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Si era lasciato il Duran alle spalle appena in tempo per assistere all’inizio del blitz delle teste di cuoio nel retrovisore della Saab.
Non aveva neanche raggiunto la periferia della città, e già la radio stava dando la notizia dell’arresto di un primo sospettato nel caso del rapimento di Samantha Andretti. Genko guidava e continuava a ripensare a ciò che era avvenuto nel locale. Era ancora incredulo per la storia dell’uomo con la testa di coniglio.
«Ancora non sappiamo su quali basi Tom Creedy sia stato fermato» disse lo speaker. «In questo momento lo stanno conducendo in una località segreta dove presto sarà interrogato dalla polizia.»
Il ragazzo si chiamava Tom Creedy. Se la prenderanno con lui, pensò. Era il candidato perfetto per distrarre i media e l’opinione pubblica dalla caccia al vero rapitore. E se avessero fallito, sarebbe stato solo il bracconiere a pagare.
Ma se Tom avesse raccontato anche a Bauer e Delacroix la storia dell’uomo-coniglio, allora forse avrebbe potuto cavarsela con l’infermità mentale. Genko immaginò la faccia dei due poliziotti quando avrebbero scoperto che non potevano usare il poveraccio come capro espiatorio, e gli venne da ridere.
La risata fu soffocata da un accesso di tosse. Avvertì un peso improvviso sullo sterno. La Saab sbandò pericolosamente e invase l’altra corsia mentre sopraggiungeva un’altra auto. Genko riuscì a correggere la traiettoria appena in tempo. Quando credette che fosse giunta la fine, il dolore cessò di colpo così come era arrivato.
Capì che si era trattato di un campanello d’allarme. Il suo cuore voleva rammentargli di risparmiarsi. Ma risparmiarsi per cosa? La polizia possedeva i mezzi e le risorse per indagare più a fondo. La sua ricerca, invece, era inevitabilmente limitata. E l’unica pista che aveva finiva con Tom Creedy e le sue inutili visioni.
Provò un immenso senso di vuoto e di sconforto. Non aveva più uno scopo. Gli restava solo morire.
Giunse in città verso l’una del mattino. Le strade erano intasate dal traffico. La gente, che per colpa del caldo ormai viveva soltanto di notte, si era riversata per le vie in cerca di svago. Poi c’erano quelli che lavoravano: i grattacieli che ospitavano gli uffici erano illuminati, all’interno spiccava il viavai di persone operose.
Genko considerò che tutti avevano qualcosa da fare, tranne lui. E poi non sapeva dove andare. Poteva tornare da Quimby al Q-Bar e provare a distrarsi o a chiacchierare con qualcuno davanti a un bicchiere. Oppure poteva rintanarsi nella camera 115 dell’Ambrus Hotel, distendersi sul copriletto macchiato e attendere qualcosa – il sonno, o forse la morte. E poi c’era sempre l’appartamento di Linda. In mezzo ai suoi unicorni avrebbe trovato calore umano, ma ormai il rapporto con lei era contaminato dalla tristezza e lui non voleva sentirsi triste. Non quella notte. Voleva un giorno qualsiasi della sua vecchia vita, un giorno come tanti, di quelli che dimentichi il mattino dopo. Un giorno banale, in cui ti scordi di essere vivo. Quante ne aveva avute di giornate così? Da accantonare nel passato senza domandarsi se fossero servite a qualcosa. Eppure, erano le più desiderabili in quel momento. Se avesse potuto rivivere un solo giorno della sua precedente esistenza, non avrebbe scelto il più bello, ma il più normale.
Voglio tornare a casa, si disse. Perché non gli fregava più niente del fatto che poi qualcuno trovasse il suo cadavere.
Come al solito, parcheggiò la Saab a due isolati di distanza. Poi proseguì a piedi, controllando di non essere seguito – un accorgimento che negli anni si era rivelato necessario: nessuno doveva sapere dove abitava.
