlo subito, ma ha detto che attenderà finché non sarai pronta per parlare con lui.»

«Lei dove andrà invece, dottor Green?»

Le sorrise. «Me ne tornerò a casa, ma prometto che verrò a trovarti presto.»

«Ha una bella casa?»

«E anche un bel mutuo, se è per questo.»

«Come si chiama sua moglie?» Si accorse subito che la domanda l’aveva colto alla sprovvista.

«Adriana» rispose lui dopo una breve esitazione.

Chissà se era vero, pensò. «Avete figli?»

La fissò interdetto. «Sì» disse soltanto.

«E qual è il loro nome?»

«Come mai ti incuriosisce tanto la mia vita?» Rise ancora, ma era in imbarazzo. «Non sono poi così interessante, sai?»

«Voglio sapere» disse lei, per nulla intimorita.

Allora l’uomo riappoggiò la giacca alla spalliera e si rimise a sedere al proprio posto. Improvvisamente, non aveva più premura di andar via. «Johanna è la più grande, ha trentasei anni. Poi c’è George, trentaquattro. Infine il più piccolo, Marco, che ne ha ventitré.»

Annuì, come se ne prendesse atto. Ma ancora non le bastava. «Cosa fanno?»

«Marco studia all’università, gli mancano tre esami per laurearsi in legge. George ha fondato una piccola società di servizi informatici insieme a un paio di amici. Johanna si è sposata l’anno scorso, fa l’agente immobiliare.»

Scrutava il volto dell’uomo per capire se stava recitando. No: è tutto vero, si disse. «Come ha conosciuto sua moglie?»

«Al liceo» disse con tono neutro. «Stiamo insieme da più di quarant’anni.»

«È stato difficile conquistarla?»

«Corteggiavo la sua migliore amica, è stata lei a presentarci. Dopo averla vista per la prima volta, le ho dato il tormento finché non ha accettato di uscire con me.»

La fissava intensamente, ma lei non distoglieva lo sguardo. «Le ha chiesto subito di sposarla?»

«Dopo un mese.»

«Con un anello?»

«Non potevo permettermelo, gliel’ho domandato e basta.»

«Cosa c’è nella mia flebo?»

«Un farmaco psicotico.»

«I miei ricordi sono reali?»

«In parte sì, gli altri sono allucinazioni indotte.»

«Da quanto tempo sono qui?»

«Quasi un anno.»

«Perché mi ha fatto credere di essere Samantha Andretti?»

«È un gioco.»

«Chi è lei?»

L’altro non rispose.

Lo inchiodò con uno sguardo di sfida. «Chi sono io?» gli domandò.

L’uomo le sorrise, ma adesso nella sua espressione c’era qualcosa di diverso. La dolcezza del dottor Green era svanita.

«Mi dispiace» disse lei. «Stavolta ho vinto io.»

Il mostro trasse un profondo respiro. «Complimenti, sei stata in gamba.»

«Che succederà adesso?»

«Ciò che succede sempre» affermò l’altro, poi frugò nella tasca della giacca ed estrasse una piccola siringa già pronta per l’uso. «Ti inietterò un po’ di questo, dormirai tranquilla. Al risveglio, non ricorderai più nulla.»

«Quante volte abbiamo già fatto questo gioco?»

«Innumerevoli» disse. E sorrise. «È il nostro preferito.»

L’uomo si avvicinò al letto. Lei tese il braccio destro, per fargli capire che era pronta. «Facciamola finita.» È un miserabile, solo un miserabile – rammentò.

Mentre si accingeva a farle l’iniezione, lei allungò la mano sinistra e, repentinamente, afferrò l’asta della flebo. La tirò a sé con forza e la boccia precipitò sulla nuca del falso profiler, infrangendosi in mille pezzi.

L’uomo le lasciò andare il braccio e scivolò a peso morto dal letto al pavimento. Era stordito ma non aveva perso i sensi. Lei capì di avere poco tempo, perché presto il mostro avrebbe ritrovato la lucidità e sarebbe tornato alla carica.

Si lasciò cadere su di lui e gli sfilò dalla cintura il moschettone con le chiavi del labirinto. Quindi lo scavalcò e puntò l’uscita. Ancora senza fiato e con la gola in fiamme, si lanciò verso la porta. La gamba ingessata era una zavorra. Ma doveva farcela – doveva. Un passo alla volta, ma con quel peso la distanza che la separava dalla soglia sembrava allungarsi. Ogni tanto si voltava per controllare la situazione.

Il vigliacco si stava riprendendo. All’inizio, si portò semplicemente una mano alla testa. Poi si accorse delle chiavi e tutto gli fu chiaro. Il mite dottor Green era scomparso, ora l’odio grondava come cera dal suo volto.

