22

Cinque bussate rapide, poi due lente.

Il suono le mise allegria. Poi la porta della stanza si aprì e Green entrò spingendo un carrello con un vecchio televisore. Aveva un sorriso malizioso stampato sulla faccia.

«Ho una buona notizia» annunciò. «La polizia è riuscita a rintracciare tuo padre, si è già messo in viaggio per venire da te.»

Non sapeva come reagire. Avrebbe dovuto mostrarsi contenta, ma non riusciva nemmeno a ricordare la faccia di suo padre. Per non deludere Green, si limitò a sorridere.

Per fortuna, il dottore cambiò subito argomento e indicò il televisore. «L’ho preso in prestito dalla sala infermieri» le confidò, orgoglioso come un bambino che l’ha combinata grossa. «Vorrei mostrarti una cosa.» Quindi posizionò l’apparecchio di fronte al letto.

Mentre l’uomo trafficava con i cavi cercando di collegare il televisore alle prese sul muro, lei si tirò su per seguire meglio l’operazione, incuriosita.

Quando ebbe finito, Green estrasse platealmente il telecomando che aveva infilato nella tasca posteriore dei pantaloni e, come un cowboy in un duello, lo puntò in direzione della tv. «Diamo inizio allo spettacolo» annunciò mentre l’accendeva.

Sullo schermo apparvero le immagini trasmesse in diretta da un canale di notizie. Era sera e si vedeva della gente radunata intorno a una distesa di candele, peluche e fiori. Alcuni cantavano, c’era un clima festoso. Davanti a loro, un ospedale.

«Che stanno facendo quelle persone?» domandò lei, stupita.

Green non le rispose, invece alzò il volume.

«... La polizia ha provato più volte a scoraggiarli, ma continuano ad arrivare» stava spiegando un commentatore. «Sono spinti dal bisogno di portare un segno del loro affetto alla donna ricoverata al Saint Catherine.»

Erano davvero lì per lei? Non ci credeva.

«Samantha Andretti oggi è la figlia e la sorella di ognuno di noi» aggiunse una voce femminile. «Ma è anche l’eroina di tutte le donne che ogni giorno subiscono abusi e violenze per strada, sul posto di lavoro o fra le mura domestiche. Perché Sam ce l’ha fatta: salvando se stessa, ha sconfitto il suo mostro.»

Si commosse. Nel labirinto cercava di trattenere il più possibile le lacrime, perché piangere significava ammettere che il bastardo stava vincendo, che stava indebolendo le sue difese, e che presto lei gli avrebbe ceduto il controllo di sé. Ma adesso poteva finalmente lasciarsi andare. Fu quasi liberatorio.

Sullo schermo, intervenne di nuovo il commentatore. «La donna sta fornendo alla polizia una serie di indicazioni che, già nelle prossime ore, potrebbero portare alla cattura del rapitore...»

L’ultima frase la turbò. Forse Green se ne accorse, poiché spense subito il televisore.

«Perché tutti si aspettano qualcosa da me?» chiese. Ma la domanda vera era: perché non volevano lasciarla in pace?

«Perché nessuno può fermarlo, a parte te» disse il dottore. Poi tornò a sedersi al proprio posto. «Un po’ di tempo fa, in un paesino delle Alpi di nome Avechot, è scomparsa una ragazzina. Anche allora la gente si è radunata davanti alla casa in cui abitavano i genitori, portando doni e pregando. Ma ciò che è accaduto dopo non sarà dimenticato facilmente...»

«Perché mi racconta questa storia?»

«Il motivo è semplice, Sam.» Green si protese verso di lei. «Voglio che ti sbarazzi per sempre di questo incubo. Lo sai meglio di me che, se non lo prendiamo, una volta là fuori non riuscirai ad avere una vita normale...»

Spostò lo sguardo verso il telefono giallo sul comodino. Il dottore aveva ragione: non voleva avere paura di ogni cosa. Se, poco prima, dei semplici squilli l’avevano spaventata a morte, cosa sarebbe accaduto nel mondo esterno? Non ci sarebbe stato sempre un poliziotto fuori dalla porta a proteggerla. E anche se le avessero fornito una nuova identità e un luogo sicuro in cui stare, avrebbe lo stesso trascorso ogni giorno temendo che lui potesse tornare. «Cosa vuole che faccia?» disse, e sembrava decisa.

«Vorrei provare qualcosa di un po’ più... radicale» preannunciò l’altro, e gettò una rapida occhiata alla parete con lo specchio, come se cercasse l’approvazione di quelli che seguivano la scena da lì dietro. «Se sei d’accordo, accelererei la somministrazione dell’antidoto agli psicotici» e indicò la flebo collegata al suo braccio.