La zona era a ridosso del centro, conservava un fascino legato al passato ma non era ancora stata scoperta dai nuovi ricchi. Il loro denaro avrebbe sicuramente ripulito le strade dalla feccia che le popolava, ma per il momento gli unici soldi che giravano erano legati allo spaccio di sostanze stupefacenti.
Genko raggiunse il palazzo in cui viveva da quasi vent’anni e dovette subito scansare un senzatetto ubriaco per entrare nel portone. Siccome l’ascensore si bloccava in continuazione, salì le scale. Si sentiva improvvisamente spossato. Ogni cinque o sei gradini, il caldo asfissiante lo costringeva a fermarsi per riprendere fiato.
A ogni piano c’erano liti e baccano. Per fortuna i suoi vicini preferivano scannarsi nel chiuso delle loro abitazioni. Ogni tanto arrivava la polizia e si portava via qualcuno, ma tutto sommato quello era il posto perfetto per nascondersi.
Arrivato sul pianerottolo del quarto piano, Bruno infilò la chiave nella toppa. Entrò e chiuse rapidamente l’uscio alle proprie spalle. Rimase per qualche secondo immobile, al buio, a godersi la fresca accoglienza dell’aria condizionata programmata per attivarsi a orari precisi. Inspirò profondamente e si lasciò pervadere dall’odore di casa.
Odore di ordine, e di pulito.
Accese la luce e a quel punto gli apparvero i pochi mobili che arredavano il soggiorno. L’essenziale, niente di più. Un divano, un televisore, un tavolo per mangiare. La cucina era a vista e ogni cosa collocata in modo appropriato – gli utensili, la macchina dell’espresso, un estrattore con accanto una coppa per la frutta e la verdura. Le provviste erano disposte sui ripiani, il frigorifero era pieno.
Prima di proseguire, Genko si sfilò le scarpe, i vestiti e la biancheria, fino a rimanere completamente nudo. Poi appese il completo di lino sgualcito e la camicia che puzzava di sudore a una gruccia che mise in un porta-abiti, richiudendo il tutto con una zip, e lo agganciò a un attaccapanni.
Camminando scalzo sul parquet, entrò in camera da letto. Nella stanza, teneva anche gli attrezzi ginnici – un tapis roulant e una panca con i pesi e i bilancieri. Non vedeva l’ora di distendersi sul largo materasso ortopedico, fra le lenzuola fresche di bucato. Ma prima andò in bagno per infilarsi sotto la doccia.
Fuori di casa ostentava trasandatezza e sciatteria, ma fra quelle mura Genko si riconciliava con la sua vera indole.
La prima regola del mestiere di investigatore privato non era passare inosservati, anzi tutt’altro. L’apparenza era fondamentale, perché l’attenzione degli estranei doveva concentrarsi sugli abiti stazzonati che puzzavano di sudore e nicotina, sulla barba ispida e incolta. In realtà, l’aspetto dimesso era un’armatura. Perché gli altri dovevano accontentarsi della superficie. Vedendo solo un miserabile, di solito si credevano più furbi e, inevitabilmente, abbassavano la guardia.
Simulare, era quello il trucco.
Mentre l’acqua calda della doccia lavava via il sudore e la fatica, Bruno chiuse gli occhi e provò a riappacificarsi con le proprie inquietudini. Ho fallito una seconda volta, si disse. Dopo quindici anni, il pensiero di Samantha Andretti era tornato soltanto per tormentarlo. Perché proprio adesso? Si era scordato di lei, l’aveva sepolta insieme agli altri casi irrisolti nel box della «casa delle cose». Sarebbe bastato che fosse riapparsa una settimana dopo e lui, molto probabilmente, non l’avrebbe mai saputo. Che stupido era stato a pensare di poter aggiustare le cose. In fondo, che cosa avrebbe potuto fare? Catturare il mostro? E a cosa sarebbe servito?
