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Una stretta fortissima alla gola, la bocca spalancata in cerca di ossigeno – disperatamente. Il modo peggiore per svegliarsi da un sonno profondo come la morte: scoprire di essere vivi solo per dover morire ancora – dolorosamente.
L’energumeno alle spalle di Genko non mollava la presa. Sentiva il possente avambraccio che serrava la morsa, implacabile. L’investigatore provò a strapparsi via quell’arto dal collo, ma le sue dita continuavano a scivolare sulla pelle dell’assalitore bagnata di pioggia. Avrebbe voluto avere il tempo di spiegare a Paul Macinsky perché era entrato in quel modo in casa sua, come un ladro. Dirgli che comprendeva la sua reazione ma che, considerando la situazione, era anche esagerata. Avrebbe voluto dire tutto questo all’uomo che stava per ammazzarlo. Ma poi scorse il suo riflesso nel televisore spento che aveva di fronte.
L’energumeno aveva una macchia scura sul lato destro del volto.
Non era Paul Macinsky. Era Sullivan.
Per questo il vecchio mi ha aiutato. Mi ha mandato qui e, in qualche modo, ha avvertito il suo discepolo. Mi ha fatto finire in trappola.
Bunny non aveva più bisogno della maschera da coniglio, finalmente erano faccia a faccia. E anche lui lo stava fissando attraverso lo schermo. Non c’era odio nei suoi occhi lucidi come biglie, nemmeno rabbia. Sembrava una fredda e lucida voglia di uccidere.
Il disegno di Meg Forman – il caldo oceano, la barca, il sole. Il paradiso immaginato da una bambina. L’ho meritato, mi spetta – si convinse Bruno. «Dio è un bambino, non lo sapeva?» aveva detto la suora del porto. «Per questo quando ci fa del male non se ne rende conto.»
Genko iniziò ad accettare il dolore della fine.
Scie brillanti, simili a graziose fatine, iniziarono a danzargli nello spettro visivo. I polmoni si svuotavano rapidamente e ormai annaspava. Il caldo oceano, la barca, il sole – gli sembrava quasi di vederli. Sto arrivando, disse. Si sentì strattonare verso l’alto e tirò indietro il capo. Fu quasi un riflesso incondizionato. Tuttavia, riuscì ad assestare una botta involontaria al naso dell’assalitore.
Stordito dalla reazione imprevista, Robin Sullivan allentò un poco la presa. Bruno ne approfittò per sottrarsi totalmente alla sua stretta, poi diede un colpo di reni per alzarsi dalla poltrona. Cadde in avanti, atterrando con le mani sulla moquette lurida. Provò a respirare, ma ci riuscì a malapena solo al terzo tentativo. Si voltò per controllare l’aggressore: Bunny perdeva sangue dal naso e le lacrime gli offuscavano la vista. Ciò, però, non gli impedì di avventarsi nuovamente su Genko. Lo afferrò per la caviglia, ma l’investigatore riuscì a sfilare la gamba, quindi scattò in avanti, allontanandosi dal mostro ma anche dalla porta d’ingresso. In realtà non sapeva dove stava andando, si comportava come una mosca che non riesce ad accorgersi dello spiraglio in una finestra aperta e rimane prigioniera della propria stupidità.
Così, barcollando, si ritrovò in cucina. L’unico locale della casa che non aveva perlustrato.
E si sentì sollevato quando vide che, di fianco a un vecchio frigorifero con lo sportello ricoperto da magneti, c’era un’uscita che dava su un cortile posteriore.
Genko si accorse che, nel frattempo, Bunny si era ripreso e l’aveva già puntato.
Essere fuori dalla casa non voleva dire essere anche in salvo, ma era comunque un ottimo stimolo per non darsi per vinto. Con le poche forze che gli restavano si diresse verso la porta, sperando che non fosse chiusa come poche notti prima alla fattoria dei Wilson, mentre Bunny lo seguiva esattamente come adesso.
Afferrò la maniglia, tirò: la porta era aperta. Stava per muovere un passo fuori, ma indugiò. Gli sembrò che accadesse tutto lentamente. Sentì il proiettile che gli si conficcava nella schiena, dritto fra le scapole. Un pezzo di metallo rovente che gli scavava le carni.
Ma non aveva udito alcuno sparo. Come è possibile? si chiese.
La sensazione era di essere stato trapassato da una pallottola. Ma quando chinò il capo si accorse che mancava il foro d’uscita sul torace. Prima di darsi una spiegazione, sentì le gambe che cedevano: cadde in ginocchio. Nelle orecchie, una percussione profonda e controtempo – era il suo cuore che perdeva il ritmo dei battiti.
Nessuno aveva sparato.
Era l’infarto fatale che attendeva da giorni.
Bruno Genko mollò la maniglia, fece una breve piroetta sulle ginocchia, appoggiò le spalle allo sportello del frigo e si lasciò scivolare fino al pavimento portandosi appresso una cascata di magneti colorati.
Sospeso fra la vita e la morte, i suoi occhi si posarono distrattamente su una calamita in particolare: una palma tropicale. Sotto di essa, c’era un disegno.
Lo stile e i colori erano inequivocabili. Era stato fatto da un bambino.
Ritraeva un grosso coniglio con gli occhi a forma di cuore che teneva per mano una bambina dai capelli biondi.
Ma ciò che stupì Genko fu la firma apposta sotto l’opera. Soltanto il diminutivo del nome di battesimo.
«Meg.»