Seguì lo sguardo del dottore e fissò la boccia col liquido trasparente. «C’è pericolo?»

Green sorrise. «Non ti farei mai correre dei rischi. L’unica controindicazione è che dopo ti stancherai più in fretta e dovremo sospendere per un po’ la nostra chiacchierata perché tu possa recuperare le forze.»

«Va bene, facciamolo» affermò, senza esitare.

Green si alzò per andare ad armeggiare con la flebo. Mentre girava la piccola valvola che regolava il flusso del medicinale, si rivolse nuovamente a lei. «Ora dovrai scegliere un punto qualsiasi della stanza e concentrare l’attenzione su di esso.»

«Non perderò il controllo, vero?» chiese, timorosa.

«Non voglio ipnotizzarti» la rasserenò il dottore, azionando il registratore. «È solo un esercizio che aiuta a rilassarsi.»

Con gli occhi andò in cerca di un segno o di un oggetto – un luogo neutrale. Scelse una leggera macchia di umidità sulla parete accanto al letto. Aveva una forma regolare che le ricordava un cuore.

Un muro con un cuore, le venne da sorridere. «Sono pronta» annunciò.

«Sam, c’è mai stato un momento quando eri nel labirinto in cui ti sei sentita felice?»

Che razza di domanda era? «Felice?» ripeté, offesa. «Perché avrei dovuto essere felice?»

«Lo so che ti sembra strano, ma dobbiamo esplorare ogni possibile esperienza... In fondo, hai trascorso quindici anni là dentro, non credo che tu abbia provato solo paura o rabbia. Non saresti sopravvissuta così a lungo.»

«Abitudine» rispose, senza neanche sapere da dove fosse venuta quella parola. La corazza che l’aveva tenuta in vita era fatta di piccoli rituali con cui riempire le giornate. Alzarsi, pettinarsi i lunghi capelli, mangiare, andare in bagno, piegare i vestiti, rifare il letto, coricarsi.

«Vedi, Sam, l’orrore è un ottimo nascondiglio per i mostri: i ricordi sono soverchiati dalle emozioni. Se vogliamo scoprire qualcosa sul tuo rapitore, dobbiamo cercarlo altrove. Non solo nelle cose brutte, ma anche nelle cose piacevoli.»

La verità era che, se davvero c’erano stati dei bei momenti, ammetterlo la imbarazzava. Era come confessare di essere stata complice del suo stesso carnefice. Fissò il cuore sul muro e frugò in se stessa...

È in ginocchio sul pavimento, le mani infilate in una bacinella d’acqua fredda. Sta lavando della biancheria. È arrabbiata perché ha dovuto sacrificare una delle piccole taniche che il bastardo le fa trovare ogni tanto e che, di solito, è costretta a centellinare per non morire di sete. Ma le è venuto il ciclo, e le è rimasto solo un paio di mutandine. Maledetto figlio di puttana. Ha completato due riquadri del cubo e gli ha chiesto degli assorbenti: l’ha urlato in giro per il labirinto, sperando che la sentisse. Cosa ti costa un pacco di assorbenti, stronzo schifoso? Biascica insulti comprensibili solo a lei, perché in fondo ha sempre paura di una ritorsione. Le prude il naso, tira fuori una mano dalla bacinella e prova a grattarsi con la punta di un dito. Per farlo, è costretta a sollevare lo sguardo.

Un’ombra strisciante transita davanti alla soglia della stanza.

Lei, per lo spavento, urla e fa un salto all’indietro, finendo con il sedere sul pavimento. Che cazzo era, un topo? Dio, che schifo. Immaginava che ce ne fossero in giro, visto che il labirinto è sicuramente sottoterra. Ma non ne ha mai visto uno. Le viene in mente la figura di un grosso ratto viscido e peloso che si arrampica nel water e sbuca fuori. Pensa anche che le poche provviste rimaste sono accantonate nella stanza accanto. Le scatolette non costituiscono un problema, ma la bestiaccia potrebbe sempre rosicchiare una delle buste col pane affettato oppure dedicarsi alle vaschette di plastica con il disgustoso prosciutto in gelatina che il bastardo compra in grande quantità quando è in offerta al supermercato. Fosse per lei, il ratto potrebbe anche mangiarsi tutto. Ma quegli alimenti sono carburante – se lo ripete sempre quando deve mandare giù un boccone che non le piace. Le servono per resistere e sopravvivere.