Non a Samantha, che non aveva avuto certo bisogno di lui per salvarsi. Ci era riuscita da sola.
Ma davvero credeva che trovare il rapitore l’avrebbe assolto dalle proprie colpe verso di lei? Perché ciò che più gli rodeva, in quel momento, era che, in fondo, si era reso complice di quel bastardo. Quando i genitori di Sam erano andati da lui per chiedergli aiuto, avrebbe dovuto rifiutare. E invece, aveva accettato l’incarico. Aveva intascato i loro soldi ed era stato severo con loro. «Mi pagherete il doppio della tariffa normale e in anticipo. Non mi chiamerete per domandarmi come procedono le indagini, non avrò alcun obbligo di aggiornarvi puntualmente. Sarò io a cercarvi quando sarò pronto a comunicarvi qualcosa. Se non mi farò vivo entro un mese, allora saprete che non ho trovato nulla.»
In realtà, fin dall’inizio Genko non aveva nutrito speranze di risolvere il mistero della sparizione. Perché, allora, aveva mentito? Era soltanto una delle assurde prove di autodisciplina a cui sottoponeva la propria forza di volontà e, a volte, la propria anima? Se fosse riuscito a spogliarsi della pietà per una ragazzina di tredici anni e per i suoi imploranti genitori, allora l’esame poteva ritenersi superato? Era tutta lì la verità? Cercava solo un altro trofeo per il proprio maledetto autocontrollo?
Aprì gli occhi, deciso a tirare un pugno alle mattonelle della doccia. Ma si fermò. No, si disse. È l’esatto contrario.
Non ho creduto al caso. Questa è la mia unica colpa.
È vero: avrei dovuto rifiutare l’incarico, ma non sono riuscito a razionalizzare. Ho fatto abbastanza quindici anni fa? Non lo so. Ora non posso fare più nulla. È troppo tardi?
Un uomo con la testa di coniglio era la risposta beffarda che meritava.
Avrebbe voluto riderne con qualcuno – Dio, come sarebbe stato bello portare qualcuno lì quella sera. Una donna, un amico. Invece, nessuno aveva mai messo piede in quella casa. Non era un rimpianto, aveva dovuto fare delle scelte.
La solitudine potenzia la percezione delle cose, rammentò a se stesso.
Nel suo lavoro era essenziale possedere quasi un sesto senso. Entrare nella testa delle persone. Ma per pensare i pensieri di qualcun altro bisognava essere sempre concentrati. E la famiglia, gli amici, erano pericolose distrazioni.
Tornò in camera da letto e finì di asciugarsi davanti allo specchio. Sul suo corpo erano evidenti i segni di un rapido dimagrimento. I muscoli scolpiti dai lunghi allenamenti quotidiani stavano sparendo in fretta. Quando non recitava la parte dell’investigatore privato con l’aura maledetta, Bruno non beveva né fumava, e si atteneva a una dieta ferrea. Ciò non aveva impedito che il suo fisico si ammalasse, ma certamente tanta abnegazione l’aveva portato a essere uno dei migliori nel suo campo.
Il mio campo è la caccia. E l’animale più difficile da cacciare è l’uomo.
Bruno lo ripeté davanti allo specchio, come a volersi convincere che la sua era quasi una missione.
Per riuscire a catturare un uomo bisognava possedere doti particolarmente affinate. Ingegno, spirito di osservazione, sapiente uso della tecnologia, prontezza di riflessi, calma, resistenza allo stress e coraggio.
Soprattutto, occorreva una profonda comprensione della natura umana.
Debitori incalliti, piccoli o grandi truffatori, criminali informatici, ladri professionisti. Erano queste le sue prede. Per catturarle e assicurarsi che pagassero quanto dovevano o restituissero il maltolto, Bruno Genko riceveva generose parcelle da importanti società private. Denaro che aveva occultato in conti bancari all’estero, con l’idea di spenderlo una volta dismessi i panni lerci che indossava da sempre.