Lo vide rialzarsi, pronto a gettarsi su di lei come una belva rabbiosa. Il mostro fece un balzo. I palmi delle mani la schiaffeggiarono, ma non riuscirono ad afferrarle la camicia da notte. Al secondo tentativo, non sarebbe stata così fortunata.

Giunse davanti alla porta di ferro che lui aveva dipinto di bianco per farla sembrare quella di una stanza d’ospedale, la aprì più velocemente che poté.

Varcò la soglia e tirò a sé la maniglia.

Il tempo infinitesimamente breve in cui l’uscio si richiudeva si dilatò, rallentando ogni gesto. Le sembrò di vivere un déjà-vu, come con la ragazza che lui aveva mandato per ucciderla – chissà se era reale oppure un altro delirio chimico. Mentre l’azione si compiva, inesorabile, catalogò sul volto del mostro una serie di espressioni che andavano dalla collera allo sdegno, fino all’assoluta meraviglia.

Con le mani che tremavano, lei andò alla ricerca della chiave. Ne provò un paio, ma erano almeno una ventina. Non ce la farò mai. E rischiò persino che il moschettone le scivolasse per terra. Al quarto tentativo, sentì la serratura che girava.

Una, due, tre mandate.

Dall’interno, qualcosa si abbatté violentemente sulla porta. Era lui che cercava di liberarsi. Lo sentì urlare e percuotere il ferro, ebbe paura che alla fine ce la facesse ma decise di ignorarlo e cominciò la sua ricerca, perché era sicura che la salvezza fosse sempre stata vicina.

Col mazzo di chiavi, testò tutte le serrature. E dopo una serie di stanze vuote, ne trovò una con una scala arrugginita che conduceva in alto, fino a una botola.

Per salire, però, doveva liberarsi del gesso alla gamba. Cominciò a prendere a calci il battente della porta di ferro, finché non riuscì ad aprire delle crepe. Le allargò con le dita, strappandoselo via pezzo dopo pezzo.

Poi si arrampicò senza sapere cosa avrebbe trovato dall’altra parte. Forse perfino un altro labirinto – dopo ciò che aveva vissuto, non era più sicura di niente.

Arrivata in cima ai gradini, girò con entrambe le mani una specie di valvola di sicurezza che chiudeva il tombino. Ci volle molta energia per sollevarlo di pochissimo. Ma appena ci riuscì, fu ricompensata con una folata di aria fredda che si accompagnava alla pallida luce del giorno. Spinse più forte che poteva e il coperchio della botola ricadde all’esterno con un clangore metallico.

Si tirò su e cercò di capire dove fosse.

Sopra di lei, il rudere di un mulino abbandonato e le rovine di un incendio. Intorno a lei, un paesaggio di boschi innevati che si perdeva a vista d’occhio.

Non un suono, non una presenza umana o animale. Nessun punto di riferimento. Per quanto ne sapeva, quel luogo poteva essere ovunque. Come faceva il mostro ogni volta ad arrivare fin lì? Aveva immaginato di trovare un’auto. La parcheggia lontano da qui – è prudente. Non sapeva neanche dove fosse – o se ci fosse – una strada. Indossava solo una camicia leggera ed era scalza. Non riuscirò a sopravvivere a lungo con questa temperatura, si disse. Se non trovo aiuto, quando giungerà la notte morirò assiderata. L’alternativa era tornare di sotto e prepararsi meglio alla spedizione o addirittura rimandarla a quando fosse stata abbastanza in forze.

Ma voleva solo andarsene di lì al più presto. Costi quel che costi.

Prima di incamminarsi, però, rialzò il coperchio di ferro. Nel buco sotto di lei riecheggiavano ancora le grida dell’uomo del labirinto. Lasciò ricadere pesantemente il portello sulla botola. Il rumore si disperse rapidamente nell’aria. Il mostro aveva ricevuto il destino che meritava.

Sepolto vivo.

A quel punto s’incamminò nella neve che le arrivava ai polpacci. Aveva freddo, ma si sentiva libera. Capì che la condizione disagevole per il corpo aveva invece un effetto benefico sulla mente, perché all’improvviso tornarono frammenti di ricordi.

La cicatrice sulla pancia: sono madre di una bambina, ma non ho mai partorito nel labirinto. Lei è a casa, al sicuro.

Il mostro non mi ha rapita: sono stata io a cercare lui.

Faccio la poliziotta e sono in servizio al Limbo. Mi chiamo María Elena Vasquez.

Ma da sempre il mio nome è Mila.

L'uomo del labirinto
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