Sopravvivere un giorno in più. Resistere a ogni nuovo gioco.

Per questo, per quanto provi ribrezzo, deve andare nella stanza accanto a controllare. Allora si alza e si rende conto che non possiede nulla con cui dare la caccia al topo. Non ha un bastone, né delle scarpe da lanciargli. Però potrebbe sempre usare la federa del cuscino, metterci dentro un po’ di cibo e preparargli una trappola. Sì, può fare così.

Si affaccia in corridoio e si guarda intorno, cercando di scorgere l’animale. Niente di niente. Si avvia nella direzione verso cui ha visto sfilare l’ombra. Passa in rassegna le stanze, finché non arriva a quella che usa come dispensa.

Le scatole, le taniche e il resto delle scarse provviste sono accantonate in un angolo. Lei le guarda ma esita sulla soglia. Poi fa un passo all’interno.

E, in effetti, qualcosa nella piccola catasta si muove.

«Ehi!» dice, come se bastasse a intimidire un ratto di fogna.

Come risposta, un barattolo cade da una pila e rotola fino ai suoi piedi.

Urla ancora. Ma poi raccoglie il barattolo da terra e lo brandisce come fosse un’arma. Gli fracasserà la testolina di merda. Avanza, un passo alla volta. Lentamente si avvicina. Non scorge altri movimenti, ma solleva lo stesso il braccio, pronta a colpire. Si immobilizza.

In mezzo alle provviste non c’è un ratto, ma un gattino che la osserva curioso con occhi grandissimi. E miagola.

Non riesce a crederci. Posa il barattolo e tende le braccia verso di lui. È così felice che le viene da piangere. Ha solo voglia di prenderlo e accarezzarlo. «Su, piccolo...» lo incoraggia. E lui si lascia afferrare. Se lo porta al seno, lo stringe piano per non fargli male. Lo bacia sulla testolina e lui ricambia facendo le fusa.

«Era proprio un gatto?» Green sembrava divertito dalla cosa.

«Sì» confermò lei, ridendone a sua volta. «Pensi se gli avessi tirato quel barattolo, ora non me lo perdonerei.»

«E l’hai tenuto con te?»

«Gli davo da mangiare e dormiva nel mio letto. Giocavamo molto e gli parlavo.»

«Anche a me piacciono i gatti» affermò il dottore. «Immagino sia diventato bello grosso.»

«Un bel gattone» confermò. Era piacevole quel ricordo. Fu grata a Green per averla aiutata a recuperarlo.

«Come è stato? Voglio dire, cosa hai provato?»

«Non mi aspettavo di trovare qualcosa da amare nel labirinto. In effetti, è stato strano» rifletté. «Perché in quel periodo non mi piacevo più. Ero sempre arrabbiata. Ero diventata volgare, sboccata. Anzi, lui mi aveva fatto diventare così... Ma, grazie a quel cucciolo, ho ritrovato una piccola gioia di vivere.»

«Gli hai dato un nome?»

Ci pensò. «No.»

«Perché no?»

Si rabbuiò. «Io non avevo un nome là dentro, nessuno mi chiamava più... I nomi non servono nel labirinto, non hanno alcuna utilità.»

Green sembrò prenderne nota. «Come ti sei spiegata la presenza del gattino?»

Fece una pausa. «Per un po’ ho pensato che fosse un altro dei suoi giochi cattivi. Che me l’avesse regalato solo per costringermi a fare qualcosa di terribile...»

«Cosa ti ha fatto cambiare idea?»

«Ho capito che quel dono non veniva da lui. Ecco perché gliel’ho tenuto nascosto...»

«Ma, scusa, come è possibile? Prima hai detto che ’il labirinto ti guardava’, che ’il labirinto sapeva ogni cosa’.»

Il tono di Green era scettico, non le piaceva. «Infatti è così» confermò, stizzita.

«Sam, sei sicura che ci fosse un gatto con te?»

«Cosa sta cercando di dire, che l’ho solo immaginato?» Per la rabbia le veniva da piangere. «Non sono pazza.»

«Non sto dicendo questo, ma sono comunque perplesso.»

Anche se continuava a parlarle con dolcezza, la stava irritando. «Cosa la rende perplesso?» lo sfidò.

«Le cose sono due: il gatto non era reale... oppure non lo è lui

«Che vuole dire con questo?»