Tuttavia, aveva rimandato troppo quel momento.
La cosa più triste era che nessun altro avrebbe potuto godere delle sue ricchezze. Certo, poteva darle in beneficenza o lasciare tutto a Linda. Ma a quel punto sarebbero emerse anche le cose che aveva dovuto fare per guadagnare quei soldi. Raggiri, inganni, compromessi e sotterfugi di cui non andava fiero. E poi, se qualcuno si fosse interrogato sulla provenienza del denaro, avrebbe messo a rischio la privacy dei suoi clienti.
Meglio lasciare le cose come stanno, si disse.
Alla sua morte, i conti sarebbero diventati «dormienti», come si diceva in gergo. E, trascorso un certo numero di anni, la banca sarebbe entrata in possesso delle somme.
Adesso l’unica eredità che poteva lasciare era un mostro. E la destinataria del lascito era un’ex ragazzina di tredici anni di nome Samantha Andretti.
Il plico nella cassaforte dell’Ambrus Hotel poteva cambiare qualcosa? Il contenuto del pacco era troppo pericoloso. Allora perché non l’aveva distrutto subito? Perché aveva chiesto a Linda di farlo?
Conosceva la risposta, ma preferì ignorarla.
Scostò il lenzuolo, si sedette sul letto dal lato in cui dormiva di solito. Prima di coricarsi, aprì il cassetto del comodino. C’erano tre flaconi arancioni di pillole. Erano parte della terapia palliativa che il medico gli aveva prescritto «per facilitare le cose» – così aveva detto. In sostanza, si trattava di antidepressivi. Bruno aprì uno dei flaconi e fece scivolare un paio di pillole rosa sul palmo della mano. Si bloccò un momento, poi decise di aumentare la dose e le pillole divennero cinque. Non aveva intenzione di suicidarsi – anche perché con quei farmaci non ci sarebbe riuscito. Ma non c’era niente di male a dare un piccolo aiuto alla morte. Si versò un bicchiere d’acqua dalla brocca che stava sul comodino ma, prima di mandare giù tutto, ripensò a Samantha Andretti.
Era salva. Anzi – come si era detto prima – si era salvata da sola. Ma come aveva fatto a evadere dalla prigione?
Era improbabile che fosse riuscita a sopraffare il rapitore, quindici anni di sevizie e privazioni dovevano aver minato per forza il suo fisico. Tant’è che forse è bastata una corsa nel bosco a procurarle una frattura, rifletté. Allora aveva ingannato il carceriere? O aveva approfittato di una distrazione? Forse, il mostro dopo tanto tempo si sentiva troppo sicuro di sé e lei aveva colto il momento giusto per fuggire.
Ma l’idea non lo convinceva ancora. Mancava qualcosa alla ricostruzione.
Provò a figurarsi la scena di lei che scappava fra gli alberi, inseguita dal carceriere. Per un attimo gli tornò in mente l’immagine irrazionale del rapitore con la testa di coniglio, ma la scacciò via subito. Sam era nuda. Perché era nuda? Nella corsa disperata verso un’improbabile salvezza, la donna era caduta e si era rotta una gamba. Forse era riuscita a trascinarsi dal bosco fino alla strada. Che vantaggio aveva sull’inseguitore? Mentre era lì, incapace di muoversi, Sam aveva sperato – pregato – che passasse qualcuno. Ma non arrivava nessuno. E il rapitore presto l’avrebbe raggiunta.
Però poi la donna aveva sentito qualcosa: un rumore in lontananza, un suono familiare. Il motore di un veicolo in avvicinamento. Aveva visto apparire i fari del pick-up, si era sbracciata per farsi notare. Probabilmente, aveva scorto l’espressione di stupore sul volto del guidatore. Aveva temuto che, invece di fermarsi, potesse accelerare e lasciarla lì. Sarebbe stata una beffa insopportabile.