Green ostentava sicurezza. «Chiariscimi una cosa Sam, per favore» disse con tono cortese. «Sembra sempre che tu sappia perfettamente le regole del labirinto, come se qualcuno ti avesse istruito a dovere. Ma come è possibile se lui non ti parlava mai? A volte sembra che tu lo conosca bene, eppure continui a sostenere di non averlo mai visto...»

Ancora quella questione, era stufa di ripetergli che lui non si era mai mostrato. «Perché non vuole credermi?»

«Io ti credo, Sam.»

Distolse lo sguardo dal dottore e lo puntò nuovamente sulla macchia di umido a forma di cuore sul muro. «Non è vero.»

«Sì, invece. Ma vorrei che ti domandassi una cosa... Se non è stato il rapitore a portare il gatto nel labirinto, allora come è entrato?»

Il cuore sul muro pulsò. Non è possibile. Eppure lo aveva visto distintamente, non l’aveva immaginato: si era mosso.

«Io so che conosci la risposta, Sam.»

Un secondo battito. Ecco, l’ha fatto di nuovo. Poi un terzo, e un quarto. E lo sentiva accelerare. Si gonfiava e si sgonfiava. Il muro palpitava insieme a lei.

«Sam, vorrei che ti sollevassi la camicia da notte» disse Green, inaspettatamente. «Vorrei che ti guardassi la pancia...»

«Perché?»

Ma Green tacque.

Esitò, ma poi fece come diceva lui. Prima di tirarsi su la camicia e guardare, infilò le mani sotto la stoffa ed esplorò la pelle con le dita. Girovagando intorno all’ombelico, trovò qualcosa. I polpastrelli sfiorarono una leggera depressione. Un solco ruvido, lineare. Scorrendolo, si accorse che terminava nel basso ventre. Una cicatrice.

«Sei sicura che fosse proprio un gatto, Sam?»

Nelle sue orecchie, la voce del dottor Green fu coperta dal battito. Il cuore sul muro batteva, batteva forte...

È in ginocchio sul pavimento, le mani infilate in una bacinella d’acqua fredda. Sta lavando della biancheria. È arrabbiata perché ha dovuto sacrificare una delle piccole taniche che il bastardo le fa trovare ogni tanto e che, di solito, è costretta a centellinare per non morire di sete. Ha completato due riquadri del cubo e gli ha chiesto dei pannolini: l’ha urlato in giro per il labirinto, sperando che la sentisse. Cosa ti costa un pacco di pannolini? Biascica insulti comprensibili solo a lei, perché in fondo ha sempre paura di una ritorsione. Le prude il naso, tira fuori una mano dalla bacinella e prova a grattarsi con la punta di un dito. Per farlo, è costretta a sollevare lo sguardo.

Un’ombra gattona davanti alla soglia della stanza.

Allora si alza e le corre dietro. La sente ridere mentre cerca di sfuggirle. È un gioco, l’unico gioco buono del labirinto. La insegue, lei si volta e la osserva curiosa con occhi grandissimi. E le sorride. Poi tende le braccia alla sua mamma. Lei la prende. È così felice che le viene da piangere. Ha solo voglia di accarezzarla. La sua bambina. «Su, piccola...» la incoraggia. Se la stringe al seno. La bacia sulla fronte, e lei ricambia posando il capo sulla sua spalla.

La sua nascita ha cambiato tutto. È diventata la ragione più importante per andare avanti. Per fortuna è passato il periodo peggiore, quando la neonata non cresceva abbastanza perché là sotto non c’è la luce del sole. Il latte in polvere che non bastava mai e poi gli omogeneizzati da razionare. E quella volta del raffreddore, con la tosse che non voleva passare. Ha sempre paura che possa ammalarsi, perché è troppo fragile e piccola, e nessuno può aiutarle se succede qualcosa. Mentre dormono insieme sul materasso gettato per terra, lei le posa una mano sul torace per controllare che respiri. E sente anche il suo cuore piccino...

Il cuore sul muro cessò di pulsare. «Perché l’ho dimenticato?» chiese, gli occhi pieni di lacrime.

«Non credo che tu l’abbia dimenticato, Sam» la consolò il dottor Green. «La colpa è dei farmaci con cui ti imbottiva il rapitore per esercitare un controllo su di te.»

Aveva paura di fare la domanda successiva, ma doveva sapere. «Che fine ha fatto quella bambina, secondo lei?»

«Non lo so, Sam. Ma forse lo scopriremo insieme...» Si alzò e andò verso la flebo, riducendo nuovamente il flusso dell’antidoto. «Adesso, però, devi dormire un po’. Riprenderemo più tardi la conversazione.»

L'uomo del labirinto
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