Ma il veicolo si era fermato. Ne era sceso un ragazzo con il volto sfigurato. Un mostro che, però, non sembrava un mostro. Si era illusa che volesse aiutarla, portarla via da lì – svegliarla dall’incubo. Invece il ragazzo si era accorto che qualcuno stava arrivando dal bosco. «Ho capito che stava cercando la donna. Quando anche lui ci ha visto, si è bloccato.» Così aveva detto Tom. «È rimasto fermo lì. E ci fissava. Mi ha fatto gelare il sangue...» Sam aveva scorto un terrore familiare nello sguardo del suo salvatore – Genko ne era sicuro, aveva ascoltato il suono oscuro di quel terrore nella voce registrata. Samantha aveva capito che l’avrebbe lasciata di nuovo sola. Infatti, Tom era risalito sul veicolo e se n’era andato. Poco dopo, aveva chiamato il numero delle emergenze.
Da allora, mentre un profiler raccoglieva il racconto della donna in ospedale, la polizia aveva iniziato a battere palmo a palmo la palude in cerca della prigione di Samantha Andretti.
Perché gli sbirri non l’hanno ancora trovata?
Bruno non si era accorto di fissare il vuoto, col bicchiere in una mano e le pillole nell’altra. Un brivido lo attraversò.
Non hanno trovato la prigione perché non è nella palude, si disse. È stato il rapitore a portare lì la ragazza.
Ma perché l’ha fatto?
«Per lo stesso motivo per cui c’era andato Tom» disse Genko a bassa voce. Il giovane bracconiere gli aveva suggerito la risposta. La palude è un perfetto terreno di caccia... E l’animale più difficile da cacciare è l’uomo, si ripeté.
Sam non è evasa, è stato il rapitore a liberarla.
Per Genko fu come un’illuminazione. Il mostro l’aveva portata lì e poi l’aveva lasciata andare. Nuda e sperduta nei boschi che lambivano la palude. Le aveva concesso un discreto vantaggio. Quindi si era messo sulle sue tracce.
Una specie di prova, pensò l’investigatore. Un sadico gioco.
Nella fuga, la preda si era ferita a una gamba. Il predatore l’avrebbe certamente raggiunta, ma si era verificato un imprevisto.
Il pick-up del bracconiere.
Genko posò il bicchiere e le pillole sul comodino e se ne dimenticò. Si scordò perfino che la morte inseguiva anche lui. Si alzò dal letto e iniziò a passeggiare per la stanza. L’adrenalina si era impadronita della sua mente. I tasselli si stavano componendo e di lì a poco avrebbe visto l’intero disegno, ne era convinto.
Cosa ancora non quadrava nella ricostruzione? In effetti, qualcosa c’era.
Perché, dopo la fuga di Tom, il rapitore non ne aveva approfittato per raggiungere Samantha? Poteva trascinarla via con sé. Forse ha temuto che il ragazzo avvertisse subito la polizia, si disse Bruno. Forse credeva di non avere abbastanza tempo per scappare con lei.
Però avrebbe sempre potuto ucciderla.
Adesso la donna forse stava fornendo indizi utili alla cattura del mostro. Perché correre un simile rischio?
C’era soltanto una spiegazione per un comportamento tanto anomalo. Il rapitore aveva avuto paura. Esattamente come Tom, aveva deciso di darsi alla fuga. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Cosa l’aveva spaventato? Doveva mettersi al sicuro. Al sicuro da cosa? Forse aveva timore di essere stato riconosciuto. O che comunque Tom avrebbe presto fornito indicazioni per risalire alla sua identità. Ma ciò avrebbe avuto un senso solo se Tom l’avesse guardato in faccia. Invece il ragazzo aveva visto solo...
«Un coniglio» affermò Genko a voce alta, e si stupì mentre lo diceva.
Perché un uomo con una maschera avrebbe dovuto scappare?
Perché la maschera era di per sé un indizio.